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                  Libera 
                  sperimentazione 
                 Ho letto con molto interesse l'articolo di Luigi Fabbri "Libera 
                  sperimentazione" con introduzione di Pietro Adamo apparso 
                  su A 256 (giugno '99). In particolare nell'introduzione si individuano, 
                  a mio avviso, alcuni concetti e necessità fondamentali 
                  per l'agire politico degli anarchici oggi.  
                  Positivo inoltre mi appare l'uso di alcuni termini, come "revisionismo", 
                  o "transizione", affermati come problematiche da affrontare 
                  e non più come epiteti da scomunica. Penso anche io, 
                  nell'accettazione malatestiana riportata da Adamo, che l'anarchismo 
                  abbisogni di una revisione costante, senza cioè rifarsi 
                  dogmaticamente ai padri, ma nell'intento di collocare quelle 
                  riflessioni e quelle analisi alle contingenze attuali. 
                  Non condivido però la visione eccessivamente schematica 
                  e un po' caricaturale che Pietro Adamo disegna dell'anarchismo 
                  storico e militante. 
                  Un generico prima, dove gli anarchici cedendo e scimmiottando 
                  il credo dei comunisti autoritari si dichiarano dogmaticamente 
                  comunisti per quanto riguarda l'organizzazione economica futura, 
                  e un dopo dove, in contrapposizione all'imposizione statale 
                  di un unico modello organizzativo avvenuto nella Russia sovietica 
                  dopo la rivoluzione d'ottobre, si fa strada una concezione di 
                  "libera sperimentazione" di più vari modelli 
                  sociali ed economici. Sarebbe solo il caso di ricordare che 
                  la NEP (Nuova Politica Economica) non può essere certo 
                  scambiata come una imposizione ed "espropriazione comunista" 
                  da parte dello Stato sovietico dei piccoli priprietari, casomai 
                  il contrario, e che i successivi Piani quinquennali o la collettivizzazione 
                  forzata di staliniana memoria, più che un modello di 
                  comunismo espropriatore, rappresentò una necessità 
                  economica di un capitalismo arretrato che non l'imposizione 
                  statale, cioè con la violenza organizzata, impose una 
                  accelerazione alla propria accumulazione originaria. Qui la 
                  discussione ci porterebbe veramente lontano e non è questo 
                  che mi preme discutere.  
                  Tornando a noi, non vi è mai stata questa separazione 
                  tra un prima e un dopo nel movimento anarchico, anzi gli anarchici 
                  fin dagli albori delle prime associazioni operaie e politiche 
                  del movimento operaio internazionale si sono posti e caratterizzati 
                  per una sorta di "libera sperimentazione" sia sul 
                  piano politico che economico. Basti pensare alla spaccatura 
                  all'interno della I internazionale ed alla battaglia ingaggiata 
                  da Bakunin e dai suoi seguaci contro la Risoluzione n. 9 del 
                  Consiglio di Londra ed in particolare alla tesi conclusive del 
                  Congresso di S. Imier, (1872) da cui storicamente nasce l'anarchismo 
                  organizzato a livello internazionale. 
                  Queste, seppur riferite più ad un programma di azione 
                  politica mirante alla trasformazione del modo di produzione 
                  capitalistico, che non alla fase di transizione vera e propria, 
                  rivendicano con forza una autonomia e un pluralismo di opzioni 
                  da parte del nascen-te movimento operaio  
                  internazionale. Leggiamo: "Considerando: che imporre al 
                  proletariato una linea di condotta o un programma politico uniforme 
                  come l'unica via che possa condurlo alla sua emancipazione sociale, 
                  è una pretesa tanto assurda quanto reazionaria; (...) 
                  Che le aspirazioni del proletariato non possono avere altro 
                  oggetto che la costituzione di un'organizzazione e di una federazione 
                  economiche assolutamente libere, fondate sul lavoro e sull'uguaglianza 
                  di tutti e assolutamenti indipendenti da ogni Governo politico, 
                  e che detta organizzazione e federazione possono essere unicamente 
                  il risultato dell'azione spontanea del proletariato medesimo, 
                  delle associazioni di mestiere e delle comuni autonome" 
                  ecc. 
                  Per quanto riguarda poi la prospettiva del comunismo, come modello 
                  economico di riferimento nella futura società, il movimento 
                  anarchico non ha certo aspettato l'esperienza rivoluzionaria 
                  bolscevica per poi ricredersi, ma fin dal 1880, al Congresso 
                  della Federazione del Giura, Cafiero e con lui Kropotkin, si 
                  fanno paladini convinti della necessità di definirsi 
                  comunisti per quanto riguarda il modello economico di riferimento 
                  superando la dizione generica di collettivisti, usata in quel 
                  periodo dai nascenti riformisti. Cafiero in un passo dalla sua 
                  relazione afferma: 
                  "Un tempo ci denominavano collettivisti, per distinguerci 
                  dagli individualisti e dai comunisti autoritari; ma, in fondo, 
                  noi siamo semplicemente comunisti antiautoritari, e dicendoci 
                  collettivisti, vogliamo esprimere con questo termine la nostra 
                  idea che tutto deve essere messo in comune, senza fare differenze 
                  tra gli strumenti e le materie di lavoro e i prodotti del lavoro 
                  collettivo". 
                  Che poi nella vulgata anarchica il comunismo fosse un processo 
                  storico inevitabile del divenire umano e non tanto una scelta 
                  volontaria e perseguita come fattibilità concreta dell'agire 
                  delle masse oppresse dal giogo capitalistico, siamo anche qui 
                  ad una forzatura da parte di Adamo, per lo meno relativa al 
                  pensiero di quell'anarchismo più rappresentativo e militante. 
                  Sempre Cafiero nello stesso Congresso afferma che "Non 
                  si tratta soltanto di affermare che il comunismo è possibile: 
                  noi possiamo affermare che è necessario. Non soltanto 
                  si può essere comunisti, bisogna esserlo se non si vuole 
                  mancare l'obiettivo della rivoluzione". 
                  Quindi niente di ineluttabile, ma solo possibile, come scelta 
                  volontaria da parte del proletariato internazionale e necessario 
                  in seguito ad argomentazioni e valutazioni che la stessa relazione 
                  di Cafiero affronta, sulle quali ora non mi soffermo. Inoltre 
                  al Congresso di Amsterdam del 1907, congresso che rappresentò 
                  la ripresa organizzativa del movimento anarchico specifico in 
                  Europa, dopo gli anni bui della repressione degli internazionalisti 
                  e delle azioni individuali da parte degli anarchici, gli organizzatori 
                  e con loro fortemente il nostro Malatesta, in polemica con i 
                  sindacalisti rivoluzionari soprattutto francesi, sono propugnatori 
                  del dualismo organizzativo proprio rispetto all'erronea convinzione 
                  della ineluttabilità del processo rivoluzionario in senso 
                  anarchico e comunista delle organizzazioni operaie. Favorevoli 
                  certamente alla presenza degli anarchici nei sindacati operai, 
                  ma convinti della altrettanta necessità di esserci come 
                  anarchici in quanto portatori di un progetto politico, niente 
                  affatto spontaneo e ineluttabile, che orienti le masse, rivendicando 
                  la necessità di una organizzazione specifica necessaria 
                  alla propaganda dichiaratamente comunista ed anarchica. Ciò 
                  vale per Luigi Fabbri, uno dei pochi militanti anarchici che 
                  ha sempre mantenuto un'alta capacità di orientamento 
                  e di elaborazione, forse maggiore dello stesso Malatesta. Usare 
                  Fabbri del 1935 per revisionare il Fabbri del 1921 appare quindi 
                  una operazione dubbia. Non vediamo, per dirla con Adamo, nessuno 
                  scontro "fra cuore e cervello" da parte di Fabbri 
                  tra le argomentazioni dei primi anni '20 e l'argomentare dello 
                  scritto del 1935 sulla libera sperimentazione. 
                  Non vi è la minima traccia di revisionismo in senso anticomunista, 
                  nè tanto meno verso un ethos liberale aclassista 
                  o antimaterialista a cui Adamo ama richiamarsi, ma la riconferma 
                  di elaborazioni sufficientemente rigorose e ponderate a partire 
                  dagli albori dell'anarchismo organizzatore, a cui Fabbri è 
                  sempre stato legato, fino ai primi anni '20 ed in particolare 
                  sul suo testo maggiore Dittatura e Rivoluzione. 
                  La libera sperimentazione di cui parla Fabbri è la convinzione 
                  che, dopo la rivoluzione vittoriosa quando le organizzazioni 
                  del movimento operaio e le sue avanguardie spezzeranno con l'atto 
                  rivoluzionario "le leggi del determinismo economico", 
                  (1) si potrà e si dovrà, 
                  nella fase di transizione ad una società finalmente senza 
                  classi e senza sfruttatori, sperimentare diversi modelli economici 
                  e sociali e che "per sottrarre il compito dell'espropriazione 
                  dall'arbitrio individuale o di gruppi privati, non c'è 
                  affatto bisogno di gendarmi, non c'è affatto bisogno 
                  di cadere dalla padella nella brace della tutela statale: non 
                  c'è bisogno del governo. Il proletariato ha già, 
                  località per località, dovunque ed in stretto 
                  rapporto le une con le altre una quantità di istituzioni 
                  proprie libere, indipendenti dallo stato... altri organismi 
                  collettivi si formeranno durante la rivoluzione, più 
                  in armonia coi bisogni del momento".(2) 
                  Del resto il testo di Fabbri del 1935 termina con una esplicita 
                  riconferma di questa impostazione proponendo questa visione 
                  pluralista e antistatalista rispetto alla futura struttura economica 
                  nella fase di transizione: "La situazione di libertà 
                  creata dalla rivoluzione" dice; siamo quindi dopo lo scontro, 
                  questo si inevitabile, con la borghesia, "permetterà 
                  anche ai seguaci del comunismo anarchico... di iniziare da parte 
                  loro il proprio esperimento". Questo esperimeno non potrà 
                  che generalizzarsi non certo con l'uso dello stato e delle leggi, 
                  ma solo "quando al confronto con gli altri esperimenti 
                  avrà guadagnato l'adesione generale". 
                  Luigi Fabbri non può essere annoverato in quel filone 
                  di revisionismo liberale ed aclassista che fa diventare l'anarchismo 
                  una opzione etica individuale, un modo di vivere e non più 
                  una dottrina sociale atta alla comprensione ed alla trasformazione 
                  della realtà. Adamo aveva ed ha dalla sua molti altri 
                  pensatori e altre scuole di pensiero. Questa tradizione ha avuto 
                  momenti di forte sviluppo in Italia nel secondo dopoguerra e 
                  tutt'ora negli Stati Uniti ha molti adepti. Revisionare, quindi, 
                  l'anarchismo può essere argomentazione legittima e salutare, 
                  ma occorre definire prima cosa è da revisionare. L'Anarchismo 
                  storico e militare, quindi le sue espressioni organizzate, i 
                  suoi atti deliberanti, le sue concrete sperimentazioni rivoluzionarie 
                  e non singoli pensatori, non nasce come ulteriore radicalizzazione 
                  di un'etica liberale o come spirazione individuale, in tal caso 
                  tutti siamo figli non solo del liberalismo, ma dell'illuminismo 
                  e ancor prima siamo debitori ai liberi pensatori ed in un cammino 
                  a ritroso alla rivolta di Spartaco fino a Platone e ancor più 
                  giù.  
                  L'Anarchismo nasce come dottrina sociale di trasformazione in 
                  seno al movimento operaio ed alle sue organizzazioni d'avanguardia 
                  e si caratterizza per una forte convincimento solidaristico, 
                  comunista ed antiautoritario. 
                  Le bandiere della libertà e dell'uguaglianza, che la 
                  borghesia con la Rivoluzione Francese aveva innalzato senza 
                  però risolvere il problema della questione sociale (ovvero 
                  dell'espropriazione dei mezzi di produzione e della contraddizione 
                  fra una produzione sempre più sociale ed una appropriazione 
                  individuale) vengono riprese dal nascente movimento operaio 
                  internazionale e dalle proprie organizzazioni, fra questi gli 
                  anarchici. 
                  Una nuova rivoluzione appare necessaria a questi nuovi "schiavi 
                  salariati". La rivoluzione proletaria, necessariamente 
                  violenta, l'unica capace di affrancare dal gioco dello sfruttamento 
                  borghese la classe dei lavoratori e contemporaneamente l'intera 
                  umanità. E' da questo seppur brevissimo schema, ma di 
                  fondamentale acquisizione, che tutti i revisionismi, processi 
                  organizzativi, esperienze cosidette autogestionarie, strutture 
                  sindacali e politiche che all'anarchismo fanno riferimento dovrebbero 
                  definire il loro agire dell'oggi. Senza la prospettiva della 
                  rottura rivoluzionaria, senza identificare chi sono i soggetti 
                  reali destinati e protagonisti dell'atto rivoluzionario, qualsiasi 
                  "ismo" è destinato a diventare speculazione 
                  intellettuale o un modo di vita personale, seppur affascinante, 
                  ma lontano dell'anarchismo come dottrina sociale di emacipazione. 
                Cristiano Valente 
                  (Livorno) 
                1. Dittatura e Rivoluzione, Luigi Fabbri 
                  Ediz. Antistato 1971 
                  2. Anarchia e comunismo scientifico. Luigi Fabbri Ediz. 
                  Quaderni Studio O.C.L. N. 5 1988 
                
                  
                 Risponde 
                  Pietro Adamo 
                 Una precisazione, due considerazioni e una conclusione. In 
                  generale, la mia impressione leggendo la lettera di Valente 
                  è che mi attribuisca posizioni non mie, forse influenzato 
                  dalla mia nota prospettiva "aclassista e antimaterialista". 
                  In primo luogo, non era mia intenzione - o forse mi sono spiegato 
                  male - contrapporre rigidamente un prima comunista a un dopo 
                  sperimentalista, con la Rivoluzione d'ottobre a fare da spartiacque. 
                  Il concetto di libera sperimentazione è presente nella 
                  dottrina anarchica sin dalle origini (penso a Proudhon, agli 
                  anarchici americani, a Ricardo Mella); in effetti io credo che 
                  la fede anarchica nelle virtù del pluralismo economico 
                  abbia matrici più antiche e su questo ho anche lavorato 
                  parecchio; ho anche scritto che "è il culmine di 
                  una tendenza minoritaria, ma affascinante, del pensiero occidentale". 
                  D'altro canto, mi sembra innegabile che solo dopo la rivoluzione 
                  bolscevica abbia assunto nelle speculazioni degli anarchici 
                  un ruolo centrale; fu il confronto con la Russia sovietica a 
                  spingere molti - non tutti, ovviamente - a insistere sul concetto 
                  come antidoto alla versione totalitaria del comunismo. In secondo 
                  luogo, non mi sembra di aver letto Fabbri come un "liberale"; 
                  anzi, ho insistito sulla sua fiducia costante nella soluzione 
                  comunista libertaria. Ciò che mi preme sottolineare è 
                  che vi è uno sviluppo nelle sue argomentazioni a partire 
                  grosso modo dal 1921, uno sviluppo che lo porta a concepire 
                  la soluzione comunista in modo nuovo. Per come interpreto la 
                  sua argomentazione in Libera sperimentazione, mi pare 
                  che il confronto tra i diversi modelli economici - un vero e 
                  proprio "mercato" dei modelli - dovrebbe condurre 
                  all'adozione di quelli giudicati più convenienti e utili. 
                  Fabbri auspica, spera, desidera, che il modello vincente - ammesso 
                  che ne emerga uno in particolare; non mi sembra che egli scarti 
                  l'ipotesi che ne rimangano in gioco diversi - sia quello comunista. 
                  Ma, e mi sembra anche qui innegabile che sia questo il succo 
                  dell'argomentazione, potrebbe anche non essere, e la "risultante" 
                  scelta sarebbe egualmente legittima, anche se non fosse il comunismo: 
                  "L'ultima parola", scrive Fabbri, "resterà 
                  all'esperienza. Come potrebbe essere diversamente?" È 
                  questa conclusione che lo distanzia dai dottrinari del comunismo. 
                  In quanto al commento iniziale di Valente sul comunismo "di 
                  stato" sovietico, trovo divertente che anarco-comunisti 
                  e anarco-capitalisti appaiano condividere in fondo la stessa 
                  prospettiva gnostico-millenaristica: per entrambi il regno della 
                  libertà finale - comunista o capitalista che sia - non 
                  è mai comparso nel corso della storia; è, nella 
                  sua perfezione assoluta, sempre di là a venire; le sue 
                  imperfezioni nel mondo reale sono sempre spiegabili con le contingenze 
                  storiche; le realizzazioni storiche - l'unico metro di giudizio 
                  concreto a disposizione di uomini mediamente razionali - sono 
                  sempre contaminate e mai eleggibili a modello di raffronto e 
                  valutazione.  
                 Pietro Adamo 
                  
                 Una 
                  questione di jeans? 
                 Vi ricordate di Rosa, quella ragazza di Potenza violentata 
                  dal suo istruttore di guida, poi assolto dalla Corte di Cassazione, 
                  perché la ragazza durante lo stupro indossava i jeans? 
                  Oggi, dopo la sentenza della corte d'appello di Napoli, che 
                  assolve di nuovo l'uomo, si torna a parlare del caso, anche 
                  se con un poco meno di clamore, rispetto a pochi mesi fa (del 
                  resto si sa, ormai gli stupri impuniti non fanno più 
                  notizia!) 
                  Ancora una volta siamo costrette ad "ingoiare il rospo", 
                  ancora una volta ci tocca assistere all'assoluzione di uno stupratore 
                  e alla conseguente colpevolizzazione della vittima. Non c'è 
                  niente da fare: se indossi la minigonna è perché 
                  te la vai a cercare, se indossi i jeans è praticamente 
                  "impossibile che te li tolgano senza la tua fattiva collaborazione"; 
                  comunque sia alle donne non si crede. La corte d'appello di 
                  Napoli ha riconfermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, quale 
                  sia la reale considerazione per le donne in questa società, 
                  al di là dei proclami e delle belle parole che ci proponiamo 
                  da tutte le parti. La testimonianza della ragazza e le evidenti 
                  ecchimosi e lacerazioni vaginali non contano nulla. La definizione 
                  di cosa sia uno stupro o di quando si tratti di stupro è 
                  ad unica discrezione degli uomini: si tratti di supremi giudici, 
                  della Corte di Napoli o del cittadino comune. 
                  Tutti gli anni di lotte spese innanzitutto ad affermare il diritto 
                  elementare all'inviolabilità del proprio corpo (e quindi 
                  il semplice diritto ad essere considerate persone a tutti gli 
                  effetti) evidentemente non hanno ancora fatto breccia nelle 
                  menti maschili, del resto basta ascoltare in che termini si 
                  esprimono molti uomini nei confronti delle donne... Ma anche 
                  il silenzio delle donne è preoccupante. Forse ci si illude 
                  di essere rappresentate da una manciata di parlamentari donne, 
                  i cui partiti, tra l'altro, non esitano a sostenere politiche 
                  contro la libertà e i diritti femminili (vedi per es. 
                  il diritto d'aborto). Ci si illude magari di avere raggiunto 
                  una sostanziale parità e quindi di essere tutelate dalle 
                  leggi (anche se la sentenza di Napoli dimostra il contrario). 
                  Oppure le donne si stanno adattando, di questi tempi, ad una 
                  normalità fatta di crociate oscurantiste contro i diritti 
                  femminili, di violenze quotidiane, di corpi in vendita ai bordi 
                  delle strade... 
                  È facile farsi prendere dallo sconforto o da un senso 
                  di impotenza dopo una simile sentenza. Ma proprio su una questione 
                  così delicata come lo stupro, noi donne dovremmo riscoprire 
                  l'importanza della lotta condotta a livello individuale e collettivo. 
                  In fondo solo la solidarietà, l'azione concreta ed unita 
                  delle donne è stata, fino ad oggi l'unica reale garanzia 
                  di difesa dei propri inalienabili diritti.  
                 Silvia S. 
                  Carla T.  
                  (Bergamo) 
                  
                  Contro la schiavitù 
                 Carissimi, 
                  dopo la tragica vicenda della guerra, stiamo riprendendo la 
                  nostra campagna contro la schiavitù in Italia. 
                  Tra la fine di giugno ed i primi di luglio abbiamo ridiffuso 
                  alcuni materiali informativi e propositivi che avevamo prodotto 
                  e fatto circolare lo scorso anno. 
                1. I termini essenziali della campagna contro la schiavitù 
                  in Italia 
                  Ricorderete che i termini essenziali dell'iniziativa sono i 
                  seguenti: l'abominevole pratica della schiavitù è 
                  ovviamente illegale in Italia (cfr. gli articoli 600, 601, 602 
                  del Codice Penale) ma, come dimostrano le cronache, è 
                  evidentemente tutt'ora diffusamente presente nel nostro paese, 
                  e di essa sono vittima particolarmente uomini, donne e bambini 
                  immigrati. Noi proponiamo un piano globale di lotta contro la 
                  schiavitù e chiediamo un preciso impegno del governo, 
                  del Parlamento e degli enti locali. Fulcro dell'iniziativa la 
                  richiesta di un intervento sia amministrativo che legislativo 
                  che, attraverso il combinato disposto di normative già 
                  in vigore (valorizzando in particolare l'art. 16 della recente 
                  legge 40/98 sull'immigrazione) e la loro eventuale integrazione 
                  in uno specifico indirizzo di intervento che potrebbe altresì 
                  concretizzarsi in una legge ad hoc, preveda in primo luogo un'azione 
                  efficace per la liberazione delle persone attualmente in condizioni 
                  di schiavitù in Italia, garantendo loro - a titolo di 
                  risarcimento per le violenze subite nel nostro paese - il diritto 
                  di permanenza legale nel nostro paese qualora lo desiderino, 
                  un'adeguata protezione rispetto al pericolo di rappresaglie 
                  da parte delle organizzazioni criminali schiaviste, il pieno 
                  riconoscimento di diritti civili, assistenza sociale ed un sostegno 
                  economico sufficiente per vivere e protratto nel tempo, aiuto 
                  nella ricerca  
                  di un lavoro legale. Sottolineiamo che particolarmente nel caso 
                  delle persone in condizioni di schiavitù oggetto di sfruttamento 
                  sessuale, una iniziativa da parte delle istituzioni democratiche 
                  sarebbe immediatamente praticabile ed efficace. Gli enti locali 
                  potrebbero intervenire efficacemente fin d'ora con programmi 
                  di riduzione del danno e di percorsi assistiti di liberazione, 
                  valorizzando ed estendendo esperienze già in corso da 
                  parte sia di esperienze di volontariato sia di servizi sociali 
                  di enti pubblici. 
                2. Alcuni recenti libri utili 
                  Recentemente sono stati pubblicati alcuni utili libri, tra cui 
                  vi segnaliamo particolarmente: 
                  o Pino Arlacchi, Schiavi, Rizzoli, Milano 1999; 
                  o Oreste Benzi, Una nuova schiavitù, Paoline, 
                  Milano 1999; 
                  o Alessandro Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano 
                  1999. 
                3. Un semplice ragionamento 
                  Vi vorremmo proporre questo ragionamento: il solo don Oreste 
                  Benzi con l'esperienza della "Comunità Papa Giovanni 
                  XXIII" ha liberato circa 1.200 ragazze straniere dal racket 
                  della prostituzione in Italia; ordunque, poiché le immigrate 
                  tenute in condizioni di schiavitù a fini di sfruttamento 
                  come oggetti sessuali in Italia sono circa 26.000 secondo stime 
                  attendibili, è evidente che basterebbe che 20-25 esperienze 
                  pubbliche o associative intervenissero con efficacia analoga 
                  a quella dispiegata da don Benzi, per liberare tutte le persone 
                  che subiscono questa specifica condizione di schiavitù, 
                  e per dare un duro colpo ai poteri criminali che questo mercato 
                  schiavista gestiscono. 
                4. Altri interventi necessari 
                  Naturalmente questo non basterebbe: occorrono anche altri interventi 
                  di carattere sia contingente che strutturale: 
                  4.1. occorre colpire il mercato schiavista sul versante della 
                  domanda di schiavitù, ovvero colpire i cosiddetti "clienti": 
                  ed a tal fine servono interventi sia educativi e di sensibilizzazione, 
                  sia anche e soprattutto repressivi. Non è ammissibile 
                  che si tolleri che qualcuno fruisca di beni prodotti e di servizi 
                  resi da esseri umani in condizioni di schiavitù, tale 
                  "cliente" deve essere considerato pienamente complice 
                  dello schiavista e compartecipe degli "utili" della 
                  schiavitù, ed in quanto tale punito; 
                  4.2. occorre colpire i poteri criminali che traggono enormi 
                  profitti dalla schiavitù: la specifica fattispecie di 
                  reato è prevista e punita dal Codice Penale, si tratta 
                  di intervenire con decisione; 
                  4.3. occorre colpire tutte le complicità che in vario 
                  modo favoreggiano la schiavitù, e tali complicità 
                  sono molte: 
                  - delle istituzioni che la schiavitù permettono e che 
                  sovente intervengono contro le vittime invece che contro gli 
                  schiavisti (sfruttatori e clienti); 
                  - dei mass-media e degli apparati ideologici che sostengono 
                  tale pratica presentandola come normale, ovvia, socialmente 
                  accettabile; 
                  - dei poteri e meccanismi economici locali ed internazionali 
                  che producendo povertà e disperazione, fondandosi su 
                  logiche e dispositivi di sfruttamento disumani e su finalità 
                  di profitto che per realizzarsi costitutivamente reificano e 
                  annientano gli esseri umani, con ciò favoriscono, propugnano 
                  e impongono pervasivamente la schiavitù come forma di 
                  relazione economica e sociale prediletta ai fini della massimizzazione 
                  del profitto. 
                5. Una strategia integrata 
                  Contro la schiavitù occorre una strategia integrata; 
                  si tratta di lavorare a più livelli e coinvolgendo in 
                  un'azione convergente e coordinata più soggetti: 
                  5.1. interventi con unità di strada per prestare soccorso 
                  materiale immediato alle vittime ed offrire loro relazioni umane 
                  significative e prospettare autentiche e persuasive possibilità 
                  di alternative reali; 
                  5.2. interventi per sottrarre le vittime ai loro aguzzini; 
                  5.3. azione delle forze dell'ordine e della magistratura per 
                  liberare le vittime, e per perseguire e condannare schiavisti 
                  e complici; 
                  5.4. azione degli enti locali e dei servizi sociali per realizzare 
                  interventi ed alternative; 
                  5.5. produzione di un nuovo quadro normativo efficace contro 
                  la schiavitù, con interventi legislativi ed amministrativi 
                  specifici, espliciti, coordinati e coerenti; 
                  5.6. mobilitazione della società civile, delle esperienze 
                  di solidarietà e di volontariato, delle reti sociali 
                  della welfare community oltre che delle agenzie del welfare 
                  state e del cosiddetto terzo settore; 
                  5.7. mobilitazione dei mass-media democratici e dell'intellettualità 
                  per una adeguata e ragionata sensibilizzazione e mobilitazione 
                  dell'opinione pubblica contro la schiavitù e di aiuto 
                  alle vittime; 
                  5.8. promozione di un piano nazionale di lotta contro la schiavitù 
                  promosso dal Parlamento ed adeguatamente finanziato dallo Stato 
                  con l'obiettivo di cancellare la schiavitù in Italia 
                  entro il Duemila. (...) 
                8. Un invito 
                  Ecco perché vi chiediamo di voler contribuire a questa 
                  riflessione ed a questo impegno. 
                  Contiamo sul vostro impegno: la schiavitù oggi presente 
                  in italia, di cui sono vittima decine di migliaia di uomini, 
                  donne e bambini, particolarmente immigrati, può e deve 
                  essere sconfitta. 
                  Chiunque può, chiunque deve fare qualcosa. 
                Peppe Sini 
                  (Viterbo) 
                Responsabile del "Centro di ricerca per 
                  la pace" di Viterbo promotore della "campagna contro 
                  la schiavitù in Italia", str. S. Barbara 9/E, 01100 
                  Viterbo, tel. e fax 0761/353532 
                
                  
                 Riflessioni 
                  sull'antimilitarismo 
                 L'articolo di Mauro Zanoni sull'ultimo numero 
                  di "A" ha la capacità di sollevare una questione 
                  non di secondaria importanza: quella dell'antimilitarismo nel 
                  III millennio. Problema che si pone per ovvi motivi di attualità: 
                  l'economia e la politica nell'ultimo decennio hanno preso ad 
                  essere guidate sempre più dalla logica del manu militari, 
                  strumento utilizzato non solo per sanare le controversie fra 
                  stati o blocchi economici, ma per conquistare mercati e crearne 
                  di nuovi. 
                  Dall'Est europeo, dissoluzione dell'impero sovietico e della 
                  federazione yugoslava, all'Africa, in Somalia, Ruanda, Burundi, 
                  Senegal, ecc., all'Asia, Timor, Pakistan e Corea, nuovi focolai 
                  di tensioni e guerre mietono vittime e producono distruzioni, 
                  imperversando in queste aree con una ferocia tale da rivelare 
                  che per milioni di uomini su questo pianeta la guerra è 
                  una tragica realtà quotidiana. Lo scenario è quello, 
                  ormai affermato, di una guerra coloniale globale dove gli imperi 
                  finanziari si affrontano nella conquista di territori sempre 
                  più vasti, per accaparrarsi risorse e uomini da sacrificare 
                  sull'altare della logica del profitto, del pensiero unico imperante: 
                  il neoliberismo. 
                  La macchina militare subisce un'evoluzione notevole rispetto 
                  all'impiego classico, quello della forza bruta, conosciuto fino 
                  ad oggi, trasformandosi essa stessa in strumento/oggetto del 
                  mercato cui è asservita. Gli assassini in divisa diventano 
                  quindi una "mano d'opera" da vendere o affittare, 
                  mercenari che mentre massacrano si fanno pubblicità, 
                  pronti ad offrirsi, non più solo come singoli "professionisti 
                  della morte", ma in pacchetti di compagnie, battaglioni 
                  e divisioni intere. E' il caso dei due battaglioni Gurka che 
                  il Nepal affitta sistematicamente alla corona inglese per ogni 
                  evenienza, impiegati ora nelle Falkland ora a Timor Est. E' 
                  il caso delle tante missioni "umanitarie", enormi 
                  vetrine a cielo aperto dove le capacità militari vengono 
                  messe in mostra e sperimentate meglio che in una qualsiasi artefatta 
                  esercitazione militare. 
                  La tecnologia militare dal canto suo, dalle armi, alle divise, 
                  ad ogni elemento della logistica e della guerra, rappresenta 
                  di per sè un enorme mercato di progettazione, sperimentazione 
                  e vendita. Le bombe cadute su Belgrado e la Yugoslavia in quest'ultimo 
                  anno di guerra sono il frutto, oltrechè della classica 
                  strategia militare del terrorismo di massa, di una ben precisa 
                  ottica economica che ha voluto liberarsi del parco bombe americane, 
                  obsolete ed ammortizzate nei vari bilanci del Pentagono da tempo, 
                  facendone poi pagare il prezzo, a tutti i soggetti coinvolti 
                  nella spedizione militare pro-Kosovo o anti-Yugoslavia.  
                  Il costo di questa vera e propria operazione commerciale sarà 
                  coperto poi, a favore dei "vincitori", in termini 
                  di commesse internazionali ed appalti per favorire la ricostruzione 
                  delle zone distrutte, o in termini di ridimensionamento ed assoggetamento 
                  politico ed economico della regione bombardate; terreno di confronto/scontro 
                  economico fra la UE e gli USA, fra dollaro ed euro. 
                  La premessa fatta, nella sua schematicità, ci serve comunque 
                  per capire che il militarismo è qualcosa di complesso 
                  e diversificato, e non certo rapportabile solo alla questione 
                  della coscrizione obbligatoria. Semmai questa ha rappresentato 
                  un elemento storico del passato su cui, in periodi particolari, 
                  è stato fatto leva da un lato per irrigimentare le masse 
                  ed uniformarle ai dettami politici ed economici della società 
                  imperante, mentre dall'altro, per contro, è servita alle 
                  volte per poter agitare la protesta antimilitarista. Nei paesi 
                  anglosassoni, USA e GB, alle porte dei due conflitti mondiali, 
                  l'entrata in uso della coscrizione obbligatoria alimentò 
                  numerose proteste e lotte. In molti paesi coloniali dell'impero 
                  francese ed inglese la protesta contro l'arruolamento di massa 
                  negli eserciti coloniali fece radicare ulteriormente i germi 
                  della rivolta anti-coloniale che, dopo qualche tempo, sarebbe 
                  esplosa. 
                  L'abolizione della leva lascia comunque intatta tutta una serie 
                  di problemi legati alle politiche guerrafondaie: le servitù 
                  militari, ettari ed ettari di territorio assoggettati alle leggi 
                  militari per farne delle basi aeree, depositi nucleari, campi 
                  di raccolta, le fabbriche di armi, le commesse militari, gli 
                  stanziamenti pubblici per lo sviluppo di interessi industriali 
                  privati nel settore.  
                  Inoltre in futuro, la questione della leva obbligatoria sarà 
                  sostituita da un'altra più complessa e problematica: 
                  il costo di un esercito professionale. Fatto che peserà 
                  sul piano economico, per ovvie ragioni: stipendio dei professionisti 
                  della guerra, acquisto di armi e tecnologie nuove, e loro mantenimeto. 
                  Fatto che peserà anche sul piano politico e sociale. 
                  Nel primo caso in quanto un esercito professionale implica automaticamente 
                  la formazione di una corporazione che vorrà sempre più, 
                  dal generale al soldato "contare" e far sentire la 
                  sua voce nelle stanze del potere (il Pentagono insegna), potenziando 
                  enormemente quello stato nello stato che già da tempo 
                  sono le forze armate. Nel secondo caso, la carriera militare 
                  sarà vista sempre più come un'alternativa alla 
                  disoccupazione ed una scorciatoia per futuri impieghi "civili". 
                  Come già succede in alcune professioni con gli ex-carabienieri 
                  ed ex-poliziotti, ci ritroveremo sicuramente in futuro a lavorare 
                  con tecnici ex-militari, portatori della loro visione gerarchica 
                  della vita.  
                  Una prospettiva futura non molto rosea, anzi grigio-verde, cui 
                  in contrapposizione sarà necessario ridefinire la valenza 
                  stessa dell'antimilitarismo in un'ottica strategica composita, 
                  dove l'abolizione della leva non mette certo in discussione 
                  le lotte antimilitariste, ma diventa la prerogativa analitica 
                  per il rinnovarsi di una strategia che fuoriesca dagli schemi 
                  ideologici del passato, che veda nella giusta ottica l'antimilitarismo: 
                  non come elemento a se stante, ma come prodotto di un radicamento 
                  delle lotte di massa sul territorio.  
                  Non è un caso che ogni volta che l'antimilitarismo ha 
                  acceso la scintilla della rivolta, questa era già un 
                  fuoco che covava sotto le ceneri di movimenti di massa. La corazzata 
                  "Potemkin" sarebbe stato un semplice atto di ammutinamento 
                  se non fosse stato il prodotto di una coscienza di classe rivoluzionaria 
                  radicata da tempo nelle masse diseredate della Russia zarista. 
                  Al pari il gesto del ribelle Masetti, sarebbe stato solo quello 
                  di un folle esasperato, o di un refrattario sognatore, se invece 
                  non si fosse legato ad un ambito sociale e politico dove la 
                  guerra di Libia veniva contestata dalla base del movimento operaio 
                  italiano d'inizio secolo. 
                  Più vicino ai giorni nostri, l'esperienza dei P.I.D., 
                  il movimento dei proletari in divisa, negli anni '70, non era 
                  figlio solo della protesta antimilitarista contro gerarchie 
                  militari che, nelle caserme italiane si erano fermate ai tempi 
                  del ventennio, ma derivava anche e soprattutto dall'ondata di 
                  rivolta di classe che riempiva le piazze, le scuole e le fabbriche, 
                  ed anche le caserme, in quegli anni. 
                  Ma forse l'esempio più chiarificante in merito può 
                  essere quello di analizzare il recente movimento contro la guerra 
                  in Kosovo che, nella primavera scorsa, come durante la guerra 
                  del Golfo, si è attivato. 
                  Per quasi tre mesi le piazze d'Italia si sono riempite a più 
                  riprese di manifestazioni contro la guerra. Non c'è stato 
                  un fine settimana in cui non fosse stata organizzata una "gitarella" 
                  davanti a qualche base militare. Tutto il fronte antiguerra, 
                  dal pacifismo cattolico all'antimilitarismo anarchico, passando 
                  per le strumentalizzazioni di ogni sorta di leniniana memoria, 
                  ha dato battaglia per settimane in mezzo ad una opinione pubblica 
                  anestetizzata dai media di regime, con forze molto limitate, 
                  ma frutto di militanti che, in un modo o nell'altro in questi 
                  decenni bui, hanno cercato di sviluppare un movimento di massa 
                  contro la disoccupazione, l'inquinamento, le lobby politiche 
                  ed economiche. 
                  Purtroppo il fronte anti-guerra si è scontrato contro 
                  una realtà dove praticamente, al di là di ogni 
                  singola aspettativa o speranza ideologica, sono praticamente 
                  assenti veri e propri movimenti di massa, radicali, incisivi, 
                  di classe, che non siano il frutto di alchimie politiche o strumentalizzazioni 
                  di sorta che usa le piazze per i propri giochi di poltrona. 
                  Forse il vero problema dell'antimilitarismo è questo: 
                  l'assenza di un qualche movimento di massa nel tessuto della 
                  società italiana ed occidentale. Vedere che militanti 
                  e simpatizzanti di ogni sorta questa primavera si sono ritrovati 
                  insieme, in piazza senza che però ad essi vi si sia unito 
                  qualcuno che era "fuori dal giro", ci ha fatto scoprire 
                  che il resto delle masse ormai non si eccita più di fronte 
                  a parole d'ordine ormai vecchie ed abusate (grazie alle sceneggiate 
                  della sinistra storica), e che in fondo considera una guerra 
                  tale, solo quando entra dentro la loro casa. 
                  Cosa riproporre oggi per una strategia antimilitarista che vada 
                  oltre lo scendere emotivamente in piazza non è facile 
                  dirlo. Anche la chiusura delle basi e delle fabbriche di morte 
                  non sono che singoli obbiettivi contigenti, facilmente recuperabili 
                  dalle gerarchie statali. Una base militare di professionisti 
                  della morte non necessariamente sta qui, nel nostro primo mondo, 
                  sotto casa, a disturbarci la vista. La legione straniera alloggia 
                  esclusivamente in basi disperse nel cosiddetto terzo mondo. 
                  E le fabbriche militari, come quelle di scarpe o di auto, si 
                  possono facilmente spostare in luoghi dove la mano d'opera costa 
                  dieci volte di meno. Non sarà improbabile trovarsi di 
                  fronte, in futuro, a cortei che chiedono il mantenimento di 
                  una fabbrica di morte in nome dell'occupazione. L'Enichem di 
                  Porto Maghera ne può essere, sul fronte dell'inquinamento, 
                  un triste esempio. 
                  Non basterà quindi all'antimilitarismo in futuro giocare 
                  a tutto campo smascherando gli interessi bancari e l'educazione 
                  colonialista fatta nelle scuole, opporsi ad ogni partecipazione 
                  militare a missioni di pace all'estero, e a qualsiasi nuovo 
                  finanziamento per la macchina bellica, e smascherare la falsa 
                  attrattiva occupazionale della carriera militare. 
                  Esso dovrà certamente continuare ad essere uno degli 
                  elementi specifici di un progetto più ampio di cambiamento 
                  radicale della società, l'anarchismo, ma dovrà 
                  anche essere l'espressione di una presa di coscienza collettiva, 
                  più che di un sofferto rifiuto individuale, legandosi 
                  ad una strategia di lotta ampia che attraverso le questioni 
                  del mondo del lavoro, dell'ambiente, delle libertà e 
                  dei diritti sociali, fa dei diseredati un soggetto sociale pensante 
                  ed agente. E forse, più che l'abolizione della leva militare, 
                  è l'assenza di un qualche movimento di massa, di classe, 
                  antagonista e di base, che oggi rappresenta il limite maggiore 
                  ad una efficace azione antimilitarista contro ogni tipo di guerra 
                  e di gerarchia militare. Ma questo è un altro problema. 
                  O forse è il problema. 
                Giordano Cotichelli 
                  (Jesi) 
                   
                  
                
                  
                     
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                          nostri fondi neri 
                            
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                          Sottoscrizioni. Enrico Ardenghi (Monza), 20.000; 
                            Laura Fossetti (Montemagno di Calci), 50.000; Aurora 
                            e Paolo (Milano) ricordando Gianni Furlotti e Alfonso 
                            Failla, 1.000.000; Alessandro Milazzo (Linguaglossa), 
                            150.000; Alfredo Gagliardi (Ferrara) a ringraziamento 
                            del buon esito di un'operazione di ernia inguinale, 
                            500.000; Antonio Gei (Piovene Rocchette), 20.000; 
                            Salvo Pappalardo (Acireale), 20.000; Lucio Brunetti 
                            (Campobasso), 10.000.  
                            Totale lire 1.770.000.  
                          Abbonamenti sostenitori. Cesare Vurchio (Milano), 
                            200.000; Paolo Santorum (Arco), 150.000; Paolo Zonzini 
                            (Cailungo - Repubblica San Marino), 200.000.  
                            Totale lire 550.000. 
                           
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