Alcune 
                    schede tratte dal «Dizionario Biografico degli Anarchici 
                    Italiani» 
                  
                    
 Lanciotti, 
                    Umberto
Lanciotti, 
                    Umberto 
                    Nasce a Forano Sabina (RI) il 1° aprile 1894 da Emidio 
                    e Angela Di Mario, cameriere, autista meccanico. Nel 1897 
                    la famiglia si trasferisce a Sassoferrato. L. frequenta le 
                    scuole tecniche e segue con simpatia la vicenda di Augusto 
                    Masetti. Nel 1913 L. emigra in Francia e, qualche mese più 
                    tardi, raggiunge gli Stati Uniti, dove fa il minatore a Scranton 
                    (Penn.) e si unisce agli anarchici antiorganizzatori, che 
                    pubblicano la «Cronaca sovversiva» di Barre. Chiamato 
                    alle armi nel 1914, rimane in America e viene denunciato per 
                    renitenza alla leva. Negli usa conosce Raffaele Schiavina, 
                    frequenta assiduamente Nicola Recchi e collabora con gli IWW 
                    in attività agitatorie di varia natura. 
                    Operaio a Monessen, in uno stabilimento di chiodi e lamiere, 
                    e contabile in una banca, condanna, senza appello, il conflitto 
                    mondiale – approvando la consegna di Galleani: “Contro 
                    la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale” 
                    e si dà “molto da fare, insieme a Nicola Recchi”. 
                    Accusato di diserzione, presta la sua opera nelle fabbriche 
                    di automobili di Detroit e partecipa alle agitazioni promosse 
                    per salvare la vita di Carlo Tresca. Nel settembre, 1920 rientra 
                    a Genova. Ricongiuntosi ai genitori, che vivono a Loreto, 
                    lavora alla costruzione del doppio binario della ferrovia 
                    Loreto-Porto Civitanova fino al marzo 1921, quando viene licenziato 
                    per aver aderito a uno sciopero, e poi fa per sette mesi, 
                    a Zara, il magazziniere di un grossista di vino. Nel novembre 
                    1922 affronta, ad Ancona, una banda di squadristi, uscendo 
                    ferito dal conflitto. Temendo di essere arrestato in quanto 
                    disertore, a fine anno si imbarca illegalmente su una nave 
                    diretta in Olanda. Sceso a Cardiff, passa dei giorni difficili 
                    nella città gallese, perché è privo di 
                    risorse, ma un marinaio dell’Andrea Doria gli fornisce 
                    il recapito londinese di un autorevole esponente anarchico: 
                    Emidio Recchioni, che lo aiuta a procurarsi un lavoro. Qualche 
                    settimana dopo, L. prende la parola al comizio di un ex deputato 
                    comunista e ribadisce che “i principi anarchici non 
                    consentono di fare causa comune con i comunisti”. Nella 
                    capitale inglese fa il cameriere fino al 1925, quando impartisce 
                    una severa lezione al proprietario di un circolo, che intendeva 
                    licenziarlo, e si deve nascondere per sfuggire a una probabile 
                    estradizione. 
                    In seguito s’imbarca clandestinamente e, in aprile, 
                    scende a Buenos Aires, dove conosce molti anarchici italiani 
                    e spagnoli. Apprezzato per l’intelligenza, la prontezza 
                    di spirito e la “sorprendente flemma” e temuto 
                    per l’audacia e lo sprezzo del pericolo, frequenta assiduamente, 
                    in questa fase, oltre a ritrovare Recchi, frequenta Aldo Aguzzi 
                    e collabora con il gruppo formato da Miguel Arcángel 
                    Roscigna, Emilio Uriondo, Pedro Boadas Rivas (un attentatore 
                    catalano, “raccomandato” a Roscigna da Durruti) 
                    e dai fratelli Antonio e Vicenzo Moretti, mentre ha rapporti 
                    sporadici con Severino Di Giovanni e i fratelli Paulino e 
                    Alejandro Scarfó. Dal 1928 al 1930, in Argentina si 
                    scatena una stagione di attentati anarchici, dei quali è 
                    ritenuto colpevole il gruppo di Di Giovanni. Il 23 giugno 
                    1930 L. viene arrestato nella trattoria Vesuvio insieme a 
                    Emilio Uriondo e a Juan López Dumpiérrez, e 
                    condannato a due anni di carcere, che dovrà scontare 
                    a Ushuaia, nella Terra del Fuoco. 
                    Il 19 luglio il questore di Ancona chiede il suo inserimento 
                    nel «Bollettino delle ricerche» come: “Anarchico 
                    pericoloso. Colpito mandato cattura tuttora eseguibile per 
                    diserzione”. Il 6 settembre il generale Uriburu instaura 
                    una feroce dittatura in Argentina e il 1° febbraio 1931 
                    Severino Di Giovanni e Paulino Scarfó vengono fucilati, 
                    dopo un processo sommario. Roscigna e Fernando Malvicini riparano 
                    invece in Brasile e in Uruguay, per essere consegnati – 
                    qualche anno dopo – alla polizia argentina, che li assassinerà 
                    brutalmente, gettandone i corpi nel Río de la Plata. 
                    Quanto a L., rimesso in libertà il 13 luglio 1932, 
                    viene nuovamente arrestato a Rosario e torturato selvaggiamente, 
                    insieme a Recchi. Successivamente espulso dall’Argentina 
                    e deportato in Italia, arriva a Napoli il 24 ottobre 1933, 
                    “senza becco di quattrino”. Interrogato l’8 
                    novembre 1933 nella Questura di Ancona, fa i nomi di Aldo 
                    Aguzzi, di Orazio Vadarazco [Horacio Badaraco], direttore 
                    del giornale «Antorcha», e del drammaturgo González 
                    Pacheco e racconta di aver frequentato a Buenos Aires Emilio 
                    Uriondo, Juan López Dumpiérrez e Enrique [Fernando] 
                    Malvicini. 
                    Nega però di aver conosciuto Di Giovanni e di aver 
                    fatto parte di organizzazioni terroristiche. Condannato dal 
                    Tribunale militare di Roma, il 28 dicembre, a un anno di carcere 
                    per diserzione, viene incluso tra i sovversivi attentatori, 
                    e il 14 febbraio 1935 – espiata la reclusione – 
                    è assegnato al confino per cinque anni. Deportato a 
                    Ponza, non si piega ai fascisti e il 20 agosto viene condannato 
                    a tre mesi di arresti per contravvenzione agli obblighi del 
                    confino. Tradotto a Tremiti il 5 luglio 1937, viene punito 
                    quattro volte con il divieto di libera uscita e il dimezzamento 
                    del sussidio, perché si è rifiutato di salutare 
                    romanamente, e il 27 novembre viene incarcerato a Lucera fino 
                    al 25 gennaio 1938. Trasferito a Bernalda il 23 marzo 1939, 
                    dimostra “sempre”, ripetono le autorità 
                    il 31 marzo, “persistente attaccamento alle sue idee 
                    sovversive, e non manca di istigare i suoi simili, incitandoli 
                    a rendersi inosservanti all’obbligo del saluto romano”. 
                    Nei mesi seguenti L. non modifica il suo comportamento e il 
                    3 novembre il prefetto di Foggia riferisce che “non 
                    ha dato prova di ravvedimento ed ha conservato inalterate 
                    le proprie idee anarchiche, frequentando la compagnia degli 
                    elementi più pericolosi”. 
                    Rilasciato il 5 febbraio 1940, L. non riesce a trovare un’occupazione 
                    a Loreto e alla fine dell’anno si sposta a Milano. Nel 
                    capoluogo lombardo viene assunto – come operaio – 
                    in uno “stabilimento ausiliario”, ma il fatto 
                    suscita le proteste della Prefettura meneghina, che il 10 
                    gennaio 1942 ne chiede l’allontanamento dalla fabbrica. 
                    Rimasto a Milano fino al 1945, insieme a Recchi, L. riprende 
                    il suo posto fra gli anarchici dopo la liberazione, sostenendo 
                    generosamente la stampa del movimento e partecipando ai convegni 
                    e ai congressi. Per vivere fa l’assistente edile, come 
                    riferisce la Questura di Ancona al Ministero degli Interni 
                    il 5 ottobre 1956. Nel 1964 si trasferisce a Follonica, dove 
                    frequenta i compagni di fede Renato Palmizzi e Andrea Anelli, 
                    e nel 1966 aderisce ai GIA: “io ero sempre stato vicino 
                    alle posizioni di Galleani e di Sartin [R. Schiavina] e non 
                    ero d’accordo con la FAI”. La morte lo coglie 
                    a Follonica il 9 giugno 1974. (F. Bucci – G. Ciao Pointer 
                    – M. Lenzerini). 
                    Fonti: ACS, CPC, ad nomen; AB, Testimonianze 
                    di U. Lanciotti, 4 mag. 1970 e 10 ott. 1973; F. [Bucci], 
                    Umberto Lanciotti, «UN», 22 giu. 1974. 
                    Bibliografia: O. Bayer, Severino di Giovanni, l’idealista 
                    della violenza, Pistoia 1973; M.B. Montani, L’attività 
                    dell’anarchico Aldo Aguzzi durante l’esilio in 
                    Argentina (1923–1936), Tesi di laurea, Università 
                    di Pisa, aa. 1976-1977; D. Abad de Santillán, Memorias, 
                    1897–1936, Barcelona 1977; Dal Pont 1, ad indicem; 
                    ACPC, ad nomen; O. Bayer, Gli anarchici espropriatori 
                    e altri saggi sulla storia dell’anarchismo in Argentina, 
                    Cecina 1996, pp. 26, 35, 44, 47, 57; C. Bini, Baires scopre 
                    l’amore di un anarchico italiano, «La Nazione», 
                    1° ago. 1999. 
                  
                  Favignana, 
                    15 dicembre 1926 - Antonio Malara, primo seduto da destra, 
                    assieme a un gruppo di confinati
                  Malara, 
                    Antonio 
                    Nasce a Reggio Calabria il 2 luglio 1898 da Francesco e Grazia 
                    Calveri, ferroviere. Comunemente conosciuto con il nome di 
                    “Nino”, è un attivo propagandista tra i 
                    ferrovieri negli anni del primo dopoguerra, e soprattutto 
                    nel Biennio rosso ed è uno dei principali organizzatori 
                    in Calabria dello sciopero nazionale di categoria svoltosi 
                    dal 21 al 29 gennaio del 1920. Per la sua responsabilità 
                    negli scioperi degli anni 1921-22 viene licenziato subito 
                    dopo la presa del potere del fascismo. 
                    Nel 1924 insieme a Bruno Misefari e altri compagni continua 
                    l’attività politica fondando il foglio «L’Amico 
                    del popolo». Nel 1925 si trasferisce a Cosenza, dove 
                    si impiega come operaio avventizio nelle Ferrovie calabro-lucane. 
                    Nel capoluogo del cosentino si mantiene in rapporto anche 
                    con diversi militanti comunisti e il 20 settembre venne denunciato 
                    dalla Questura e arrestato per “complotto contro i poteri 
                    dello stato” insieme al noto Fausto Gullo e ad altri 
                    comunisti. Rimesso in libertà per insufficienza di 
                    indizi, nel 1925 con foglio di via obbligatorio viene rimpatriato 
                    a Reggio Calabria. In seguito ritorna di nuovo a Cosenza e 
                    riesce a trovare un’occupazione come tornitore nello 
                    stabilimento Industrie Cosentine. 
                    Il ritorno di M. a Cosenza rinvigorisce l’incisività 
                    sociale del locale gruppo anarchico, il cui nucleo più 
                    forte si colloca in contrada Surdo, nel comune di Rende, periferia 
                    nord della città, dove operano altri militanti dell’anarchismo 
                    calabrese come Vincenzo e Sandro Turco, che ogni mattina al 
                    mercato di Cosenza, con la vendita di verdura e frutta incartata 
                    con giornali “sovversivi”, permettono la diffusione 
                    di notizie e di informazioni antifasciste. 
                    M. continua intanto ad avere rapporti con gli ambienti sindacali 
                    e soprattutto col sindacato ferrovieri, insieme a un’altra 
                    figura che costituisce un importante punto di riferimento 
                    per la categoria: Andrea Croccia, che, dopo i primi approcci 
                    con il socialismo, aderisce alla fine del 1923 al gruppo anarchico 
                    di Cosenza. 
                    La presenza di alcuni militanti nei paesi della pre-Sila e 
                    in quelli albanesi come San Demetrio Corone e nella zona del 
                    castrovillarese garantiscono al gruppo anarchico un radicamento 
                    sul territorio che costituisce un punto di riferimento importante 
                    anche per alcuni militanti di altre formazioni politiche della 
                    sinistra. Nel 1926 M. viene arrestato e condannato a cinque 
                    anni di confino. 
                    Rimesso in libertà nel 1932, ritorna a Cosenza e riprende 
                    i contatti con i vecchi compagni e in particolare con Croccia, 
                    che, pur avendo aderito al PCDI, continua a professare idee 
                    libertarie. Negli anni successivi M. si distingue per un’opera 
                    di reclutamento di volontari antifascisti che partono dalla 
                    Calabria per andare a combattere in Spagna. In occasione della 
                    visita di Mussolini a Cosenza il 27 marzo 1939 M. viene nuovamente 
                    arrestato per motivi cautelari e successivamente rilasciato. 
                    Scoppiata la guerra cura l’organizzazione con Croccia 
                    di un gruppo di propaganda antifascista che agisce sui treni 
                    della linea Paola-Cosenza e Cosenza-Sibari-Taranto. 
                    Contemporaneamente stringe accordi con esponenti delle altre 
                    forze politiche antifasciste e nell’ottobre del 1942 
                    è tra i promotori a Cosenza della nascita di un organismo 
                    unitario antifascista, il Fronte unico per la libertà. 
                    Gli anarchici svolgono una parte importante nel fronte, a 
                    cui aderiscono con il nome di gruppo “Unità proletaria”. 
                    Negli anni successivi M. è una delle figure centrali 
                    della ripresa del movimento anarchico nel meridione. Dal 15 
                    al 19 settembre 1945 partecipa a Carrara al Congresso di fondazione 
                    della fai come rappresentante del gruppo libertario di Cinquefrondi 
                    insieme a Giacomo Bottino e Luigi Sofrà. Negli anni 
                    successivi è presente ai Congressi e Convegni nazionali 
                    della fai di Bologna (16-20 mar. 1947), Rimini (3 ago. 1947), 
                    Canosa (22-24 feb. 1948) sempre come rappresentante della 
                    Federazione calabrese. In seguito, trasferitosi a Roma, svolge 
                    attività nel sindacato nazionale ferrovieri fino alla 
                    fine degli anni Cinquanta, per poi tornare a Cosenza. 
                    Nel 1965 – nello scontro tra “organizzatori” 
                    e “antiorganizzatori” all’interno della 
                    fai, con la conseguente nascita dei gia per opera dell’ala 
                    “antiorganizzatrice” – M., che ha sempre 
                    manifestato la propria adesione alla concezione malatestiana 
                    dell’anarchismo federalista e l’impegno nel mondo 
                    del lavoro, decide di mantenere l’adesione alla fai. 
                    Nel 1968 M. riprende la sua attività militando nel 
                    gruppo “Bakunin” di Cosenza – uno dei gruppi 
                    anarchici calabresi più vivaci, composto non solo da 
                    studenti ma anche da appartenenti alle fasce più deboli 
                    del proletariato cittadino –, che è attivo nel 
                    movimento studentesco e nelle lotte sociali. M. insieme agli 
                    altri compagni del “Bakunin” resistono all’ondata 
                    repressiva seguita alla strage di piazza Fontana e decidono 
                    di modificare il nome del circolo in gruppo “Errico 
                    Malatesta”; nel 1973 M. e il gruppo “Malatesta” 
                    insieme a tante altre realtà anarchiche calabresi proliferate 
                    dopo i fatti di Reggio Calabria del 1970, danno vita all’Organizzazione 
                    anarchica calabrese, composta prevalentemente da gruppi e 
                    individualità del cosentino e del reggino che per tutta 
                    la prima metà degli anni Settanta si fa portatrice 
                    di una campagna di informazione contro la strategia della 
                    tensione e di diffusione delle idee libertarie. M. muore a 
                    Roma il 17 marzo 1975. (D. Liguori) 
                    Fonti: ACS, CPC, ad nomen. 
                    Bibliografia: Scritti di M.: Antifascismo anarchico 1919-1945, 
                    A quelli che rimasero, Roma 1995. Scritti su M.: 
                    FAI Congressi; L. Candela, Breve storia del movimento 
                    anarchico in Calabria dal 1944 al 1953, Ragusa 1987; 
                    F. Cuzzola, Cinque anarchici del sud. Una storia negata, 
                    Reggio Calabria 2001. 
                  
                  Michele 
                    Angiolillo 
                  Maraviglia, 
                    Osvaldo 
                    Nasce a Caldarola (MC) il 7 giugno 1894 da Teofilo e Eusebia 
                    Ravaglioli, operaio. Emigra negli USA a 17 anni e raggiunge 
                    i due fratelli maggiori a Newark (New Jersey), dove trova 
                    lavoro nell’industria dell’abbigliamento maschile; 
                    partecipa alle lotte della categoria di quegli anni (in cui 
                    nacque la locale associazione sindacale Amalgamated clothing 
                    workers union, Locale 24). 
                    Partito dall’Italia con idee socialiste, aderisce ben 
                    presto, con entusiasmo e sete di giustizia, all’idea 
                    anarchica; diventa poi diffusore di «Cronaca sovversiva» 
                    e di «Era nuova». Durante la Prima Guerra mondiale, 
                    nonostante le persecuzioni, è un attivo propagandista 
                    antimilitarista e rivoluzionario. Nel 1916 la sua corrispondenza 
                    con la famiglia d’origine inizia ad essere controllata 
                    dalla censura militare, perché vi si riscontrano brani 
                    di spiccato tenore sovversivo e antimilitarista. 
                    Dopo la guerra è tra i primi ad adoperarsi per far 
                    risorgere la stampa anarchica dopo il lungo periodo di silenzio. 
                    È tra i promotori de «L’Adunata dei refrattari», 
                    che inizia le sue pubblicazioni nell’aprile del 1922, 
                    e da quel momento tutta la sua vita si intreccerà con 
                    quella del giornale. M. ne diventa amministratore e per lunghi 
                    periodi è anche redattore, correttore, cura corrispondenze, 
                    si occupa di qualsiasi questione del giornale. 
                    La sua preparazione scolastica è limitata agli studi 
                    elementari, ma è con le sue capacità, la sua 
                    intelligenza, la sua energia che ben presto riesce a disbrigare 
                    qualsiasi funzione. La sua giornata inizia alle cinque di 
                    mattina e termina alle dieci di sera, dividendosi in tre occupazioni: 
                    la famiglia, la fabbrica e il giornale. Non mancano dei periodi 
                    in cui quest’ultimo occupa completamente il suo tempo. 
                    Probabilmente tra i fattori di longevità de «L’Adunata 
                    dei refrattari», il suo sopravvivere per lunghi anni 
                    a insidie e crisi, bisogna contare anche l’opera svolta 
                    da M. Con la cura del giornale, M. inizia a tessere un’immensa 
                    rete di relazioni con i compagni americani e di tutto il mondo. 
                    I suoi contatti e la sua attività sono noti e apprezzati 
                    ovunque; egli manda e riceve notizie sulla vita del movimento, 
                    ma accompagna sempre tutto con parole fraterne di sostegno 
                    ed aiuto. Si occupa anche di coordinare la solidarietà 
                    economica nei confronti delle vittime della repressione: è 
                    M. che raccoglie fondi e provvede a inviare somme. Presso 
                    il cpc sono dettagliatamente documentate le somme e gli assegni 
                    che M., definito “zio d’America”, inviava 
                    dagli Stati Uniti (ma talvolta veniva utilizzato anche il 
                    nome di sua moglie, Maria Caruso, compagna anche d’ideali). 
                    
                    Destinatari tra gli altri: E. Malatesta prima, poi la sua 
                    compagna E. Melli, C. Berneri, G. De Luisi, L. Tollini in 
                    Mastrodicasa, A. Franzini, G. Cola (vedova Stagnetti), F. 
                    De Rubeis, F. Ippoliti, C. Frigerio, V. Capuana. Nel periodo 
                    fascista la solidarietà non si limita ai versamenti 
                    ai compagni e alle famiglie bisognose, ma vengono sostenute 
                    anche le attività antifasciste e cospirative (somme 
                    inviate a M. Schirru, ecc.) e ciò attira particolare 
                    attenzione da parte degli apparati di polizia italiani operanti 
                    negli Stati Uniti. M. è attivo propagandista e anche 
                    attento polemista nei confronti di quegli esponenti antifascisti 
                    che talvolta esprimono giudizi semplicistici sul movimento 
                    anarchico. 
                    Durante la rivoluzione spagnola, è promotore di iniziative 
                    a sostegno dei combattenti. Tra il 1936 e il 1939 si reca 
                    in Francia per una visita ai compagni là operanti. 
                    Alla caduta del fascismo riprende le relazioni con i compagni 
                    italiani, cui fornisce consigli, materiale di propaganda e 
                    sostegni finanziari. Non manca, nella sua attività 
                    di collettore e distributore di somme, di ricevere insinuazioni 
                    e critiche. 
                    Nel 1954, a causa di una grave malattia al cuore, lascia Newark 
                    per trasferirsi a San Francisco, abbandona quindi l’amministrazione 
                    del giornale, pur rimanendone collaboratore e consigliere. 
                    Anche le circostanze della morte testimoniano il suo impegno 
                    politico. Il 22 ottobre 1966 si tiene a San Francisco una 
                    manifestazione organizzata da un gruppuscolo razzista e nazifascista: 
                    alcune migliaia di persone intervengono per contrastare l’iniziativa, 
                    scoppiano tafferugli e si registrano scontri con la polizia. 
                    Nonostante la malattia, M., che è un assiduo partecipante 
                    di iniziative antifasciste e antirazziste, si reca alla manifestazione, 
                    ma è colpito da malore e muore. (F. Sora) 
                    Fonti: ACS, CPC, ad nomen; [Necrologio], «ADR», 
                    29 ott. e 12 nov. 1966; Quelli che ci lasciano, «UN», 
                    5 nov. 1966, [Necrologio], «L’Internazionale», 
                    1 dic.1966. 
                    Bibliografia: Berneri 1 e 2, ad indicem; Malatesta, 
                    ad indicem. 
                  
                  Errico 
                    Malatesta 
                  Melacci, 
                    Bernardo 
                    Nasce a Foiano della Chiana (AR) il 19 gennaio 1893 da Ferruccio 
                    e Stella Tanganelli. In famiglia si coltivano simpatie per 
                    gli ideali socialisti. Primo di quattro fratelli, frequenta 
                    le scuole elementari e quindi inizia a lavorare con il padre 
                    come meccanico in un’officina. 
                    A 17 anni, con altri suoi compaesani, abbandona il paese per 
                    recarsi a lavorare come meccanico all’Ansaldo di Genova. 
                    Qui, a contatto con il proletariato industriale e con la propaganda 
                    sovversiva, affina la sua preparazione rivoluzionaria, partecipando 
                    a diverse agitazioni. 
                    Richiamato in marina (“nella compagnia del capitano 
                    Giuseppe Giulietti, quello che riportò dall’esilio 
                    l’anarchico Malatesta”), passa gli anni della 
                    guerra imbarcato su unità dislocate nei porti libici. 
                    In questo arco di tempo M. matura le sue idee anarchiche dopo 
                    che ha avuto modo di conoscere personalmente lo stesso Malatesta 
                    nel corso di un viaggio in nave. Tornato dalla guerra trova, 
                    come tutti i reduci, disoccupazione fame e miseria. Il gruppo 
                    anarchico foianese, ufficialmente costituito nel dopoguerra, 
                    ha una decina di aderenti. Una delle principali attività 
                    di propaganda consiste nella diffusione di «Umanità 
                    nova». Ma già dal 1914 a Foiano si legge «Il 
                    Libertario». 
                    Fra gli altri esponenti di spicco del gruppo: Sante Scapecchi 
                    (“Ficocco”), Luigi Giaccherini (“Baiocco”), 
                    Carlo Scapecchi, Guido Marcelli (“Buco”), Vittorio 
                    Ugolini (“Dazio”), Lanciotto Gailli, Piero Senesi 
                    e Giulio Bigozzi. Molti di loro, coetanei, hanno vissuto insieme 
                    l’esperienza del servizio militare in marina. 
                    Prima della fondazione del PCDI –ricordano i compagni 
                    – a Foiano esistevano il gruppo anarchico, e il psi. 
                    All’indomani di una riuscita manifestazione e corteo 
                    organizzati insieme ai socialisti in occasione del 1° 
                    maggio 1920 – oratori il deputato Ferruccio Bernardini 
                    e M. – inaugura il suo “nero vessillo” il 
                    Gruppo anarchico “Pietro Gori”. Ma già 
                    qualche mese prima il gruppo, in fase di costituzione, aveva 
                    promosso con successo uno spettacolo teatrale a sfondo antimilitarista 
                    e di beneficenza a favore dei bambini austriaci orfani di 
                    guerra. Agli inizi dell’anno successivo si organizza 
                    ancora una serata pro-vittime politiche al teatro del paese. 
                    
                    “Il gruppo anarchico non aveva una sede e faceva le 
                    riunioni in casa di M.; non vi era un segretario, ma siccome 
                    era stato Bernardo a portare l’ideale anarchico noi 
                    lo consideravamo il responsabile […]. Ricordo che in 
                    quel periodo che va dal 1918 al 1921 vi furono delle grosse 
                    battaglie sindacali e politiche in Foiano e nella vallata 
                    e la spinta promotrice ed organizzativa veniva sempre dagli 
                    anarchici [...] Per i contatti fra gruppi anarchici posso 
                    dire che noi eravamo in contatto con tutte le zone limitrofe: 
                    Lucignano, Monte Sansavino e con quelli del Valdarno (Sassi 
                    Attilio); [Alfredo] Melani, [Ruggero] Turchini, che erano 
                    operai del Fabbricone, ad Arezzo; a San Giovanni c’era 
                    l’Unione Sindacale che era diretta dagli anarchici. 
                    Ricordo che ci arrivava anche il giornale anarchico ed ogni 
                    tanto noi gli si mandava qualche cosa (denari)”. 
                    Gli anarchici della Val di Chiana contribuiscono ad arginare 
                    le aggressioni fasciste. Il 12 aprile 1921, a bordo di due 
                    camion giungono a Foiano squadre fasciste aretine, del Valdarno 
                    e di Firenze equipaggiate di elmetti militari e moschetti, 
                    trovano il paese deserto e distruggono le sedi del psi, della 
                    cdl, della cooperativa di consumo e della Lega colonica, senza 
                    che i carabinieri presenti intervengano. La domenica seguente, 
                    il 17, una ventina di squadristi tornano a Foiano e quando 
                    sono sulla via del ritorno verso Arezzo, a due chilometri 
                    dal paese, in contrada Renzino, vengono “assaliti da 
                    una turba di contadini, che erano in agguato dietro le siepi 
                    armati di fucili, pistole, scuri e forconi”. Caddero 
                    uccisi tre fascisti, “sui cui corpi gli aggressori, 
                    fra i quali una donna, si accanirono facendone scempio. 
                    Altri furono gravemente feriti [...] Avvertiti telefonicamente 
                    dai superstiti accorsero, su automobili e camion, fascisti 
                    da Siena, Perugia, Città di Castello e Firenze, questi 
                    altresì con elmetti e armati di moschetto e di una 
                    mitragliatrice. L’azione vendicativa fu oltremodo violenta, 
                    vennero incendiati fienili e case coloniche e furono uccisi 
                    quattro comunisti”. Tra le vittime di Foiano c’è 
                    anche un giovane calzolaio anarchico di Arezzo, Gino Gherardi. 
                    È l’ultimo ucciso della strage. Alla spedizione 
                    punitiva segue l’azione delle autorità. M. viene 
                    arrestato a Genova nel giugno 1921. Tradotto “in gran 
                    segreto” ad Arezzo trova ad attenderlo in questo scalo 
                    ferroviario quaranta fascisti. Qualcuno tenta di accoltellarlo 
                    ma ferisce per errore un altro detenuto. Istigatore della 
                    mancata azione vendicatrice è un superstite della spedizione 
                    del 17 aprile desideroso di saldare i conti rimasti in sospeso. 
                    È da questo momento che si cercherà di cucire 
                    addosso all’anarchico foianese l’immagine mostruosa 
                    dell’assassino truculento. Perciò si arriva a 
                    produrre, quale prova di colpevolezza, persino una fotografia 
                    che lo ritrae mentre brandisce uno spadino nel corso delle 
                    prove per una vecchia recita di teatro amatoriale. 
                    M., interrogato, ammette di praticare spesso la caccia per 
                    motivi di sussistenza, pur non essendo munito di regolare 
                    porto d’armi, poi inizia il suo racconto partendo dalla 
                    giornata del 12, ricordando l’umiliazione patita per 
                    le violenze dei fascisti ai suoi familiari. Conferma le sue 
                    idee anarchiche ma nega di aver preso parte all’imboscata 
                    del 17. 
                    Messo in difficoltà dalla mole enorme delle testimonianze, 
                    si trova costretto ad alcune ammissioni; però sostiene 
                    di non aver distribuito nessun’arma come si dice, di 
                    non conoscere i suoi accusatori. Respinge infine con veemenza 
                    l’accusa di aver rubato il portafoglio ai fascisti. 
                    Racconta della sua fuga, dei primi pernottamenti nelle capanne 
                    della Val di Chiana, del rifugio a Genova. 
                    A quella che l’agiografia fascista chiamerà “l’imboscata 
                    comunista” hanno partecipato anche gli anarchici foianesi. 
                    I capi d’accusa per i 35 imputati si confermano gravissimi. 
                    In 33 devono rispondere, in correità fra loro, dei 
                    tre omicidi volontari premeditati e di tredici mancati omicidi. 
                    Inoltre su M. gravano le imputazioni di furto qualificato 
                    ai danni dei fascisti a cui sarebbero stati sottratti rivoltelle 
                    e valori. Ancora il M. deve rispondere, in concorso con altri, 
                    dell’abbattimento dei tre pali della luce e del tentativo 
                    di interrompere le comunicazioni telefoniche. 
                    A questi si aggiungono tutti i reati connessi al porto abusivo 
                    e alla detenzione di armi da fuoco. Intanto si imbastisce 
                    il processo che si svolge nel 1924, dopo tre anni di carcere 
                    preventivo, alla Corte d’assise di Arezzo. Il primo 
                    imputato a essere interrogato è M. Ammessa la sua fede 
                    politica, oltre che di essere pregiudicato, inizia provocatoriamente 
                    riproponendo il medesimo schema di racconto degli interrogatori, 
                    ripercorre le angherie subite dalla mamma e dalla sorella 
                    nella duplice irruzione in casa perpetrata dai fascisti visibilmente 
                    ubriachi e minacciosi, dei furti subiti. 
                    Per quanto riguarda l’imboscata del 17, M. rimane fermo 
                    ancora sulla sua versione e rivendica il suo diritto a difendersi 
                    scatenando un putiferio. Il Tribunale commina oltre tre secoli 
                    di carcere. M. ha la massima pena di anni 30 che sconterà 
                    fino al 1935 passando da Arezzo alle carceri di Pesaro; e 
                    poi ai penitenziari di Imperia, Portolongone, Parma e Pianosa. 
                    Vive il suo stato di detenzione con moltissime limitazioni, 
                    i contatti con l’esterno gli sono proibiti, la corrispondenza 
                    con i familiari è censurata in maniera sistematica 
                    e consentita solo dietro autorizzazioni preventive. Il fratello 
                    Eugenio dall’America e le strutture di soccorso del 
                    movimento anarchico sopperiscono come possono alle necessità 
                    del detenuto, con Temistocle Monticelli da Roma, responsabile 
                    del Comitato di difesa libertaria. M. – e sono passate 
                    solo due settimane dalla fine del processo – scrive 
                    una prima lettera alla mamma e alla sorella mentre è 
                    appena giunto al carcere di Pesaro nel giorno di Natale. Lo 
                    stato d’animo di una persona appena condannata a trent’anni 
                    si può facilmente immaginare, dallo scritto però 
                    emergono anche elementi che contrastano in modo aperto con 
                    lo stereotipo che gli è stato cucito addosso. Il suo 
                    animo è gentile e sensibile, le parole che scrive alla 
                    famiglia rivelano tormento e sofferenza interiori. 
                    Perfino i toni lirici usati in certi passaggi sono una conferma 
                    della sua grande capacità di comunicare e, nonostante 
                    tutto, anche della voglia di vivere. Poi lo scritto volge 
                    su quegli ultimi giorni angosciosi trascorsi fra la cella 
                    delle prigioni aretine e la gabbia degli imputati in Corte 
                    d’Assise. 
                    M. ha la convinzione di aver agito bene sul piano della sua 
                    morale anarchica. Ha rifiutato qualsiasi compromesso ed ora 
                    si appresta a pagare le conseguenze del suo gesto. Qualche 
                    tempo più tardi, meno in vena di divagazioni poetiche, 
                    invierà una più circostanziata richiesta (un 
                    po’ di cibo e di soldi) a un compagno di Arezzo (forse 
                    Alfredo Melani). Dimesso dal carcere in seguito ad amnistia 
                    ritorna alla sua casa, ma solo per tre giorni, in quanto i 
                    gerarchi locali non possono tollerare la sua presenza nonostante 
                    le autorità di polizia non abbiano niente da obiettare. 
                    
                    Così gli vengono inflitti tre anni di confino. Inviato 
                    alle Tremiti nell’anno 1937 si dedica alla propaganda 
                    delle idee anarchiche fra i numerosi giovani confinati facendosi 
                    iniziatore, con Stefano Vatteroni e Alfonso Failla, di una 
                    rivolta contro l’imposizione del saluto romano. M., 
                    nonostante gli anni di galera, è lo stesso ribelle 
                    dei primi anni, il primo a scagliarsi contro le guardie che 
                    maltrattano i confinati. Viene arrestato insieme ad altri 
                    cento e imputato di essere stato il promotore della protesta. 
                    L’ultimo periodo di carcerazione dà il colpo 
                    di grazia alla sua salute già minata dai lunghi anni 
                    di reclusione. Condannato ad altri cinque anni, nel 1938 viene 
                    ricoverato in manicomio. La guerra lo sorprende ancora in 
                    carcere. Le privazioni e l’eccezionale regime carcerario 
                    lo conducono dopo un periodo passato in ospedale, alla tomba. 
                    Il 7 dicembre 1943 muore a Nocera Inferiore. I compagni sapranno 
                    molto tardi della sua fine. 
                    E solo cinque anni dopo a Foiano della Chiana, presente Pier 
                    Carlo Masini, potranno ricordare M. “come uno dei migliori 
                    militanti perduti”. Carolina Melacci Burri in una sua 
                    testimonianza – nel ricordare le vicissitudini patite 
                    dal fratello, e la sua figura gentile e delicata di compositore 
                    di poesie – ha avanzato seri dubbi sulle circostanze 
                    della sua morte: “condannarono Bernardo per le sue idee 
                    anarchiche e Bernardo è morto con l’ideale anarchico 
                    [...]. 
                    Quando venne da Pesaro per il processo subì il primo 
                    attentato nel tratto che va dalla stazione al carcere di Arezzo 
                    […]. Altro attentato gli fu fatto nel carcere di Arezzo, 
                    durante il colloquio che io avevo con Bernardo: nella stanza 
                    dei colloqui c’erano i finestrini e gli spararono un 
                    colpo di rivoltella verso la finestrina, proprio dove si parlava 
                    noi. Un altro attentato glielo fecero a Terontola, poi non 
                    so se avranno provato ancora; so solo che Bernardo non si 
                    sa come sia morto [...] Quando le sue spoglie furono riportate 
                    al paese, una grande manifestazione popolare gli testimoniò 
                    tutta la riconoscenza della cittadinanza”. (G. Sacchetti) 
                    
                    Fonti: ACS, CPC, Melacci Eugenio; ivi, Melacci Carolina; ivi, 
                    PS, Conf. pol., busta n.13; ivi, MI, PS, 1921, b. 92; ASAR, 
                    CA, Sentenze 1916-1936, nn. 15-16; ivi, CA 1923, buste nn. 
                    147 e 148, Processo c/ Melacci Bernardo e altri; E. Raspanti 
                    (a c. di), Intervista a Carolina Melacci, Foiano 
                    della Chiana 13 luglio 1994, inedita; Archivio Storico fotografico 
                    del Comune di Foiano della Chiana, Furio Del Furia, 1921; 
                    Archivio Comune Foiano della Chiana, VII, 1932; Archivio ANPI, 
                    sezione “L. Nencetti”, Foiano della Chiana; [P.C. 
                    Masini], Ricordo di Bernardo Melacci, «UN», 
                    23 ott. 1949. 
                    Bibliografia: «La Falce», Arezzo, 8 mag. 1920; 
                    «UN», Milano, 23 giu. 1920; «La Vita del 
                    Popolo», Arezzo, 23 apr. 1921; «La Nazione» 
                    19 e 20 apr. 1921; «Il Nuovo giornale», ott. 1924, 
                    passim; «Giovinezza», Arezzo, 18 ott. 
                    1924, Profili psicosomatici. Presso il gabbione degli 
                    imputati di Renzino; «La Nazione», nov. 1924, 
                    passim; «La Nazione», 12 dic. 1924; PNF, 
                    Federazione dei Fasci di Combattimento di Arezzo, I martiri 
                    del Fascismo aretino, Arezzo 1931; U. Fedeli, Archivio 
                    del dolore, «UN», 8 mar. 1959; Id., Nella 
                    clandestinità, «AdR», New York, nn. 
                    dal 22 lug. al 19 ago. 1961; A. Failla, Ricordi di confino, 
                    «Almanacco socialista 1962», Milano 1962; R. Cantagalli, 
                    Storia del fascismo fiorentino 1919/1925, Firenze 1972; F. 
                    Nibbi (a c. di), Antifascisti raccontano come nacque il 
                    fascismo ad Arezzo, Arezzo 1974; L. Tomassini, Foiano 
                    della Chiana. Un paese toscano fra età giolittiana 
                    e fascismo, in Foiano 1912/1932. Contadini, vita 
                    di paese, lotte sociali e politiche in un centro della Valdichiana 
                    dalle foto di Furio Del Furia, Firenze 1979; I. Camerini, 
                    G. Gabrielli, Il PCI Cortonese (1921-1946), Cortona 
                    1982; Dal Pont 1, ad indicem; E. Raspanti, E. Gradassi, 
                    “Una la pensa il gatto e una il topo”. Galliano 
                    Gervasi da Renzino al Parlamento, Cortona 1990; G. Verni 
                    (a c. di), Foiano e dintorni tra memoria e storia, 
                    Foiano della Chiana 1991, passim; G. Sacchetti, Presenze 
                    anarchiche nell’Aretino dal XIX al XX secolo, Pescara 
                    1999; Id., L’imboscata. Foiano della Chiana, 1921: 
                    un episodio di guerriglia sociale, Cortona 2000. 
                   Luigi Bertoni
 
                    Luigi Bertoni
                   Augusto Castrucci
 
                    Augusto Castrucci
                  Minguzzi, 
                    Maria Luisa 
                    Nasce il 21 giugno 1852 a Ravenna da Michele e Chiara Raddi, 
                    sarta, soprannome “Gigia”. T. Monticelli la descrive 
                    come “donna di splendida bellezza, alta, robusta, formosa, 
                    dal temperamento franco e aperto, dalla parola pronta e schietta, 
                    [che] esercitava un fascino su tutti coloro che l’avvicinavano”. 
                    Moglie e compagna inseparabile di Francesco Pezzi, ha un ruolo 
                    essenziale nella nascita del movimento femminile in Italia 
                    e gran parte in quella che la polizia considera “l’attività 
                    dei coniugi Pezzi”; non per nulla i più importanti 
                    appuntamenti degli internazionalisti a Firenze si svolgono 
                    “nelle stanze della Gigia”. 
                    Ed è merito della “sora Gigia” se l’appartamento 
                    dei Pezzi non è solo il “Vaticano” dell’élite 
                    anarchica, ma la casa, il rifugio, e spesso anche la sede 
                    per i lavoratori e le lavoratrici del popolare quartiere fiorentino 
                    di San Frediano, che all’epoca ospita la più 
                    alta concentrazione degli artigiani fiorentini e la gran parte 
                    delle quasi due mila operaie della manifattura dei tabacchi. 
                    In questo ambiente già nel 1872 sorge la prima sezione 
                    femminile dell’Internazionale con un centinaio di aderenti 
                    molte delle quali saranno da lì a due anni tra le promotrici 
                    del primo grande sciopero delle sigaraie. 
                    M. appena stabilitasi a Firenze prende contatto con la sezione: 
                    il 16 ottobre 1876 «La Plebe” di Milano ospita 
                    un manifesto, stilato appunto da M. insieme ad Assunta Pedoni 
                    e ad Amalia Migliorini, che è considerato l’inizio 
                    del movimento femminile in Italia. In dicembre M. si trasferisce 
                    a Napoli con il suo compagno e, malgrado il coinvolgimento 
                    di questi nell’affare Schettini, partecipa attivamente 
                    all’organizzazione del moto del Matese. Guillame ravvisa 
                    in lei la dama che accompagna Cafiero e gli altri quando a 
                    San Lupo si spacciano per signori inglesi; notizia comunque 
                    tutt’altro che certa. Certo è, invece, il ritorno 
                    di M. a Firenze, dopo qualche mese trascorso a Lugano, all’indomani 
                    dell’amnistia del 19 gennaio 1878. 
                    In febbraio, appena rientrata, organizza, con Migliorini, 
                    Pedoni, la sarta Ildebranda Dell’Innocenti, (moglie 
                    di G. Gomez), Santina Papini, (moglie di Arturo Feroci noto 
                    fondatore di gruppi e comitati), l’infaticabile Teresa 
                    Fabbrini (moglie di Olimpio Ballerini), le sigaraie Annunziata 
                    e Serafina Frittelli, Caterina Serafini e Annunziata Gufoni 
                    (animatrici, quest’ultime del grande sciopero del 1885) 
                    e un’altra quarantina di compagne, il Circolo di propaganda 
                    socialista tra operaie. 
                    Il Circolo sostituisce in pratica la sezione femminile dell’ail 
                    disciolta dal governo a seguito del Matese e ha sede nella 
                    casa di M., che è al momento anche quella dei coniugi 
                    Gomez. Il 1° ottobre anche M. viene arrestata nella retata 
                    che colpisce tutti i maggiori esponenti dell’Internazionale 
                    convenuti a Firenze. In carcere preventivo rimane, come gli 
                    altri, per quindici mesi cercando di stare vicina ad A. Kuliscioff, 
                    spaesata e colpita dalla pleurite. Quando finalmente gli imputati 
                    vengono assolti il 7 gennaio 1880, la situazione dell’Internazionale 
                    in Italia è tutt’altro che semplice: alla “svolta” 
                    di Costa segue la malattia di Cafiero e l’esilio di 
                    Malatesta. 
                    M. e Francesco contribuiscono non poco a che il movimento 
                    fiorentino fronteggi meglio di altri quel momento, ma è 
                    il ritorno di Malatesta a Firenze che ne risolleva le sorti. 
                    Dall’autunno del 1883 M. e Francesco sono tra i più 
                    vicini all’amico napoletano sostenendone tutte le iniziative; 
                    nell’autunno del 1884 lo seguono a Napoli per soccorrere 
                    la popolazione colpita dal colera e a fine anno sono con lui 
                    nella fuga oltreoceano, in Argentina. M. rientra con Francesco 
                    a Firenze nel 1890. Nella città toscana il movimento 
                    anarchico ha ripreso nuovo vigore a partire dal 1887 dopo 
                    che l’amnistia ha permesso alla fine del 1884 ai molti 
                    espatriati di tornare. 
                    Nel gennaio 1891 M., insieme al giovane meccanico Guerrando 
                    Barsanti, rappresenta appunto i numerosi gruppi di espatriati 
                    al Congresso di Capolago, dove si costituisce il psar. Appena 
                    rientrata, si impegna per organizzare le manifestazioni del 
                    1° maggio che devono dare risonanza e operatività 
                    al nuovo “partito”. Quelle manifestazioni vengono 
                    però duramente represse ovunque e in particolare a 
                    Roma e Firenze; M. e Santina Papini se la cavano con una condanna 
                    a quindici giorni di reclusione ma altri hanno pene pesanti. 
                    All’indomani di quel 1° maggio 1891 M., assieme 
                    a Francesco e ad A. Feroci, svolge una notevole attività 
                    a sostegno dei condannati non solo a Firenze ma in tutta Italia, 
                    a cominciare da A. Cipriani e G. Palla. 
                    In quel clima di frustrazione e rabbia per le continue repressioni 
                    che impediscono una qualsiasi attività organizzativa 
                    e di propaganda, le notizie che arrivano dalla Francia sulle 
                    violente azioni degli individualisti, il cosiddetto ravacholismo, 
                    vengono accolte con diffusa simpatia. Nella primavera del 
                    1892, con una lunga lettera da Londra, Malatesta, avvertendo 
                    che “delle altre cose” scriverà a Pezzi, 
                    anticipa a M. i motivi della sua netta opposizione al “ravacholismo” 
                    e il proposito di combatterlo pubblicamente: “Voi”, 
                    scrive alla “carissima Gigia” il 29 aprile, “saprete 
                    interpretare per il loro verso queste idee buttate giù 
                    così confusamente ed in fretta. Io del resto le svilupperò 
                    completamente in un lavoretto che darò alle stampe 
                    al più presto”. Intanto, con il consueto garbo, 
                    la invita a far filtrare quelle sue idee anche in Italia tra 
                    i compagni più assennati. 
                    Due anni dopo M. e Francesco vengono coinvolti proprio in 
                    un fallito attentato, quello contro Crispi di P. Lega che, 
                    come tanti altri, era stato ospitato a casa loro. Arrestati 
                    il 3 luglio 1894 vengono prosciolti dal Tribunale di Roma 
                    solo nell’agosto dell’anno dopo e solo per essere 
                    inviati al domicilio coatto. M. è tradotta a Orbetello, 
                    zona altamente paludosa, dove rimane per un anno. 
                    Questo soggiorno risulterà fatale per la sua salute, 
                    le cui condizioni saranno aggravate da una progressiva cecità. 
                    Tornata a Firenze, dedica il suo ultimo sostanziale impegno, 
                    insieme a Francesco, al cpvp di Scarlatti dal 1904 al 1906. 
                    Come ricorda Monticelli “Dopo il coatto Luisa non ha 
                    perso la fede ma l’entusiasmo e le forze sì e 
                    si mette in disparte”. M. muore a Firenze il 13 marzo 
                    1911. (L. Di Lembo) 
                    Fonti: ASFI, Questura, CP, p. 25; TP, Processi risolti con 
                    sentenza 1880, p.437; ASRM, Gab., b. 58 (1894) f. 240 (P. 
                    Lega); [Necrologio], «LIB» La Spezia 
                    16 mar. 1911; [Necrologio], «AA», 19 
                    mar. 1911; T. Monticelli, Pagine di Storia Socialista: 
                    Luisa Pezzi, «Avanti!», 23 mar. 1911. 
                    Bibliografia: E. Ciacchi, Da Piazza Savonarola alle Murate. 
                    La verità sul 1° maggio a Firenze, Firenze 
                    1891; G. Scarlatti, L’Internazionale dei Lavoratori 
                    e l’agitatore Carlo Cafiero, reminiscenze del contadino 
                    G. Scarlatti ex galeotto politico, Firenze 1909; J. Guillame, 
                    L’Internationale: documents et souvenirs, Paris 
                    1905-1910, vol. IV; L. Rafanelli, Ricordando una donna, 
                    «UN», 14 mar. 1920; F. Pezzi, Lettere ad Andrea 
                    Costa ed Anna Kuliscioff, a c. di G. Bosio, «MOS», 
                    apr.-mag. 1950; E. Conti, Le origini del socialismo a 
                    Firenze (1860-1880), Roma 1950; P.C. Masini, Gli 
                    internazionalisti. 
                    La Banda del Matese (1876-78), Milano-Roma 1958; 
                    La Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale 
                    dei Lavoratori. Atti Ufficiali (1871-1880), a c. di P.C.Masini, 
                    Roma-Milano 1964; N. Capitini Maccabruni, La Camera del 
                    Lavoro nella vita politica e amministrativa fiorentina (dalle 
                    origini al 1900), Firenze 1965; L. Rafanelli, Gli 
                    ultimi Internazionalisti, «UN» 24 dic. 1966; 
                    Lettere inedite di anarchici e socialisti ad Andrea Costa 
                    1880, a c. di P.C. Masini, «MOS», gen.-mar. 
                    1967; Masini 1, ad indicem; F. Pieroni Bortolotti, 
                    Socialismo e questione femminile in Italia 1892-1922, 
                    Milano 1972; Masini 2, ad indicem; Id., Cafiero, 
                    Milano 1974, ad indicem; P. Feri, Il movimento 
                    anarchico in Italia dopo la svolta di Andrea Costa, «Trimestre» 
                    1978-1979; MOIDB, ad nomen; G. Sacchetti, Sovversivi 
                    in Toscana (1900-1919), Todi 1983; Malatesta, ad 
                    indicem; R. Zangheri 1, ad indicem. 
                  
                  Emma 
                    Neri (a destra) con Augusto Masetti e Maria Rossi
                  Neri, 
                    Emma 
                    Nasce a Cesena (FC) il 5 settembre 1897 da Eligio e Elvira 
                    Della Bella, insegnante elementare. Il padre è un ragioniere 
                    socialista e le condizioni economiche della famiglia le consentono 
                    di conseguire il diploma di maestra elementare. In seguito 
                    frequenta un corso presso l’Università di Bologna 
                    e ottiene l’abilitazione come direttrice didattica, 
                    ma preferirà sempre insegnare come maestra per essere 
                    a contatto diretto con gli alunni. Fin da giovanissima aderisce 
                    agli ideali socialisti del padre. Dopo le prime brevi esperienze 
                    di lavoro nelle scuole di alcune località del cesenate 
                    e della provincia di Forlì, nel 1921 ottiene un posto 
                    di insegnante nella scuola elementare di Castel Bolognese 
                    (RA). 
                    Qui conosce il giovane anarchico Nello Garavini, di cui diverrà 
                    l’inseparabile compagna per tutta la vita, condividendone 
                    da ora in poi tutte le vicende. A contatto con Garavini e 
                    con gli altri libertari castellani, particolarmente numerosi 
                    e attivi, N. approfondisce le proprie convinzioni politiche 
                    e aderisce all’anarchismo. L’unione della giovane 
                    coppia viene formalizzata con il matrimonio civile il 4 giugno 
                    1923. Nel 1924, dopo il delitto Matteotti, si trasferisce 
                    a Milano con il marito che si è esposto nella lotta 
                    contro il fascismo e che per questo è stato già 
                    aggredito due volte. Il 19 ottobre 1924 nasce Giordana, l’unica 
                    figlia della coppia, destinata a proseguire l’opera 
                    dei genitori nell’ambito dell’anarchismo castellano. 
                    Per due anni i Garavini frequentano l’ambiente dei libertari 
                    milanesi e stringono un’intima amicizia in particolare 
                    con Carlo Molaschi e con la sua compagna Maria Rossi. 
                    Nel 1926, per sfuggire dalle persecuzioni e per continuare 
                    a svolgere attività antifascista, emigrano in Brasile, 
                    stabilendosi a Rio de Janeiro. Inizia un esilio che durerà 
                    più di 20 anni e che perlomeno nei primi tempi sarà 
                    caratterizzato da difficoltà economiche e da disagi 
                    di vario genere. Nei primi anni i due coniugi devono adattarsi 
                    a svolgere i più disparati lavori, fino a conseguire 
                    una relativa agiatezza economica. Nonostante i pericoli – 
                    il Brasile in quegli anni è quasi ininterrottamente 
                    governato da feroci dittature – i Garavini continuano 
                    la loro attività politica, rivolta soprattutto alla 
                    lotta contro il fascismo italiano. 
                    Frequentano gli ambienti antifascisti, conoscono anarchici 
                    di tutto il mondo e mantengono i contatti con alcuni compagni 
                    italiani esuli in altri paesi. Partecipano alle attività 
                    della Liga anticlerical, fondata da José Oiticica, 
                    esponente di rilievo dell’anarchismo brasiliano. Una 
                    amicizia particolarmente stretta li lega a Luigi Fabbri fino 
                    alla sua morte a Montevideo nel 1935 e a sua figlia Luce. 
                    Un’altra amicizia profonda è quella con Libero 
                    Battistelli, avvocato bolognese repubblicano aderente a GL, 
                    e con sua moglie Enrichetta, esuli anch’essi in Brasile. 
                    Nel 1931, in occasione della trasvolata atlantica di Italo 
                    Balbo e la sua squadriglia, N. ed Enrichetta Battistelli diffondono 
                    migliaia di volantini antifascisti nelle principali vie di 
                    Rio, accusando Balbo e i suoi squadristi per l’assassinio 
                    di don Minzoni avvenuto nel 1923. Poco dopo questo episodio, 
                    N. perde l’incarico di insegnante alla scuola italiana 
                    gestita dalla Società Dante Alighieri, ormai definitivamente 
                    fascistizzata. Dal 1933 al 1942 i Garavini gestiscono una 
                    libreria (la Minha Livraria) che diventa un luogo di ritrovo 
                    e di discussione per tutto l’ambiente di sinistra e 
                    antifascista di Rio. 
                    Numerose sono, nel corso degli anni, le perquisizioni e le 
                    limitazioni da parte della polizia politica. Per qualche tempo 
                    alla libreria si affianca anche una piccola attività 
                    editoriale, con la pubblicazione di libri di cultura politica, 
                    sociale e letteraria. Nel 1947 i Garavini rientrano definitivamente 
                    in Italia, a Castel Bolognese. Riallacciano i rapporti con 
                    i vecchi compagni sopravvissuti e riprendono la loro attività 
                    all’interno del gruppo anarchico locale, ricostituito 
                    subito dopo la fine della guerra. 
                    Aderiscono subito alla FAI, a cui resteranno poi sempre legati, 
                    partecipando a numerosi congressi e convegni fino agli anni 
                    Settanta. Prendono parte anche al Congresso della ifa tenutosi 
                    a Carrara nell’estate del 1968. Con la rinascita libertaria 
                    seguita agli avvenimenti del 1968 la loro casa si riempie 
                    di giovani, molti dei quali rimangono affascinati dalla personalità 
                    di N., dalla sua sensibilità e dalla rara capacità 
                    comunicativa. Muore a Imola, presso il cui ospedale è 
                    da tempo ricoverata, il 2 febbraio 1978. (G. Landi) 
                    Fonti: ACS, CPC, Garavini Nello; ivi, Neri Eligio; 
                    BLAB, Fondo Emma Neri Garavini; ivi, Nello Garavini; [G. Landi], 
                    Biografia di Emma, «La Questione sociale» 
                    (Forlì), mar. 1978; Gruppo anarchico di Castel Bolognese, 
                    Emma Garavini Neri, «UN», 2 apr. 1978. 
                    
                    Bibliografia: Scritti di N.: Prefazione a C. Molaschi, 
                    Pietro Gori, Milano 1959. Scritti su N.: A. Taracchini, 
                    L’associazionismo anarchico a Castelbolognese, 
                    in Associazioni e personaggi nella storia di Castelbolognese, 
                    Imola 1980; Castelbolognese; L. Fabbri, Luigi Fabbri. 
                    Storia di un uomo libero, Pisa 1996, ad indicem; 
                    G. Landi, Emma Neri Garavini, gennaio 1999. 
                  
                  Giuseppe 
                    Pinelli 
                  Pinelli, 
                    Giuseppe 
                    Nasce a Milano il 21 ottobre 1928 da Alfredo e Rosa Malacarne, 
                    ferroviere. Trascorre la prima parte della sua vita nel natio 
                    quartiere popolare di Porta Ticinese. Finite le scuole elementari 
                    deve andare a lavorare, prima come garzone, poi come magazziniere. 
                    Continua a leggere, un’abitudine che lo accompagna per 
                    tutto il resto della vita. Nel 1944, sedicenne, partecipa 
                    alla Resistenza antifascista come staffetta della BGT “Franco”, 
                    collaborando con un gruppo di partigiani anarchici, che costituiscono 
                    il suo primo tramite con il pensiero libertario. 
                    Nel 1954 entra nelle ferrovie come manovratore. Nel 1955 si 
                    sposa con Licia Rognini, conosciuta a un corso serale di esperanto: 
                    presto verranno due figlie, Silvia e Claudia. Nei primi anni 
                    ’60 si costituisce a Milano un gruppo di giovani anarchici 
                    (Gioventù libertaria) poco più che ventenni, 
                    tra i quali Amedeo Bertolo, che nel 1962 aveva avuto l’onore 
                    della cronaca quale componente di un gruppo che aveva rapito 
                    il viceconsole spagnolo a Milano per ottenere (come ottenne) 
                    la trasformazione in pena detentiva di una condanna a morte 
                    di un anarchico nella Spagna franchista. P. – “Pino” 
                    per i compagni e gli amici – con i suoi 35 anni è 
                    il più vecchio di loro, ma questo non è un problema: 
                    il suo carattere gioviale ed espansivo ne fa un “compagnone”. 
                    E quando nel 1965, dopo una decina di anni senza sede, se 
                    ne apre una in viale Murillo, P. è tra i fondatori 
                    del circolo “Sacco e Vanzetti”. 
                    Qui si tiene nel dicembre 1966 anche un incontro della gioventù 
                    libertaria europea. In seguito a uno sfratto, gli anarchici 
                    milanesi cambiano sede e il 1° maggio 1968 viene inaugurato 
                    il Circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”, sito 
                    in piazzale Lugano, nel periferico quartiere operaio della 
                    Bovisa. Prende il nome dall’attiguo sovrappasso stradale, 
                    dal quale si vedono i binari della stazione ferroviaria di 
                    Porta Garibaldi, dove Pinelli lavora. 
                    Siamo nel ’68, appunto, e il vento della contestazione 
                    che soffia dalla Francia arriva anche a Milano. P. è 
                    attivo su molti fronti: come anarchico, è tra quelli 
                    che tengono aperta la sede, organizza un’efficace servizio-libreria, 
                    è tra gli organizzatori di intensi cicli di conferenze 
                    serali. Approfittando della possibilità di viaggiare 
                    (in quanto ferroviere) gratis in treno, tiene i contatti diretti 
                    con i compagni “di fuori”, tra i quali Luciano 
                    Farinelli ad Ancona, Aurelio Chessa a Pistoia, Umberto Marzocchi 
                    a Savona. Intensi anche i rapporti con Alfonso Failla, a Marina 
                    di Carrara, dove si reca anche in vacanza con la famiglia. 
                    
                    Operaio, P. si impegna anche in campo sindacale, in particolare 
                    per la riattivazione dell’USI, di cui viene aperta una 
                    sezione presso il Circolo. Anche il CUB dei lavoratori dell’Azienda 
                    trasporti milanese elegge il Circolo a propria sede e la lascerà 
                    solo dopo l’attentato del 12 dicembre 1969: la repressione 
                    anti-anarchica suggerirà questo trasloco. L’ambiente 
                    anarchico milanese è in pieno fermento, in molte scuole 
                    superiori nascono nuclei libertari, anche nelle fabbriche 
                    ci sono operai anarchici e frequenti sono i volantinaggi di 
                    primo mattino. Escono libri, opuscoli, i vecchi giornali riprendono 
                    fiato. 
                    Gli anarchici milanesi sentono la necessità di una 
                    seconda sede, questa volta nella zona Sud di Milano. Tra i 
                    più impegnati nella sistemazione e nell’apertura 
                    del Circolo di via Scaldasole (nel quartiere Ticinese) c’è 
                    P. Il 25 aprile 1969 due attentati colpiscono la Stazione 
                    centrale e la Fiera. Le indagini si indirizzano verso ambienti 
                    libertari e alcuni anarchici vengono arrestati: è l’inizio 
                    di una campagna di criminalizzazione, che trova nuova linfa 
                    in agosto, quando alcuni attentati ai treni vengono ancora 
                    attribuiti ad anarchici. Viene fatta circolare anche la voce 
                    di una possibile implicazione di P., anarchico e ferroviere. 
                    
                    P. e il suo gruppo “Bandiera nera” insorgono, 
                    denunciano la manovra, danno vita – sull’esempio 
                    della “Black Cross” inglese di quei mesi e della 
                    “Croce nera” russa degli anni ’20 – 
                    alla Crocenera anarchica, specificatamente dedita alla solidarietà 
                    concreta con i compagni detenuti, ma anche alla pubblicazione 
                    di un bollettino di controinformazione. P. è l’anarchico 
                    più “in vista” tra quelli milanesi e frequentemente 
                    è in questura per richieste di autorizzazione, convocazioni, 
                    ecc.. Il suo interlocutore è perlopiù un giovane 
                    commissario di polizia, informale nei modi, elegante, ammiccante: 
                    Luigi Calabresi. Così, quando nel tardo pomeriggio 
                    del 12 dicembre 1969, subito dopo l’attentato di piazza 
                    Fontana, Calabresi si presenta al Circolo di via Scaldasole 
                    e invita P. a recarsi in questura, questi acconsente senza 
                    problemi, inforca il motorino e segue l’auto della polizia. 
                    In questura P. incontra, in un grosso salone, gran parte degli 
                    anarchici milanesi, fermati come lui per chiarire il proprio 
                    alibi. Entro 48 ore, limite massimo concesso dalla legge di 
                    allora per il “fermo di polizia”, i fermati vengono 
                    rilasciati, alcuni vengono spostati nel carcere di San Vittore. 
                    
                    P. viene invece trattenuto in Questura aldilà del limite 
                    legale. Viene interrogato. Poi, intorno alla mezzanotte tra 
                    il 15 e il 16 dicembre, il suo corpo vola da una stanza dell’Ufficio 
                    politico al quarto piano e si sfracella a terra. Le prime 
                    contrastanti versioni della polizia lasciano intendere che 
                    la verità non può essere quella ufficiale del 
                    “suicidio”. Muore a Milano all’Ospedale 
                    Fatebenefratelli nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969. 
                    
                    La vicenda politico-giudiziaria del suo assassinio, intrecciata 
                    con l’intera storia della strage di piazza Fontana, 
                    in particolare con il “caso Valpreda”, diventerà 
                    negli anni un vero e proprio boomerang per il Potere. I maldestri 
                    tentativi di mettere a tacere il tutto, culminati nella tesi 
                    del “malore attivo” proposta da una sentenza del 
                    giudice Gerardo D’Ambrosio, non faranno che evidenziare 
                    quella verità che non ha ancora trovato spazio nelle 
                    carte ufficiali. Decine saranno i libri, i filmati, le opere 
                    teatrali, le installazioni artistiche, le canzoni dedicate 
                    a P. e al suo assassinio, non solo in Italia. Ne citiamo qui 
                    solo due: la Morte accidentale di un anarchico del 
                    premio Nobel Dario Fo, e la gigantesca opera I funerali 
                    dell’anarchico Pinelli di Enrico Baj. (P. Finzi) 
                    
                    Fonti: CSLAP. 
                    Bibliografia: Le bombe di Milano. Testimonianze di 
                    G. Pansa [et al.], Parma 1970; Crocenera anarchica, Le 
                    bombe dei padroni, Catania 1970 (1989, 2a ed.); La 
                    strage di Stato. Controinchiesta, Roma 1970; C. Cederna, 
                    Pinelli. Una finestra sulla strage, Milano, 1971; 
                    V. Nardella, Noi accusiamo! Contro requisitoria per la 
                    strage di stato, Milano 1971; M. Sassano, Pinelli: 
                    un suicidio di Stato, Padova 1971; Id., La politica 
                    della strage, Padova 1972; M. Del Bosco, Da Pinelli 
                    a Valpreda, Roma 1972; L. Rognini, Una storia quasi 
                    soltanto mia, a c. di P. Scaramucci, Milano 1982; G. 
                    Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza 
                    perduta, Milano 1993, ad indicem; Il malore 
                    attivo dell’anarchico Pinelli, Palermo 1996; L. 
                    Lanza, Bombe e segreti. Piazza Fontana 1969, Milano 
                    1997.