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                 Nel cuore dell'anarchismo 
                  c'è indubbiamente la libertà, ma è proprio 
                  in questo cuore che si nascondono i problemi. Come molti hanno 
                  infatti notato, la libertà risulta difficilmente definibile 
                  ed è per questo che, se cerchiamo di comprenderla unicamente 
                  dal punto di vista razionale, ci troviamo di fronte ad una selva 
                  di problemi: la libertà è chiaramente racchiudibile 
                  in un concetto o è, all'opposto, una modalità 
                  dell'"essere nel mondo" al di là di qualsiasi 
                  possibilità di concettualizzazione? La libertà, 
                  inoltre, è espressione dell'"interiorità" 
                  che ogni essere umano si ritroverebbe già data fin dalla 
                  nascita o è invece l'inesausta ricerca di un ethos, cioè, 
                  come recita l'etimologia di tale termine, del "luogo di 
                  soggiorno abituale dell'uomo sulla terra"? E ancora: la 
                  libertà riguarda essenzialmente l'individuo o è 
                  primariamente una condizione sociale?  
                  Problemi immensi, cui dare una risposta definitiva non è 
                  forse possibile, ma che proprio per questo non possono che spingere 
                  alla ricerca, alla continua interrogazione, magari tenendo presente 
                  che, come diceva Evgenj Zamjatin nella distopia Noi, la via 
                  per comprendere è spesso "la via dei paradossi-l'unica 
                  via degna di una mente impavida".  
                  Tutto questo, e altro ancora, è al centro della conversazione 
                  con Giampiero Moretti, filosofo, docente di Estetica all'Istituto 
                  Universitario Orientale di Napoli.  
                  Moretti, oltre ad essere il curatore delle edizioni italiane 
                  di molti testi dello studioso del mito Walter Friedrich Otto 
                  e di opere di Hölderlin, Klages, Schelling, Novalis, ha 
                  fra l'altro pubblicato: Heidelberg romantica. Romanticismo 
                  tedesco e nichilismo europeo, Cosmopoli 1995; e Il genio, 
                  Il Mulino 1998; Il poeta ferito. Holderlin, Heidegger e 
                  la storia dell'essere, La Mandragora 1999.  
                La libertà è indubbiamente un "luogo" 
                  in cui il pensiero occidentale sembra perdersi.  
                  Di libertà, infatti, si parla fin dall'antica Grecia, 
                  ma già da allora la definizione di cosa intendere con 
                  tale termine si è mostrata ardua, tant'è che gli 
                  svariati tentativi di concettualizzarla si differenziano fra 
                  loro tanto per gli assunti su cui si basano quanto per gli esiti 
                  cui conducono. Questa molteplicità sembra paradossalmente 
                  contraddire la chiarezza del significato semantico della parola: 
                  "libertà" è "avere in sé 
                  la propria origine" e, conseguentemente, avere in sé 
                  i propri fini e non avere limitazioni nel poterli esplicare... 
                   
                Certamente la questione della libertà è sempre 
                  stata una sorta di rompicapo. Le filosofie, religiose o atee, 
                  che hanno a che fare con la questione della libertà sono 
                  molte - e spesso, come ricordavi tu, fra loro contradditorie 
                  -, ma va sottolineato che tale molteplicità contradditoria 
                  nasce proprio dal senso da attribuire al significato del termine: 
                  se, infatti, "libero" è chi ha in sé 
                  la propria origine, e quindi i propri fini, vuol dire che è 
                  libero solo chi può fondarsi su se stesso, chi nel suo 
                  essere non deve nulla a nessuno, ma chi è un tale essere? 
                  Non certo l'uomo, che, per dirla molto elementarmente, non deve 
                  a se stesso né la sua nascita né i modi con cui 
                  arriva a pensare la sua stessa esistenza. E' per questo che, 
                  schematizzando, molti pensatori sono giunti a sostenere che 
                  libero è propriamente solo dio, mentre quella che gli 
                  esseri umani chiamano "libertà" non è 
                  veramente tale in quanto nasce dalla limitatezza umana, che 
                  impedirebbe di cogliere come tutto sia già preordinato 
                  da dio o, nel caso di molti pensatori atei, dal concatenarsi 
                  necessario e meccanico delle cose.  
                  Già da questi pochi accenni risulta chiaro come, nel 
                  pensiero occidentale, la questione filosofica della libertà 
                  sia strettamente intrecciata alla questione dell'"essere" 
                  ed è proprio al cuore di questo intreccio che vanno quelle 
                  che, a mio parere, sono le riflessioni più radicali compiute 
                  attorno alla libertà: quella attuata dal pensiero romantico 
                  e quella di Martin Heidegger, senza tuttavia dimenticare la 
                  rivoluzione portata da Nietzsche, che ha scardinato le tradizionali 
                  categorie della metafisica e che, quindi, ha non pochi riflessi 
                  anche sul tema della libertà.  
                  Per comprendere la portata di tali riflessioni occorre innanzitutto 
                  aver presente che per il romanticismo, l'"essere", 
                  o dio, non si dà agli uomini in modo chiaro e compiuto, 
                  ma è una sorta di "fondamento oscuro" che, 
                  pur costituendo quel che gli esseri umani sono, essi devono 
                  continuamente interrogare senza presumere di poterlo mai afferrare 
                  compiutamente. È nello spazio che si crea attuando tale 
                  interrogazione che, per un pensatore emblematico del romanticismo 
                  come Schelling (che alla libertà dedicò alcune 
                  delle sue riflessioni più importanti), si dà la 
                  libertà umana, la quale, in tal modo, da un lato è 
                  rapporto con quanto ci costituisce, pur trascendendoci e non 
                  dipendendo da noi, mentre dall'altro lato è azione, come 
                  tale trasformatrice del mondo. Per Schelling, pertanto, il centro 
                  di tutto, il "luogo" della libertà, risultava 
                  essere la soggettività dell'individuo, una soggettività 
                  centrata su se stessa e in grado di ordinare il mondo.  
                  Con Nietzsche, invece, quello che viene fortemente criticato, 
                  fino a dimostrarne l'insussistenza, è proprio l'idea 
                  che possa esistere una soggettività umana in qualche 
                  modo fondata su di sé. Ma è proprio questo a far 
                  sì che la libertà cominci a diventare, dal punto 
                  di vista filosofico, un problema irriducibile alle categorie 
                  della metafisica con cui si era sempre provato a pensarla. Se, 
                  infatti, per spiegare ciò che viene chiamata "libertà" 
                  o "azione libera" non si può fare affidamento 
                  né su un'interiorità che, con una sua "consistenza" 
                  specifica, contraddistinguerebbe tutti gli esseri umani, né 
                  su principi assoluti, metafisici ed eterni - come possono essere 
                  l'idea di essere o l'idea di dio -, diventa immediatamente evidente 
                  che ciò che viene chiamata "libertà" 
                  si rivela difficilmente identificabile e spiegabile.  
                  E' avendo presente tutto questo che Heidegger, nel 1930, affronta 
                  la questione con la conferenza Sull'essenza della verità. 
                  In essa, riprendendo alcuni motivi del romanticismo, sottolinea 
                  come vi sia un rapporto strettissimo fra libertà e verità 
                  in quanto, per dirla con le sue parole: "La libertà 
                  (_) non è solo ciò che il senso comune lascia 
                  volentieri intendere con questo nome, e cioè l'arbitrio 
                  a volte emergente che nella scelta si butta ora da un lato, 
                  ora da un altro. La libertà non è l'indipendenza 
                  del poter fare o non fare qualcosa. La libertà non è 
                  neppure la semplice disponibilità per un che di richiesto 
                  e necessario (e quindi per un qualche ente). La libertà 
                  è prima di tutto ciò (prima della libertà 
                  "negativa" e di quella "positiva") il lasciarsi 
                  coinvolgere nello svelamento dell'ente in quanto tale. La svelatezza, 
                  a sua volta, è custodita nel lasciar-si coinvolgere e-sistente 
                  (...)".  
                  Ora, per ben comprendere quel che Heidegger intendeva dire, 
                  occorre aver presente cosa si intende con la parola/concetto 
                  "verità", che è appunto il tema della 
                  conferenza heideggeriana. A questo proposito Heidegger sottolinea 
                  che la verità, così come normalmente la intendiamo, 
                  deriva dal greco alètheia, che vuol dire "disvelamento". 
                  Per i Greci, ciò che nel disvelamento si rivelava era 
                  totalmente indipendente dall'uomo il quale, pertanto, non poteva 
                  che adeguarsi completamente a quanto gli si mostrava una volta 
                  avvenuto tale disvelamento. Chiarito questo Heidegger mostra 
                  come, a partire da questi presupposti, il concetto di verità 
                  abbia via via mutato di significato fino ad assumere, soprattutto 
                  nella modernità, il senso di "costruzione" 
                  di qualcosa, per cui la "verità" altro non 
                  è, oggi, che un concetto, un "oggetto mentale" 
                  frutto del principio di non contraddizione. A questo punto Heidegger 
                  si chiede cosa abbia portato a tale cambiamento e cosa esso 
                  significhi, concludendo che, in fin dei conti, questo mutamento 
                  è dovuto allo stesso darsi del rapporto fra l'essere 
                  umano e la verità/disvelamento. In altre parole, quel 
                  che Heidegger sostiene è che certamente la libertà 
                  ha che fare con la verità, ma questo "aver a che 
                  fare" non è un semplice adeguamento dell'essere 
                  umano a quanto gli si mostra, bensì una sorta di "apertura" 
                  dell'umano corrispondente alla continua apertura dell'essere, 
                  quindi della verità. Un "essere", e quindi 
                  una "verità" che, come emerge da quanto Heidegger 
                  dice, non si manifesta mai come ente/oggetto definito da quanto 
                  correntemente chiamiamo "oggettività", ma, 
                  appunto, come continua "apertura", quindi come continuo 
                  darsi e differirsi, per cui la "verità" è 
                  certo "rivelamento", ma anche, altrettanto certamente, 
                  "ri-velamento". Per questo, aggiungeva Heidegger, 
                  non è possibile rapportarsi alla libertà se non 
                  attraverso una "apertura estatica", cioè con 
                  un atto di pura "apertura all'essere". Quel che Heidegger 
                  mostra, in sostanza, è che lo "stare" dell'essere 
                  umano di fronte alla verità, cioè il rapporto 
                  costitutivo dell'essere umano con la verità, è 
                  costitutivo della verità stessa e quindi della libertà, 
                  perché lo "stare aperto" di fronte al manifestarsi 
                  dell'essere come tale, necessita di una esperienza vissuta di 
                  questo "stare", non è un semplice adeguamento 
                  al risultato di una teoria. Anche se a me pare che in questa 
                  "apertura estatica" venga meno la dimensione della 
                  sensibilità e del sentimento come portatori di verità 
                  e quindi di libertà - dimensione che i pensatori romantici 
                  avevano invece messo in luce nelle loro riflessioni- quel che 
                  emerge con forza dalla conferenza di Heidegger è la questione 
                  della "teoria", cioè della "visione non 
                  contradditoria". Quello che, lentamente ma decisamente, 
                  viene infatti meno con i romantici e poi con Nietzsche ed Heidegger 
                  è il collegamento fra verità e principio di identità, 
                  quindi fra libertà e principio di "ragione fondante", 
                  che è la ragione "naturale" fondata sul principio 
                  di non contraddizione. È in questo venir meno che si 
                  radica la possibilità, identificata appunto dai romantici, 
                  di una "ragione poetica" che mostri la duplicità, 
                  la contradditorietà, della verità, la quale, proprio 
                  per questa sua duplicità, dischiude anche il rapporto 
                  fra l'uomo e la libertà. 
                  Un rapporto "poetico" con la verità è, 
                  per esempio, quello in cui ci si pone in rapporto col mondo, 
                  con le cose, vivendo sperimentalmente questo rapporto, quindi 
                  facendo continuamente esperienza di esso come di un rapporto 
                  mai dato e fissato una volta per tutte. È in questo rapporto 
                  "sperimentale/esperienziale" che si dà per 
                  ognuno una propria esperienza della libertà che, pur 
                  restando "propria", tuttavia apre al resto dell'umanità 
                  e del mondo. 
                
                   
                   Il 
                  luogo dell'amore 
                Quindi, se capisco bene, la libertà dell'essere umano 
                  si dà primariamente nello spazio che si crea nel momento 
                  in cui esso da una parte riconosce di essere compreso in "qualcosa" 
                  che gli sfugge, quando cioè riconosce di essere una "creatura" 
                  e quindi diventa consapevole di non potersi "fondare" 
                  su se stesso, ma, dall'altra parte, quel "qualcosa" 
                  in cui è compreso non è a lui esterno e dato una 
                  volta per tutte, ma dipende dal suo agire e dal suo fare esperienza. 
                  Tutto questo, in altre parole, mi pare significhi che l'assoluta 
                  determinazione cui l'essere umano è da sempre consegnato, 
                  cioè la sua mortalità e la sua storicità, 
                  è però anche la condizione di possibilità 
                  della sua libertà. Questa concezione, però, non 
                  finisce per contraddire il significato etimologico di libertà... 
                   
                In effetti a una analisi superficiale può sembrare che 
                  vi sia una contraddizione insanabile fra questa idea di libertà 
                  e quel che dicevo prima, ma, rimanendo alla conferenza di Heidegger, 
                  sono convinto che proprio quel che egli dice mostri, al di là 
                  dell'osticità del linguaggio, come questo "lasciarsi 
                  coinvolgere nello svelamento" non sia una dimensione che 
                  vede l'essere umano passivo, ma sia anzi la dimensione più 
                  attiva possibile, proprio perché quel che si svela non 
                  è indipendente dall'essere umano, ma lo coinvolge come 
                  coinvolge il suo agire, per cui, se da un lato la libertà 
                  non può essere intesa come "invenzione" distaccata 
                  da tutto e tutti, è anche vero che, dall'altro lato, 
                  essa si rivela come un agire che corrisponde, coinvolgendolo, 
                  al disvelarsi dell'essere, è quindi un'azione, il cui 
                  senso si svela via via nell'agire stesso, implicata negli accadimenti 
                  del mondo che essa stessa costituisce.  
                Intendendo in questo senso la libertà, si può 
                  dire che l'"aver in sé i propri fini", che 
                  nella tradizione dell'Occidente è stato prevalentemente 
                  inteso come il fatto che "libero" è chi non 
                  deve rendere conto a nessuno del suo agire (la qual cosa ha 
                  poi significato che in nome della libertà si è 
                  giustificato tutto e il contrario di tutto), altro non è 
                  che la ricerca continua di un ethos, cioè di un 
                  "modo di essere", di "stare" e di agire, 
                  che continuamente si confronta e "apre" la storicità 
                  cui pure siamo consegnati. Tutto questo certo indica una strada 
                  per quanto riguarda il problema della libertà del singolo 
                  essere umano, ma lascia aperto il problema della libertà 
                  collettiva...  
                Su questo piano mi pare che il problema, come sottolineavi 
                  tu, nasca dal fatto che mentre da una parte pensiamo la libertà 
                  in termini di identità e non contraddizione, dall'altra 
                  non è possibile dare di essa un significato univoco - 
                  non è un caso, infatti, che essa non abbia lo stesso 
                  significato per tutti - la qual cosa significa che, in fondo, 
                  ci sarebbe una specie di "incomunicabilità della 
                  libertà", quindi anche dei modi di essere, delle 
                  azioni e, al limite, anche delle stesse comunità, che 
                  sulla libertà pretendono di poggiare. Mi pare insomma 
                  che, mentre l'idea di libertà viene continuamente sbandierata, 
                  questa stessa libertà non si riesca a trovarla da nessuna 
                  parte e questa impossibilità a trovarla dipenda proprio 
                  dal fatto che la libertà cui ci si riferisce rimane all'interno 
                  del ragionamento logico. Se è così, il punto diventa 
                  allora quello di indagare, o per lo meno cercare di riflettere, 
                  su che cosa possa essere l'esperienza della libertà e 
                  se, e in che misura, tale esperienza sia comunicabile.  
                  In questo percorso ecco che il fenomeno romantico torna ad avere 
                  un senso anche per noi, perché ci costringe ad interrogarci 
                  a fondo sul significato di parole come "esperienza" 
                  e "comunicabilità", e quindi ci costringe a 
                  fare i conti col problema di un linguaggio che si ponga aldilà 
                  del principio di identità e di ragione, un linguaggio 
                  che non faccia più perno sulla "ragione naturale" 
                  ma sull'elemento sentimentale, che è la chiave per intendere 
                  questo aldilà.  
                  Capisco che, detta così, la cosa possa sembrare fumosa, 
                  ma bisogna anche rendersi conto che quel che intendo dire ha, 
                  costitutivamente, un limite di dicibilità dato proprio 
                  dal fatto che, essendo il nostro linguaggio ordinato dal principio 
                  di non contraddizione, tutto quanto si pone oltre tale limite 
                  non può appunto essere detto dal linguaggio stesso. Quanto 
                  si pone oltre ai limiti del linguaggio è primariamente 
                  il "sentimento", intendendo con ciò non la 
                  sfera più propria e più intima dell'individuo 
                  -perché, se così fosse, l'idea di libertà 
                  che ne scaturirebbe poggerebbe proprio su questa dimensione 
                  soggettiva e meno "comunicabile"-, ma la costante 
                  e contemporanea esperienza del proprio e del rapporto dell'essere 
                  umano con ciò che egli non è. E' in questa sfera, 
                  che è prima e dopo la dicibilità e il concetto 
                  e di cui ciascuno di noi fa esperienza, ad esempio nell'amore, 
                  che mi pare stia il "luogo" della libertà come 
                  esperienza da un lato "vera", in quanto, appunto, 
                  riguarda tutto il nostro "più proprio", e dall'altro 
                  comunicabile, cioè in qualche modo partecipabile dal 
                  resto degli individui. 
                   
                   Una 
                  certa idea 
                È indubbio che quel che sentiamo come "più 
                  proprio" sia la nostra mortalità, che però 
                  è anche quel che ci accomuna agli altri. L'essere umano, 
                  in questo senso, esperisce la sua singolarità sempre 
                  come soglia di una universalità: il mio essere mortale 
                  è anche l'essere mortale di tutti, ma, proprio nel darsi 
                  di questa esperienza singolare-universale, si apre il problema 
                  del costitutivo "essere in comune" degli esseri umani. 
                  L'"essere in comune" degli esseri umani, infatti, 
                  altro non significa che l'essere tutti appartenenti ad una comunità/società, 
                  quindi ad una specifica temporalità. Ma essere consegnati 
                  ad un tempo significa anche essere radicalmente separati da 
                  quanti quel tempo non condividono, per cui la nostra temporalità 
                  non è una particolarità che contraddice l'universalità 
                  di cui stiamo parlando? 
                Mi verrebbe da dire che l'universalità dell'esperienza 
                  della libertà è una sorta di "universale 
                  mitico" perché è il "luogo" in 
                  cui tempo ed eternità, per usare due termini estremamente 
                  abusati e su cui occorrerebbe a lungo ragionare, trovano una 
                  loro "puntualità" e si incontrano, modificandosi 
                  continuamente.  
                  È in questo senso che la "puntualità della 
                  libertà" è un "universale mitico" 
                  poiché, in maniera per noi inesplicabile (inesplicabile 
                  dal punto di vista della razionalizzazione, che presume che 
                  da ogni esperienza si possa ricavare un concetto chiaro), è 
                  in quel momento "puntuale" che individuo e comunità 
                  sono messi assieme, anche se di tale accomunamento non può 
                  darsi una teoria, perché, nel momento in cui quella esperienza 
                  accade, essa già "apre" una comunità, 
                  che in tal modo è già un'opera, un fatto, il quale, 
                  a mio modo di vedere, in quanto tale non ha bisogno di alcuna 
                  teorizzazione, perché un tale tipo di comunità 
                  vive di, e in, quell'esperienza.  
                  Ora, se tutto ciò da una parte può spiegare un 
                  modo di essere e rende intuibile come ci sia un punto di contatto 
                  fra quelle che normalmente chiamiamo "libertà interiore" 
                  e "libertà collettiva", è altresì 
                  indubbio che, dall'altra parte, tutto questo si pone in rotta 
                  di collisione con la storia dell'Occidente. Essa, infatti, ci 
                  dice che la libertà che conta non è tanto una 
                  dimensione esperienziale, ma che è frutto di un progetto. 
                  La radice di questa divaricazione mi sembra stia in questo: 
                  mentre quel che io sto cercando di indicare implica chiaramente 
                  che l'esperienza della libertà non può essere 
                  uguale per tutti proprio perché gli esseri umani sono 
                  fra loro diversi, con storie ed esperienze diverse, la dimensione 
                  "occidentale" della libertà è una dimensione 
                  che, partendo dal diritto romano e arrivando fino a noi, mantiene 
                  inalterata la sua caratteristica di fondo, cioè un'idea 
                  astratta dell'essere umano, rispetto alla quale si crea appunto 
                  un modello che viene considerato valido attraverso tutta la 
                  storia.  
                  Rispetto a questo modello, che "funziona" ed ha innervato 
                  varie epoche della storia umana, la problematicità di 
                  quanto stiamo dicendo sta nel fatto che l'esperienza della libertà 
                  si sottrae proprio alla logica del funzionamento, sottraendosi, 
                  almeno in parte, alle tre dimensioni portanti di tutte le culture, 
                  non solo di quella occidentale. Queste dimensioni sono il diritto, 
                  la morale (o l'etica) e la religione, dalle quali l'esperienza 
                  della libertà si sottrae perché, nel momento in 
                  cui si dice che essa è in qualche modo esperibile o vissuta 
                  caso per caso, non può che prescindere da costruzioni 
                  così vaste e quindi diventa impossibile, al loro interno, 
                  far sì che l'universale e il particolare si incontrino, 
                  per cui tutto sembra scindersi in una miriade di particolarità 
                  inconciliabili fra loro.  
                  Credo però che questa aporeticità molto dipenda 
                  dal fatto che universale e particolare vengono pensati, nella 
                  costruzione della teoria della libertà così come 
                  l'ha pensata l'Occidente, a partire dal principio di identità 
                  e di ragione "naturale", per cui l'universale non 
                  può in alcun modo essere particolare e viceversa. In 
                  quello che cercavamo di dire prima circa l'esperienza della 
                  libertà, invece, universale e particolare assumono un 
                  significato diverso poiché principio di identità 
                  e principio di ragione vengono posti in crisi; è per 
                  questo che accade che l'esperienza assolutamente singolare sia 
                  anche, come appunto nel caso della morte, assolutamente universale. 
                  È in questo tipo di esperienza che, come si diceva prima, 
                  verità e libertà si relazionano in maniera diversa 
                  da quella che il pensarle teoricamente fa apparire, ed è 
                  in quel momento che, pure se va in crisi il modello teorico 
                  libertà-comunità-funzionamento, non per questo 
                  va in crisi l'idea di libertà o l'esperienza della libertà. 
                  Va in crisi una certa idea di libertà, una certa 
                  esperienza della libertà.  
                  Mi rendo conto che tutto quello che sto dicendo è estremamente 
                  parziale, ma credo anche che questo derivi dal fatto che, come 
                  ho più volte sottolineato, non può esistere una 
                  teoria dell'esperienza della libertà. La libertà 
                  e l'esperienza della libertà, non possono, in realtà, 
                  mai darsi in una teoria e quindi non possono stare in una soluzione 
                  pensata progettualmente perché non sono mai fuori dall'opera 
                  stessa, cioè dal loro stesso farsi. Voler fare una teoria 
                  della libertà è come voler fare una teoria della 
                  coppia o della buona riuscita di un matrimonio: non esiste una 
                  teoria della buona riuscita di un matrimonio, esistono matrimoni 
                  ben riusciti o coppie che stanno bene assieme e ugualmente esistono 
                  opere che si palesano di per se stesse come opere. La libertà 
                  è un'opera che si mostra e vive solo nel suo darsi continuo. 
                  
                   
                  Una 
                  sorta di ritmo 
                Mi pare che tutto quel che stiamo cercando di dire sia rintracciabile, 
                  ad esempio, nella pratica di lavoro degli artigiani di un tempo, 
                  per i quali la possibilità di fare o meno una data cosa, 
                  un dato oggetto, era determinata dal "rispetto" della 
                  materia con cui lavoravano, che la loro pratica trasformava 
                  "accompagnandola", cioè facendo attenzione 
                  a non snaturarne l'intima natura. Questo "accompagnare" 
                  è certamente, almeno da un certo punto di vista, un essere 
                  sottomesso, perché deve adeguarsi a ciò che gli 
                  è esterno, ma è da questa "sottomissione" 
                  che emerge la possibilità di far emergere la forma, di 
                  plasmarla. Mi pare che questo tipo di pratica, questo essere 
                  contemporaneamente fatti dal mondo ma anche costruttori del 
                  mondo, visualizzi bene quel che tu dici quando parli dell'esperienza 
                  di istanti che possono anche essere fra loro contradditori. 
                  A questo mi sembra che si attagli bene anche un'altra questione, 
                  e cioè che, come credo sia capitato a tutti, l'esperienza 
                  della libertà si dà sempre al passato, perché 
                  tu ti rendi conto di essere libero nel momento in cui l'istante 
                  della libertà è già passato, e appunto 
                  per questo ne hai fatto esperienza, ed il desiderare la libertà 
                  altro non è che il cercare di far sì che quell'attimo 
                  si riproponga, che si prolunghi, anche se, nel momento in cui 
                  cerchi di ricostruire le medesime condizioni che hanno permesso 
                  quell'esperienza, scopri anche che essa non può riproporsi 
                  nello stesso modo... 
                Il centro del ragionamento che fai sta in una parola, guarda 
                  caso tipicamemente romantica, che è "contemporaneamente", 
                  una parola che è centrale per il discorso che stiamo 
                  affrontando. 
                  Che l'esperienza della libertà sia anche l'esperienza 
                  del "contemporaneamente", secondo me, sta proprio 
                  nel fatto che soltanto una "ragione sentimentale" 
                  è in grado di mettere in rapporto essere e divenire, 
                  o, in altri termini, principi universali ed esperienza particolari. 
                  La difficoltà di visualizzare quello che sto dicendo 
                  - che finora, me ne rendo conto, è anch'esso un ragionamento 
                  teorico - sta nel piano su cui il contemporaneamente avviene 
                  perché è un piano cui non si accede tutti allo 
                  stesso modo, né allo stesso tempo, anche se è 
                  in esso che si situa la comunicabilità di fondo. È 
                  come una sorta di ritmo, al quale si partecipa, si è 
                  partecipato o si parteciperà. Fuori da questa immagine 
                  non mi sembra ci sia una ulteriore possibilità di visualizzare 
                  quel che sto cercando di dire, o se c'è io non riesco 
                  a trovarla. Bisognerebbe forse ricorrere alle parole di qualche 
                  poeta...  
                Il richiamo che fai al ritmo e la questione del "contemporaneamente" 
                  mi fanno venire in mente l'immagine della jam-session 
                  così come la praticavano, e ancora in parte la praticano, 
                  i jazzisti. La jam-session nasce quando alcuni musicisti 
                  cominciano a suonare per il puro piacere di farlo, ognuno col 
                  suo stile, ognuno ricorrendo ai temi che gli sono più 
                  congeniali. Nel corso della jam-session - in cui il numero 
                  dei musicisti varia e alcuni escono mentre altri si aggiungono 
                  - ogni musicista cerca di mantenersi, o inserirsi, nel contesto 
                  che si va via via creando senza perdere la sua specificità 
                  cosicché la jam-session è un incontro di individualità 
                  che tuttavia non ha un "autore", nemmeno collettivo. 
                  Come dice il termine stesso, la jam-session è 
                  una "marmellata" il cui "sapore" è 
                  dato dalla capacità degli elementi di amalgarsi senza 
                  scomparire, o perdere di specificità, nell'insieme, come 
                  invece capita nella musica di tradizione occidentale, che è 
                  pensata ed eseguita a partire dall'idea della totalità, 
                  dell'insieme in cui le singole parti scompaiono.  
                  In questo modo la jam-session è, "contemporaneamente" 
                  appunto, tante parti, ognuna delle quali è a suo modo 
                  un'opera, ma mai un'opera concettualmente compiuta perché 
                  virtualmente non ha inizio e non ha fine, quindi non può 
                  essere intesa come opera-oggetto...  
                L'immagine della jam-session mi sembra molto puntuale 
                  (e, guarda caso, la questione del "puntuale" era una 
                  di quelle cui si accennava precedentamente), e ad essa mi sembra 
                  si debba aggiungere che il farsi della jam session, che ad un 
                  occhio superficiale può apparire caotico, risponde invece 
                  a delle regole. In quello che dicevo prima il problema delle 
                  regole è rimasto in ombra, mentre emerge chiaramente 
                  dagli esempi che hai fatto, perché sia l'artigiano che 
                  il musicista jazz seguono delle regole ben precise nel loro 
                  fare. Certamente queste regole non sono dello stesso tipo delle 
                  regole sociali o delle leggi, sono, per così dire, delle 
                  "regole poetiche", perché, proprio come nella 
                  poesia propriamente detta, prevedono un'esperienza in cui il 
                  logos non si dà solo come "ragione". 
                   
                  Non conosco molto bene le procedure dei musicisti jazz, ma da 
                  quel che conosco mi pare emerga anche il fatto - che secondo 
                  me è un caso di libertà nel senso in cui ne abbiamo 
                  fin qui parlato - che il tema così come è "lavorato" 
                  dal suonatore X può essere percepito come inaccessibile 
                  dal suonatore Y - magari perché non lo "sente" 
                  o perché lo trova troppo difficile per le sue capacità 
                  -, il quale, a quel punto, non tenta di sovrapporsi a quel tema 
                  con qualcosa che in qualche modo risulterebbe come una caricatura 
                  e che comunque romperebbe quella bellezza, ma può scegliere 
                  di accompagnarlo, di ornarlo, di armonizzarlo. In questo senso 
                  il musicista Y si sottopone spontaneamente ad una esemplarità 
                  superiore, riconosciuta e sperimentata come tale, ma questo 
                  spontaneo sottoporsi non è un subire, un essere oppresso, 
                  bensì è anch'esso un'esperienza di libertà 
                  come apertura a quanto lo trascende, quindi anche come disposizione 
                  ad accogliere l'altro e la superiorità dell'opera altrui. 
                 
                  
                   
                  Perdere 
                  il tram 
                Rimanendo nell'esempio delle jam-session, non solo 
                  quel che tu dici accade, ma proprio quell'accadere mostra quel 
                  che, ad una logica del tutto razionale, può apparire 
                  come un paradosso e cioè il fatto che in quello spontaneo 
                  adeguarsi ad una superiorità, ad una autorevolezza, si 
                  apre la possibilità che il musicista Y elabori un linguaggio, 
                  un modo specifico, che risulta a sua volta inaccessibile per 
                  il musicista X, il quale deve a sua volta riconoscere quella 
                  nuova autorevolezza, che in tal modo, fra l'altro, risulta incommensurabile 
                  con l'autorevolezza precedente, e quindi non la nega, semplicemente 
                  la affianca, mostrando la nuova dimensione di un fare che rimane 
                  comune... 
                Certo, il riconoscere questa autorevolezza, l'adeguarsi ad 
                  essa, non è un sottoporsi in senso autoritativo, il "tenere 
                  il ritmo", insomma, è una modalità del rapporto. 
                  Una modalità che, secondo me, accade spesso in molte 
                  esperienze di libertà e soprattutto accade lì 
                  dove avviene un'apertura autentica, che non è mai un 
                  puro e semplice "stare alla pari" su un piano astratto, 
                  statico, ma è sempre la ricerca di un equilibrio su un 
                  piano mobile.  
                  Ora, la mobilità del piano altro non è, in fondo, 
                  che la costante mutazione dei rapporti che rende possibili delle 
                  aperture rispetto alle quali ciascuno conosce il tempo per introdursi. 
                  Se manca, e se si manca, quell'apertura, si è mancata 
                  l'occasione della libertà, perché si è 
                  mancato l'incontro con se stessi dal punto di vista dell'autenticità, 
                  quindi si è mancato il proprio rapporto con la verità 
                  e con la libertà. È come perdere un tram: non 
                  sapremo mai cosa ci sarebbe accaduto se lo avessimo preso, come 
                  ci avrebbe trasformato e quindi come avrebbe trasformato il 
                  mondo.  
                  
                  a cura di Franco Melandri 
                
                   
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                       bibliografia 
                      AAVV, 
                        Il prisma e il diamante, l'Antistato, 1991 
                      Joachim 
                        E. Berendt, Il libro del jazz, Garzanti, 1973 
                      Benjamin 
                        Constant, Discorso sulla libertà degli antichi 
                        paragonata a quella dei moderni, Editori Riuniti, 
                        1992 
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                        Dyer, Natura morta con custodia di sax, Instar-libri, 
                        1993 
                      Martin 
                        Heidegger, Dell'essenza della verità; in 
                        Segnavia, Adelphi, 1987 
                      Friedrich 
                        W. J. Schelling, Ricerche filosofiche sulla essenza 
                        della libertà umana, Laterza, 1974 
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