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				 potere e movimenti 
                  
                La lotta di classe  dei ricchi contro i poveri 
                  
                di Antonio Senta 
                    
                La politica dell'austerità dagli anni settanta ai giorni nostri e le “disuguaglianze insostenibili”. 
                 
                  Loro fanno la lotta di classe...  
                  Edoardo Sanguineti 
                 
                  A metà anni settanta Samuel 
                  P. Huntington, insieme a Michel Crozier e Joji Watanuki, pubblicano 
                  The crisis of democracy. Esso diventa il programma per 
                  tutti quegli organismi internazionali di governo più 
                  o meno formali che vanno dal Fondo monetario internazionale 
                  ai vari G7, G8, G10, G20, dal Gruppo Bilderberg alla Banca mondiale, 
                  dalla Commissione trilaterale alla Banca centrale europa e all'Unione 
                  Europea. Due anni più tardi, nel 1977, Franco Angeli 
                  ne stampa un'edizione italiana, con introduzione di Gianni Agnelli. 
                  L'obiettivo di questa pubblicazione è quello di individuare 
                  i modi migliori per garantire la “governabilità”. 
                  Di cosa si tratta? Secondo Huntington: “la governabilità 
                  di una democrazia dipende dal rapporto tra l'autorità 
                  delle sue istituzioni di governo e la forza delle sue istituzioni 
                  di opposizione” (La crisi della democrazia, 1977, 
                  p. 91). Nell'introduzione all'edizione italiana Agnelli chiarisce 
                  che il fine della governabilità è trasformare 
                  la conflittualità in cooperazione, dal momento che la 
                  democrazia è minacciata dalla “cultura antagonista” 
                  (Ivi, 1977, p. 23). 
                  La stangata, ovvero “la politica dei sacrifici” 
                 All'inizio degli anni settanta si chiude il ciclo espansivo 
                  della ricostruzione post bellica con la fine del sistema monetario 
                  di Bretton Woods prima (1971) e l'esplosione della crisi petrolifera 
                  poi (1973). In tutto l'occidente si moltiplicano fenomeni di 
                  stagnazione e recessione e aumenta progressivamente il tasso 
                  di disoccupazione. In Italia la crisi è più forte 
                  che altrove con un'inflazione intorno al venti-venticinque per 
                  cento, il tasso più alto tra tutte le economie occidentali. 
                  Questa politica dell'austerità tende a contrastare le 
                  conquiste operaie dell'autunno caldo (1969) da parte di un movimento 
                  che raggiunge il proprio apice nella primavera del 1973 con 
                  l'occupazione di Mirafiori (L'organizzazione diretta degli 
                  operai dentro la crisi, in “Collegamenti per l'Organizzazione 
                  Diretta di Classe”, marzo 1977) e che ottiene aumenti 
                  salariali di quasi il 50 per cento del valore iniziale e una 
                  significativa riduzione dell'orario di lavoro (da 45 a 38 ore) 
                  in una prospettiva di piena occupazione. Tutte questioni interne 
                  a una lotta più generale che nei suoi settori più 
                  avanzati ha anche come obiettivi il salario egualitario, l'autonomia 
                  proletaria, la riappropriazione materiale, nonché la 
                  ricerca di un “diverso modello di sviluppo” in grado 
                  di mettere in discussione il paradigma del modo di produzione 
                  capitalistico. È un ciclo di lotte che comporta una significativa 
                  ridistribuzione della ricchezza prodotta e una parziale riduzione 
                  dei ruoli di potere risultato di quella “cultura antagonista”, 
                  che è la nemica giurata di Gianni Agnelli. 
                  Contro questa conflittualità operaia e sociale e per 
                  garantire a sé la “governabilità” 
                  (la gestione esclusiva del potere) le classi dirigenti reagiscono 
                  in diverse maniere, in primo luogo con la repressione militare: 
                  omicidi mirati, decine di migliaia di imprigionati, stragi di 
                  stato. Noi sappiamo tutto della strategia dello stragismo: che 
                  fu orchestrata dalla Cia, che fu avallata dagli organismi internazionali 
                  di governo, che fu attuata dalla struttura Gladio (Stay Behind) 
                  in supporto ai servizi segreti (non deviati) italiani, per scoraggiare 
                  ipotesi riformiste e “di sinistra”. È quello 
                  che afferma anche ormai un Presidente onorario aggiunto della 
                  Suprema Corte di Cassazione (Ferdinando Imposimato il 15 gennaio 
                  2013 durante la presentazione napoletana del suo libro La 
                  repubblica delle stragi impunite). 
                  The crisis of democracy analizza altre tecniche di rafforzamento 
                  della “governabilità” che si affiancano all'azione 
                  manu militari, e di cui gli autori possono scrivere più 
                  liberamente: rafforzare il potere esecutivo, ridurre l'indipendenza 
                  dei mass media, liberarsi dall'“eccesso di democrazia” 
                  favorendo l'apatia e il disimpegno tra i governati (La crisi 
                  della democrazia, cit., pp. 108-109). Come scrive Agnelli 
                  senza tanti fronzoli, il grado di democrazia e quello di governabilità 
                  sono inversamente proporzionali tra loro. Più un sistema 
                  è democratico meno è governabile. Se questi sono 
                  i desiderata delle élite transnazionali di governo, 
                  dei gruppi multinazionali e finanziari, essi collimano non a 
                  caso con il famoso piano di rinascita democratica della P2 di 
                  Gelli: concentrazione dei media, stravolgimento di partiti e 
                  sindacati, esecutivo forte; proprio quello che è avvenuto 
                  e sta avvenendo in Italia, last but not least la trasformazione 
                  in fieri del sistema politico e istituzionale italiano 
                  in repubblica presidenziale (cfr. Nico Macce, Quasi settant'anni 
                  di quasi democrazia. Anzi, per nulla, in carmillaonline.com, 
                  2 agosto 2013). 
                  In Italia come altrove il programma di governo è oggi 
                  ancora quello tracciato a metà dagli settanta da Huntington 
                  e compagnia e il concetto della governabilità è 
                  apertamente assunto come programma di governo globale. La nota 
                  banca Jp Morgan l'ha messo nero su bianco senza reticenze in 
                  un suo report del 28 maggio 2013: le cause della crisi non sono 
                  economiche, ma politiche: “le costituzioni” riflettono 
                  “la forza politica che i partiti di sinistra hanno guadagnato 
                  dopo la sconfitta del fascismo”, basti pensare al “diritto 
                  di protestare se i cambiamenti sono sgraditi” o al riconoscimento 
                  della “tutela costituzionale dei lavoratori”, tutte 
                  garanzie oggi non più tollerabili (cfr. Luca Pisapia, 
                  Ricetta Jp Morgan per Europa integrata: liberarsi delle costituzioni 
                  antifasciste, in “Il Fatto Quotidiano”, 19 giugno 
                  2013). 
                  
                Una spirale di inuguaglianze   
                 La questione dei diritti è centrale e proprio la costituzione 
                  materiale è l'oggetto della odierna lotta di classe dei 
                  ricchi contro i poveri. Ovviamente, nel 1975 come oggi, non 
                  si tratta di “crisi della democrazia”, ma di crisi 
                  di consenso e autorità delle élites (Domenico 
                  Moro, Club Bilderberg, gli uomini che comandano il mondo, 
                  Aliberti, p. 127). Per ristabilire tale autorità, per 
                  vincere la propria battaglia le élite internazionali 
                  di governo scatenano una reazione che trova attuazione nei programmi 
                  neoliberisti degli ultimi trentacinque anni: centralità 
                  del mercato, privatizzazioni, flessibilità del mondo 
                  del lavoro, all'interno di una politica di austerità 
                  varata in nome della lotta all'inflazione e che viene fatta 
                  accettare attraverso una politica di concertazione neocorporativa 
                  con i sindacati. 
                  Ecco perché il parlamento italiano, alla pari di quelli 
                  di altri paesi europei come la Francia, la Spagna, la Grecia 
                  e il Portogallo, ha introdotto in un batter d'occhio nella costituzione 
                  il vincolo di ridurre il debito sovrano dall'attuale 130 per 
                  cento al 60 per cento sul pil, da raggiungersi attraverso un'ulteriore 
                  dismissione del patrimonio pubblico, ulteriori privatizzazioni, 
                  liberalizzazioni (dal mercato dei capitali al mercato del lavoro, 
                  alle “utility”: acqua, elettricità, trasporti) 
                  e tagli alla spesa. 
                  Una dopo l'altra si susseguono misure che sottraggono quote 
                  sempre crescenti del prodotto sociale, misure che hanno già 
                  posto le basi per lo scoppio dell'ultima crisi nel 2007. È 
                  allora che gli stati sono intervenuti in maniera massiccia in 
                  soccorso del settore privato, causando così una repentina, 
                  e ulteriore, espansione del rapporto tra debito pubblico e prodotto 
                  interno lordo. Fatto ciò, siamo entrati nel mezzo di 
                  un'offensiva del settore privato e statale insieme, in cui l'austerità 
                  ha l'effetto della distruzione progressiva dei servizi sociali 
                  e di riduzione della spesa pubblica (mai di quella militare) 
                  – alimentando una spirale di ineguaglianze. (Giorgio Ruffolo 
                  e Stefano Sylos Sabini, Le disuguaglianze insostenibili, 
                  in “La Repubblica”, 9 luglio 2013). 
                  Un eccesso di democrazia? 
                 Austerità significa infatti lotta di classe dei ricchi 
                  contro i poveri, una “redistribuzione al contrario” 
                  per cui banche, fondi di investimento, le grandi imprese, lo 
                  stato drenano verso l'alto redditi da lavoro e risparmi delle 
                  famiglie. Cosa significhi tutto ciò lo dicono i dati, 
                  in Italia crudi più che altrove: disoccupazione giovanile 
                  al 50 per cento, 6 milioni quattrocentomila tra disoccupati, 
                  “inoccupati” e “sottoccupati”, otto 
                  milioni di pensionati ricevono una pensione inferiore a mille 
                  euro al mese, due milioni non arrivano a 500 euro, quasi tre 
                  milioni e mezzo di lavoratori precari, il cui reddito medio 
                  è di 927 euro mensili per gli uomini e 759 euro per le 
                  donne. Il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede 
                  quasi il 45 per cento della ricchezza totale, il 50 per cento 
                  delle famiglie più povere non più del 10 per cento 
                  (Sergio Segio, a cura di, Rapporto sui diritti globali. Il 
                  mondo al tempo dell'austerity, Ediesse, 2013). L'Italia 
                  è il secondo paese europeo, dietro al Regno Unito, con 
                  la maggiore diseguaglianza nella distribuzione dei redditi. 
                  Ma è questa una dinamica in linea con quella di molti 
                  altri paesi, Stati Uniti su tutti, se è vero che negli 
                  ultimi trenta anni l'1 per cento della popolazione statunitense 
                  ha triplicato la sua ricchezza (Exclusive Interview: Joseph 
                  Stiglitz Sees Bleak Future for America If We Don't Reverse Inequality, 
                  in alternet.org, 24 giugno 2012) e se è vero che percentuali 
                  simili di disoccupazione ci sono in Spagna, Grecia e Portogallo. 
                  Questa lotta di classe dei ricchi contro i poveri è dispiegata 
                  per mezzo degli stati, il cui ruolo risulta fondamentale. Un 
                  errore di parte del movimento noglobal è stato quello 
                  di minimizzare il ruolo degli stati nazionali, spesso contrapponendo 
                  questi ultimi alle corporations o multinazionali, o comunque 
                  scomponendo il problema nel rispetto del mantenimento delle 
                  istituzioni, dello stato. Alcuni ripropongono ancora la stessa 
                  analisi sostituendo alle “multinazionali” i “mercati”, 
                  la “finanza”, la cui dittatura comporterebbe uno 
                  stato d'eccezione (sovranazionale) rispetto alla normalità 
                  dello stato di diritto (nazionale) (a es.: Ida Dominijanni, 
                  Nello stato d'eccezione, in “Il Manifesto”, 
                  19 novembre 2011, p. 14; Andrea Fumagalli, Collettivo di UniNomade, 
                  Il diritto alla bancarotta come contropotere finanziario, 
                  in “Il Manifesto”, 1 settembre 2011, p. 15). 
                  Gli stati nazionali mettono in opera e difendono, tramite il 
                  monopolio dell'uso della forza, agende stabilite in maniera 
                  concorde a livello globale da una aristocrazia internazionale 
                  di governo. Dagli anni settanta a oggi gli stati nazionali, 
                  ancora una volta in nome della “governabilità”, 
                  hanno rafforzato le proprie funzioni di gendarmi e detentori 
                  legittimi della forza, delegando il proprio potere su questioni 
                  quali il bilancio, il debito e il deficit pubblico a entità 
                  sovranazionali come l'Unione Europea. Hanno svolto un ruolo 
                  di assoluto protagonismo nello smantellamento del proprio welfare 
                  e nella distruzione dei diritti dei lavoratori, sono stati artefici 
                  di quelle misure necessarie a contrastare “l'eccesso di 
                  democrazia” e a dare vita a una vera Restaurazione. 
                  Se anche Habermas dice che... 
                 Il capitalismo, scrive Braudel ne La dinamica del capitalismo, 
                  trionfa quando si identifica con lo stato, quando è 
                  lo stato (La dinamica del capitalismo, Il Mulino, 1981, 
                  p. 76). Il suo trionfo oggi coincide con quella “accumulazione 
                  tramite spoliazione” individuata da David Harvey (La 
                  guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo, Il Saggiatore, 
                  2007), in cui il capitale non si limita a “sussumere” 
                  il lavoro, ma – come sostengono Toni Negri e Michael Hardt 
                  in Comune. Oltre il privato e il pubblico (Rizzoli, 2010, 
                  p. 147), assorbe la vita umana in tutti i suoi aspetti. Lo vediamo 
                  con i nostri occhi: il capitale da una parte mette a valore 
                  territori e risorse naturali, dall'altra assoggetta la produzione 
                  umana, dentro e fuori l'orario di lavoro, dentro e fuori l'impresa 
                  capitalista. 
                  A fronte di tutto ciò non è un caso se il grande 
                  moderato della filosofia Jürgen Habermas scrive oggi che 
                  i mercati hanno esautorato di fatto il suffragio universale 
                  e giudica necessaria una legittimazione popolare di quanto sta 
                  avvenendo. Non deve stupire d'altra parte che coloro che fino 
                  a pochi anni fa si facevano paladini del piùù 
                  spietato neoliberismo, arrivando a teorizzare il capitalismo 
                  come acme e fine della storia, ora discettano della necessità 
                  di arginare le disuguaglianze prodotte dalla crisi. È 
                  il caso di Francis Fukuyama, già corifeo del trionfo 
                  capitalista con il suo La fine della storia e l'ultimo uomo, 
                  Rizzoli, 2003, che oggi scrive della ribellione di una nuova 
                  classe media globale che chiede democrazia, diritti e una politica 
                  diversa (The Middle-Class Revolution, online.wsj.com, 
                  28 giugno 2013).
                  Antonio Senta
                  Questo è il primo di una serie di scritti di Antonio 
                  Senta dal titolo Devrim imdi (La rivoluzione è 
                  adesso). Nei prossimi numeri saranno analizzate le rivolte e 
                  i nuovi movimenti che si sono affacciati recentemente sulla 
                  scena mondiale.
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