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                 L'ultima fatica di Nico Berti (Errico Malatesta, Il buon 
                  senso della rivoluzione, a cura di Giampietro Nico Berti, 
                  Milano, Elèuthera, 1999, pp. 243, L. 25.000) è 
                  dedicata al più noto e più importante anarchico 
                  del movimento di lingua italiana.  
                  Il recente monumentale volume bertiano sulle teorie libertarie 
                  (Il pensiero anarchico. Dal settecento al Novecento, 
                  Manduria, Lacaita, 1998, pp. 1030, L. 60.000) meriterebbe un'analisi 
                  approfondita. Qui è il caso di ricordare che quest'opera 
                  era stata preceduta da un'agile sintesi pubblicata nel 1994 
                  da Elèuthera, (Un'idea esagerata di libertà. 
                  Introduzione al pensiero anarchico, pp. 190, L. 23.000). 
                  Analogamente il succoso volumetto qui presentato anticipa di 
                  qualche anno un lavoro di grandi dimensioni, che l'instancabile 
                  Nico sta preparando da tempo, sulla vita e gli scritti di Malatesta, 
                  in sostanza una biografia definitiva dell'erede italiano di 
                  Bakunin. 
                  Ha ancora senso riproporre le riflessioni del mitico Errico 
                  ai giorni nostri ? Berti ha dato logicamente una risposta positiva 
                  selezionando articoli del Malatesta maturo, dal 1919 al 1932, 
                  dopo l'ultimo ritorno in Italia, terra dalla quale aveva dovuto 
                  ripetutamente fuggire in seguito alle sconfitte di svariati 
                  tentativi insurrezionali. Nel dicembre del 1919, quando la nave 
                  che riporta Malatesta a Genova giunge nel porto, la città 
                  si ferma per un saluto al vecchio internazionalista e decine 
                  di migliaia di lavoratori e cittadini accorrono sulle rive per 
                  salutare colui che, molto impropriamente, alcuni definiscono 
                  il "Lenin d'Italia". La sua enorme popolarità 
                  rappresenta il sintomo di una situazione di forti tensioni sociali 
                  e di grandi speranze nell'imminente rivoluzione, ma rivela anche 
                  il bisogno diffuso di un leader credibile che potesse condurre 
                  le masse verso la liberazione dal capitalismo.  
                  Al tempo stesso - lo scrive allora il nostro disincantato e 
                  sereno militante -, questa attesa messianica da parte del proletariato 
                  (che ripete "Faremo come in Russia" pur non avendo 
                  precise informazioni sulla contraddittoria realtà sovietica) 
                  favorisce, attraverso una paralizzante delega a un vertice carismatico, 
                  la vittoria di un movimento reazionario che nel 1919 non conta 
                  quasi nulla. Il fascismo di Mussolini si impone su un popolo 
                  apparentemente radicalizzato e deciso, in realtà assai 
                  impreparato a gestire una vera rivoluzione sul piano economico, 
                  sociale, politico. La dimostrazione si ha nel settembre del 
                  1920, al momento dell'occupazione delle fabbriche, quando gli 
                  operai armati non decidono di avviare la produzione in proprio 
                  e di scambiare i prodotti, ma si limitano ad una difesa simbolica 
                  del possesso degli impianti. Il mancato innesto di un autentico 
                  processo rivoluzionario e, nel giro di poche settimane, la smobilitazione 
                  del movimento delle occupazioni per mancanza di prospettive 
                  reali crea il terreno favorevole al fascismo.  
                  La borghesia industriale, spaventata a morte ma con un'intatta 
                  potenza, foraggia le squadre dei manganellatori, mentre i latifondisti 
                  pagano le spedizioni punitive contro le organizzazioni bracciantili 
                  e lo Stato tollera, o aiuta apertamente, lo smantellamento violento 
                  e sanguinario, quartiere dopo quartiere, villaggio dopo villaggio, 
                  delle strutture dei movimenti proletari. La passività 
                  sostanziale delle masse, subordinate alla linea riformista dei 
                  socialisti, disarma l'ipotesi rivoluzionaria che si fonda più 
                  su un'ondata emotiva che su una coscienza solida e sperimentata. 
                  Ecco una riflessione malatestiana che potrebbe risultare di 
                  qualche utilità per un confronto, sempre con le dovute 
                  cautele, con il clima di esaltazione sovversiva degli anni Settanta, 
                  a noi abbastanza vicini. 
                  Un altro tema cruciale riproposto nella parte antologica e nella 
                  stimolante introduzione riguarda il rapporto difficile tra l'inevitabile 
                  violenza nella rivoluzione (dovuta al fatto che i privilegiati 
                  difenderanno violentemente il proprio privilegio) e la costruzione 
                  di una società anarchica che dovrebbe basarsi sulla pacifica 
                  forza attrattiva dell'esperienza libertaria. Malatesta, nella 
                  lettura di Berti, non riesce a sciogliere in modo convincente 
                  questo nodo concettuale oscuro, che sarebbe comunque legato 
                  a certa incongruenza teorica e alla presunta subalternità 
                  politica dell'anarchismo. L'incoerenza riguarda il soggetto 
                  rivoluzionario identificato non nelle avanguardie organizzate, 
                  ma nel popolo; però questi sarebbe complessivamente debole 
                  e subordinato grazie allo sfruttamento e all'oppressione esercitati 
                  dai centri di potere. Il limite nella coerenza rivoluzionaria 
                  risiede nel fatto che gli anarchici, nella società liberata, 
                  non hanno in programma la gestione del potere politico bensì 
                  l'esercizio di una costante critica e opposizione a ogni tipo 
                  di governo per impedirgli di controllare la società e 
                  di soffocare il processo rivoluzionario. 
                  Entrambi i problemi sono effettivamente seri e la storia ne 
                  ha dimostrato la gravità in termini di dure repressioni: 
                  capitalisti liberali e pianificatori bolscevichi hanno gareggiato 
                  nell'eliminazione fisica delle tendenze antiautoritarie.  
                  Anche se una recensione non è il luogo più adatto 
                  per un approfondimento teorico, ritengo necessario osservare 
                  perlomeno che le contraddizioni rilevate da Nico sono anche 
                  conseguenza del modo di ragionare adottato in questo caso. Infatti 
                  egli assume concetti assoluti e rigidi e trascura il fatto che 
                  le realtà storiche sono state molto più sfumate 
                  e ricche delle definizioni teoriche. In questo senso va ricordato 
                  che sono esistite situazioni nelle quali delle porzioni non 
                  piccole di popolo hanno lottato con forza contro il potere dominante 
                  insieme al movimento libertario più o meno organizzato 
                  (oltre ai classici casi della Spagna e dell'Ucraina, vi sono 
                  almeno il Messico e l'Argentina). Allo stesso modo mi pare logico 
                  che la discutibile espressione "sconfitta iscritta nel 
                  DNA", ovviamente assai poco gradita nell'ambito militante, 
                  e indicata da Berti in altre pubblicazioni, non sia un fatto 
                  dimostrabile sul piano del ragionamento teorico, bensì 
                  su quello dei rapporti di forza, anche brutalmente considerati, 
                  fra il dominio (vecchio e nuovo) e gli antiautoritari. Ciò 
                  sposta il discorso sulla possibilità di essere forti 
                  senza scivolare nell'autoritarismo, di essere determinati senza 
                  cadere nel fanatismo, di essere efficaci nella lotta senza diventare 
                  disumani o violenti. 
                  Il rilievo dell'esempio come propaganda, della libera sperimentazione 
                  come anticipazione del futuro, della prevalenza dei motivi etici 
                  sulle contingenze politiche, sono ulteriori questioni "classiche", 
                  cioè sempre vive nel movimento e nella coscienza dei 
                  compagni. 
                  Anche per saperne di più su questi delicati problemi 
                  di una rivoluzione libertaria è utile leggere, o rileggere, 
                  quanto scritto dal piccolo elettricista napoletano, ma con inflessioni 
                  inglesi, il nostro Errico.  
                  E' quanto ci offre, con intelligenza critica e alquanto disincantata, 
                  Nico Berti, singolare figura di studioso al tempo stesso appassionato 
                  e rigorosamente scientifico. 
                   
                  Claudio Venza 
                
                  
                    
                      
                        
                          
                            
                              
                                
                                  
                                    
                                      
                                        
                                          
                                            
                                              
                                                
                                              
                                            
                                          
                                        
                                      
                                    
                                  
                                
                              
                            
                          
                        
                      
                    
                  
                
                  
 
                Futuro interiore 
                 Le frequentazioni di Vittorio Curtoni con la rivista si perdono 
                  decisamente nella notte dei tempi, quando apparve nel lontano 
                  1978 (numero 68 di A) un suo articolo intitolato Su Marte 
                  c'è un compagno, nel quale veniva delineato con precisione 
                  lo sviluppo della fantascienza americana fino agli anni settanta. 
                  Negli anni successivi la collaborazione si è ripetuta 
                  per lo speciale sul 2068 apparso a più riprese sui numeri 
                  di A 245, 246 e 247 nell'anno 1998 ; è quindi un grande 
                  piacere parlare di nuovo di questo scrittore sulle pagine di 
                  A/Rivista anarchica, in occasione della pubblicazione 
                  della sua antologia di racconti Retrofuturo. Storie di fantascienza 
                  italiana. (edizioni Shake, 1999). 
                  Il testo comprende una sorta di autobiografia di Curtoni intitolata 
                  La mia love story con la fantascienza, divisa cronologicamente 
                  in tre parti cui seguono dei gruppi di racconti corrispondenti, 
                  inoltre i singoli racconti sono introdotti da una breve presentazione 
                  che ne esplica le modalità compositive. Nel complesso 
                  quindi il volume si rivela molto più denso di una normale 
                  raccolta di racconti e fornisce una serie di riferimenti essenziali 
                  per chi volesse conoscere più approfonditamente la storia 
                  della fantascienza italiana, lasciandosi guidare dai ricordi 
                  di uno dei suoi protagonisti. 
                  Tra i periodi che vengono ricordati da Curtoni con maggiore 
                  trasporto c'è sicuramente quello del primo fandom italiano 
                  che nasce, anche se non in maniera ufficiale, nel 1965 durante 
                  la terza edizione del Festival internazionale del film di fantascienza 
                  di Trieste, quando un nutrito gruppo di giovani dai sedici ai 
                  vent'anni si scopre accomunato dalla medesima passione per la 
                  fantascienza e comincia a collaborare alla redazione di diverse 
                  fanzine. Nella rievocazione di Curtoni colpisce la mancanza 
                  della nostalgia che si ripiega compiaciuta su se stessa, l'impressione 
                  dominante è anzi quella della freschezza, dovuta certo 
                  alla foga e all'entusiasmo giovanili dell'autore in quel periodo, 
                  cui si aggiunge però la consapevolezza di creare qualcosa 
                  di completamente nuovo (almeno per l'Italia del periodo). Analoga 
                  situazione per gli anni di Robot, la rivista di fantascienza 
                  ideata e diretta da Curtoni dal '76 al '78, periodo durante 
                  il quale l'autore e i suoi collaboratori furono letteralmente 
                  travolti da una valanga di lavoro e si trovarono a fronteggiare 
                  le numerose incognite legate alla gestione di un'avventura editoriale 
                  cui si deve in gran parte l'elevazione dello status culturale 
                  della letteratura di fantascienza in Italia.  
                  Quest'ultimo aspetto è di fondamentale importanza per 
                  valutare appieno una rivista che per tutto il periodo della 
                  sua pubblicazione svolse una costante attività di promozione 
                  di nuovi autori (anche italiani), tra i quali vanno ricordati 
                  almeno Ballard, Leiber, Dish e Sturgeon, cui si affiancò 
                  una prolifica produzione saggistica. Nell'insieme, come ricorda 
                  anche Valerio Evangelisti nell'introduzione al volume, Robot 
                  si presenta con una maturità culturale di ampio respiro, 
                  che esce dalle coordinate del ghetto con l'intento di fare cultura 
                  e tutto ciò è sicuramente merito dello stile di 
                  Curtoni, che orchestra tutto l'insieme discretamente, ma in 
                  maniera inconfondibile, non solo dal punto di vista contenutistico, 
                  ma anche da quello stilistico, con le illustrazioni oniriche 
                  di Giuseppe Festino, che accompagnano l'autore anche in questa 
                  raccolta. 
                  Per quanto riguarda i racconti veri e propri va segnalato innanzitutto 
                  uno straordinario approfondimento dell'intuizione ballardiana 
                  della fantascienza come tempo interno, come futuro interiore, 
                  appunto che ha accompagnato l'autore fin dagli esordi. Già 
                  dai primi brani, che rivelano ancora asprezze e spigolosità 
                  giovanili che Curtoni ammette con grande onestà, ricorre 
                  il tema dell'incognita maggiore che sia data all'uomo da esplorare 
                  : se stesso. Proprio dall'esperienza della New Wave o 
                  almeno dell'espressione che di essa è stato James Ballard 
                  con il suo manifesto Which Way to the inner space? (Da 
                  che parte è lo spazio interno?) Curtoni recupera i toni 
                  ossessivi, la rappresentazione di una geografia nebulosa, di 
                  un ambiente artefatto che sia in grado di esprimere le angosce 
                  e gli stati d'animo dei personaggi sempre più straniti 
                  che lo popolano (basti ricordare il racconto intitolato La 
                  luce); altra grande intuizione mutuata dallo scrittore inglese 
                  è l'interpretazione della tecnologia finalmente non più 
                  affrontata con il piglio ingenuo di chi la considerava uno strumento 
                  indiscusso del progresso umano, bensì come parte integrante 
                  della vita degli individui, strumento che ne riproduce le paure 
                  e le ossessioni, le veicola, le amplifica, mostrandone il carattere 
                  allucinatorio (come nel tenero racconto Dal rabbino o 
                  nel crudele Ti vedo). Va comunque sottolineato che, per 
                  quanto Ballard sia stato un modello per Curtoni, lo è 
                  stato sicuramente nel senso più alto del termine: cioè 
                  come momento di confronto e come stimolo alla ricerca di una 
                  strada propria, autonoma ed innovativa che Curtoni intraprende 
                  proprio nella lettura degli stati d'animo dei suoi personaggi. 
                  Di fronte ad un Ballard legato (allora) alle tematiche della 
                  psicologia junghiana, dell'analisi dei rapporti tra immaginario 
                  collettivo ed individuale e interessato alla questione dei ricordi 
                  ancestrali della razza umana, lo scrittore italiano si ritaglia 
                  la propria originale lettura dei tormenti esistenziale dei suoi 
                  personaggi. Questi ultimi infatti si trovano nella tragica situazione 
                  di diversi adeguare ad una realtà alienante per sopravvivere 
                  (e con ciò perdono la propria individualità) ma 
                  se non lo fanno, rischiano di impazzire. Un futuro, quello di 
                  Curtoni, non così diverso dalla nostra attualità. 
                   
                  Laura Di Martino 
                  
                 
                Un intellettuale d'azione 
                Un imponente corteo silenzioso attraversava i boulevards di 
                  Parigi. Davanti due bare: trasportavano i corpi sfigurati di 
                  Nello e Carlo Rosselli verso il cimitero di Père Lachaise. 
                  In una calda giornata del giugno 1937 tutta la città, 
                  tutto l'antifascismo europeo, rendeva un grandioso omaggio ad 
                  uno dei più temibili avversari che il fascismo avesse 
                  sino ad allora incontrato sulla sua strada. 
                  Perché Carlo Rosselli non fu soltanto uno dei più 
                  fini intellettuali italiani di questo secolo, l'originale pensatore 
                  di un socialismo liberale non insensibile ad istanze libertarie, 
                  ma fu soprattutto uomo d'azione, anzi direi propugnatore dell'azione 
                  diretta. 
                  Nel centenario della nascita assume quindi una notevole importanza, 
                  l'iniziativa di pubblicare per la prima volta integralmente 
                  in italiano l'opuscolo che Gaetano Salvemini scrisse in sua 
                  memoria pochi mesi dopo il feroce assassinio (Gaetano Salvemini 
                  Carlo e Nello Rosselli. Un ricordo, Galzerano Editore, Casalvelino 
                  Scalo, 1999, pagg. 128, lire 20.000). 
                  Una vera primizia editoriale considerando anche il calibro dell'estensore: 
                  quel sanguigno Salvemini storico e pubblicista di punta, sensibile 
                  alla questione meridionale a tal punto da arrivare ai ferri 
                  corti anche con il Partito Socialista accusato di poca sensibilità 
                  al problema: lui che aveva aderito sin dal 1892, collaborando 
                  con Critica Sociale e l'Avanti, nel 1911 abbandonava 
                  il partito. 
                  Seguirà uno dei periodi più intensi della vita 
                  intellettuale di Salvemini con la nascita de l'Unità. 
                  Duramente perseguitato dal fascismo riparerà all'estero 
                  ricomparendo tra i fondatori di 'Giustizia e Libertà' 
                  insieme a Rosselli. Di lui vale la pena ricordare la grande 
                  amicizia che lo legò ad Armando Borghi negli anni di 
                  esilio americano spingendolo a scrivere di Mezzo secolo di 
                  anarchia. 
                  Nel 1937 la notizia dell'omicidio dei fratelli Rosselli spinge 
                  Salvemini a scrivere a caldo questo libretto con la risolutezza 
                  del giornalismo d'inchiesta, infatti solo ricostruendo l'operato 
                  antifascista di Carlo si può comprendere le motivazioni 
                  dell'omicidio; ordinato da Mussolini ma compiuto da sicari dell'organizzazione 
                  terroristica francese 'La Cagoule'. 
                  E l'attivismo di Carlo è davvero impressionante: nel 
                  1926 insieme a Pertini e Parri organizza la fuga di Filippo 
                  Turati da Milano verso la Francia che gli costerà il 
                  confino a Lipari da dove, nel 1929 (insieme a Francesco Fausto 
                  Nitti ed Emilio Lussu), riuscirà a fuggire con una delle 
                  più clamorose evasioni che la storia carceraria ricordi. 
                  Riparato a Parigi fu l'anima fondatrice di 'Giustizia e Libertà', 
                  forse l'unica organizzazione antifascista italiana capace negli 
                  anni trenta di creare seri problemi agli apparati repressivi 
                  fascisti: rompendo con il sostanziale immobilismo degli ambienti 
                  italiani in esilio e proponendo una strategia di lotta senza 
                  quartiere al fascismo. 
                  Non c'è quindi da stupirsi se alle prime notizie giunte 
                  dalla Spagna nel '36, Carlo Rosselli organizzò la prima 
                  colonna italiana in soccorso della rivoluzione, trovando l'entusiastica 
                  partecipazione degli anarchici esiliati che fornirono il grosso 
                  dei miliziani (è utile ricordare che i comunisti italiani 
                  che seguirono la colonna, lo fecero a titolo personale rompendo 
                  la disciplina di partito), tra l'altro il commissario politico 
                  della formazione fu Camillo Berneri, assassinato come Rosselli 
                  - questa volta per mano stalinista - appena un mese prima, nel 
                  maggio del '37. 
                  Sicuramente quella profezia "oggi in Spagna, domani in 
                  Italia!" non deve aver certo giovato alle sorti di Rosselli 
                  oramai diventato per Mussolini e per l'OVRA un nemico da abbattere 
                  a tutti i costi, osserva Salvemini: "Colpisci il pastore 
                  ed il gregge verrà disperso. Carlo Rosselli non fu soltanto 
                  una figura chiave del movimento Giustizia e Libertà, 
                  ma fu anche uno dei principali artefici della sconfitta fascista 
                  a Guadalajara". 
                  Sicuramente dietro i feretri dei fratelli Rosselli non c'erano 
                  solo le persone che avevano trovato in Carlo il geniale giornalista, 
                  l'intellettuale che approfondì la critica al comunismo 
                  autoritario, recuperando i pensatori della tradizione utopistica, 
                  ma vi erano anche i semplici militanti antifascisti che avevano 
                  visto in lui l'intellettuale che si sporca le mani, la figura 
                  carismatica capace di dare l'esempio rischiando la vita in prima 
                  persona nella lotta a viso aperto contro il fascismo. 
                   
                  Dino Taddei 
                  
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