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                 La domanda del titolo non è retorica. 
                  Sono passati trent'anni da quel pomeriggio del 12 dicembre 1969 
                  quando una bomba nella Banca nazionale dell'agricoltura provocò 
                  16 morti e quasi un centinaio di feriti. Trent'anni... E chi 
                  si ricorda bene che cosa si stava vivendo allora? In quegli 
                  anni molti giovani volevano dare "la scalata al cielo" 
                  per cambiare la situazione sociale, molti operai contestavano 
                  le condizioni di vita nelle fabbriche. Tanti mettevano in discussione 
                  le gerarchie sociali e politiche, l'autorità. Insomma 
                  c'era fermento, si ponevano domande nuove perché le risposte 
                  tradizionali non soddisfacevano più. Adesso, ovviamente, 
                  tutto è cambiato come sono cambiati i "quattro amici 
                  al bar" della canzone di Gino Paoli. Non c'è da 
                  stupirsi. Ma domandarsi perché ci sono stati tanti morti 
                  (pensiamo alle stragi che sono seguite a piazza Fontana) è 
                  forse ancora utile. Dopo tutto si tratta di capire perché 
                  oggi viviamo in un certo modo piuttosto che in un altro. Particolare 
                  non irrilevante.  
                  Bisogna, quindi, ricordare che trent'anni fa c'era in ballo 
                  un "gioco grosso": l'Italia si stava spostando "a 
                  sinistra" e il monopolio politico della Democrazia cristiana 
                  rischiava di spezzarsi. Un'eventualità che gli Stati 
                  Uniti non potevano assolutamente permettersi proprio nel momento 
                  in cui stavano combattendo in Estremo Oriente, in America Latina 
                  e in Africa l'avanzata del comunismo.  
                  Ed è per questa ragione che un Paese irrilevante nel 
                  contesto internazionale è divenuto luogo di scontro. 
                  Insomma l'Italietta degli anni Sessanta e Settanta è 
                  diventata di colpo una pedina fondamentale nella scacchiera 
                  disegnata dalla Casa Bianca e dal Pentagono. E il gioco si è 
                  fatto duro. 
                  La Cia ha orchestrato, i servizi segreti italiani hanno obbedito, 
                  sia aiutando i neonazisti che mettevano le bombe, sia indicando 
                  gli anarchici come autori degli attentati. E i politici al potere 
                  hanno utilizzato manovrando e ispirando questa strategia. Ecco 
                  in sintesi il gioco duro. Poi al terrorismo di destra ha fatto 
                  da contraltare il terrorismo di sinistra e di lotte sociali 
                  per cambiare la situazione non se n'è più parlato. 
                  Insomma, la strategia della tensione ha funzionato. Eccome! 
                  Perché quelle bombe hanno scritto la storia.  
                  Semplificando, ma non travisando, si può dire che per 
                  un quarto di secolo hanno mantenuto l'egemonia democristiana. 
                  E che poi quel sistema politico bloccato sia naufragato nel 
                  sistema di corruzione tangentizia è un altro discorso. 
                  A quel punto, primi anni Novanta, si era già dissolto 
                  il grande nemico degli Stati Uniti: "l'impero del male" 
                  aveva pensato bene di suicidarsi. Quindi anche l'Italia non 
                  necessitava più di una tutela tanto rigida: oggi può 
                  anche avere come presidente del consiglio un ex comunista, dopo 
                  tutto non dice cose di sinistra, come lamentava Nanni Moretti. 
                  Ora sul piano storico è chiaro (soltanto pochi stupidi 
                  o tanti in malafede possono sostenere il contrario) che la strage 
                  di piazza Fontana, ma non solo quella, è una strage di 
                  Stato perché chi comandava vi è coinvolto. E non 
                  ha pagato, anzi. È altrettanto chiaro che la società 
                  italiana ha imboccato un percorso obbligato, così come 
                  è evidente che la "frattura" provocata dalle 
                  bombe ha modificato il modo di percepire il confronto politico. 
                  Ed è proprio da queste constatazioni che dobbiamo partire 
                  per mettere in evidenza l'attualità (sembra incredibile) 
                  di un fatto accaduto trent'anni fa.  
                  Piazza Fontana non è un accidente storico, non è 
                  qualcosa di anomalo e irripetibile (anche se nulla si ripete 
                  mai allo stesso modo). Anzi è il luogo nascosto, ma fondante, 
                  del cosiddetto patto sociale. Ogni Stato nel suo momento costitutivo 
                  mette in campo la violenza: conquista di territori, imposizione 
                  di regole non accettate liberamente dai "cittadini", 
                  determinazione delle sanzioni e così via. Lo Stato moderno 
                  non si sottrae a questa logica. Quando gli "interessi vitali 
                  della nazione" sono messi seriamente in discussione prevale 
                  la "ragion di Stato". Questa può manifestarsi 
                  con la forma tradizionale della violenza o assumere connotati 
                  meno vistosi, ma non meno produttivi di risultati: coercizione 
                  spacciata per aiuto, condizionamento psicologico, esaltazione 
                  di consumi inutili, ricatto economico, esclusione.  
                  La lista potrebbe continuare. Le bombe sono, dunque, soltanto 
                  uno degli strumenti che il potere può usare per ottenere 
                  il consenso e l'obbedienza. Qui siamo al nocciolo del problema: 
                  i due termini (obbedienza e consenso) costituiscono l'elemento 
                  necessario perché ogni potere possa manifestarsi e svilupparsi. 
                  E per ottenerlo, se è necessario, si ricorre anche alle 
                  bombe e ai morti. 
                  Trent'anni fa in Italia si sono usate le bombe, domani potrà 
                  essere messo in campo qualche altro strumento, ma il fine sarà 
                  sempre lo stesso: obbedienza e consenso. Perché ciò 
                  che più teme il potere è il famoso e sempre in 
                  agguato "mi rivolto, dunque siamo" di Albert Camus. 
                  Per tutti questi attentati la polizia ha seguito la pista anarchica. 
                  Per l'attentato più grave, quello del 12 dicembre, viene 
                  arrestato e accusato l'anarchico Pietro Valpreda.  
                  Mentre Giuseppe Pinelli, altro anarchico fermato, "vola" 
                  dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano, nella 
                  notte tra il 15 e il 16 dicembre. 
                  Ecco sintetizzato il momento più alto della strategia 
                  della tensione. Altre bombe seguiranno.  
                  Le più "famose": piazza della Loggia a Brescia 
                  il 28 maggio 1974 (otto morti e un centinaio di feriti); stazione 
                  di Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti e decine di feriti).  
                  Per piazza Fontana si assiste a un'incredibile inchiesta condotta 
                  a senso unico dai magistrati Vittorio Occorsio ed Ernesto Cudillo 
                  e a una sequenza di processi dal 1972 al 1991. Risultato? Né 
                  gli anarchici inizialmente accusati, né i neonazisti 
                  (soprattutto Franco Fredae Giovanni Ventura) successivamente 
                  incriminati verranno condannati. Tutti assolti per insufficienza 
                  di prove.  
                  Neppure alcuni dirigenti del Sid accusati di favoreggiamento 
                  e depistaggio, e condannati, finiranno in prigione. Mentre i 
                  politici coinvolti hanno potuto tranquillamente continuare la 
                  loro attività. Nel febbraio 2000 inizierà un nuovo 
                  processo contro quattro neonazisti ritenuti responsabili (oltre 
                  a Freda e Ventura, non più processabili) degli attentati 
                  del 12 dicembre: Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni 
                  e Carlo Digilio. 
                   
                  Luciano Lanza 
                  (da Libertaria n. 1/99) 
                  
                 
                  
                     
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                        È 
                          uscito l'atteso n. 1 di Libertaria (sottotitolo: 
                          "il piacere dell'utopia"), la nuova rivista 
                          trimestrale, nostra cugina (fa parte della medesima 
                          cooperativa editrice), che raccoglie l'eredità 
                          cinquantennale di Volontà. Copertina in 
                          quadricromia, 144 pagine (ma i prossimi numeri ne avranno 
                          96), grafica molto curata (si vede il segno di Ferro 
                          Piludu, che per vari anni, a cavallo tra i '70 e gli 
                          '80 "marcò" anche la nostra rivista), 
                          Libertaria contiene pezzi di Luciano Lanza (piazza Fontana), 
                          Aldo Giannuli (il PCI e le stragi), un'intervista (sempre 
                          di Lanza, sempre su piazza Fontana) al giudice Guido 
                          Salvini, un'intervista di Salvo Vaccaro a Pietro Barcellona 
                          sulla modernità, due opinioni a confronto sulla 
                          guerra nei Balcani (Noam Chomsky contro, Giulio Giorello 
                          pro), alcune pagine storiche (curate da Giampietro "Nico" 
                          Berti) sul dibattito tra anarchici di fronte al primo 
                          conflitto mondiale. E poi un pezzo dall'interno del 
                          mondo editoriale, l'immaginario libertario di Castoriadis 
                          (di Fabio Ciaramelli), nuovi percorsi per l'anarchismo 
                          (di Thomas S. Martin), i film di guerra (Goffredo Fofi), 
                          un'intervista di Franco Bunçuga all'anarchico 
                          Harald Szeeman alla guida della Biennale veneziana. 
                           
                          Il secondo appuntamento con Libertaria è 
                          fissato per il 10 gennaio con il numero 1 del 2000, 
                          che i seguaci di Karol Wojtila chiamano "anno santo". 
                          In quell'occasione non può mancare un articolo 
                          su fatti e misfatti del Giubileo a firma di Angelo Quattrocchi. 
                          Sui cambiamenti che stanno interessando la scuola c'è 
                          un'intervista al pedagogista Riccardo Massa. Mentre 
                          la "questione immigrazione" viene affrontata 
                          secondo prospettive diverse: il chador delle donne islamiche 
                          in Italia (Franco La Cecla) e la società multietnica 
                          di fronte al nascente razzismo con due diversi pareri 
                          dei sociologi René Lourau e Alessandro Dal Lago. 
                          E ancora: i difficili e ineguali rapporti tra Nord e 
                          Sud del mondo trovano diversa eco nell'inchiesta di 
                          Rodrigo Andrea Rivas (le ragioni della crescente povertà 
                          del terzo mondo) e nell'osservatorio di Salvo Vaccaro 
                          (il rinnovo del trattato di Lomé). La sezione 
                          monografica è dedicata a un'analisi e a una loro 
                          problematizzazione delle idee fondanti del pensiero 
                          anarchico (Nico Berti). Chiudono il numero una rassegna 
                          critica dei recenti (ma non solo) libri sulla guerra 
                          di Spagna (Claudio Venza) e una fantasmagorica rivisitazione 
                          (di Mauro Macario) dell'opera di Fabrizio De Andrè 
                          a un anno della sua morte. Infine, nella sezione Archivio, 
                          un inedito in italiano dell'anarchico statunitense Paul 
                          Goodman su autonomia e libertà. 
                        
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