|  L’anarchenologoGino
 (a Luigi Veronelli)
 Del gusto nerboruto per bocche assai esperte
 l’erotico tuo buon gusto
 regalavi a menti aperte
 sapori di viaggi felici
 raccolti in terra stregata
 d’umana fatica fra contriti
 sorsi di vita bagnata
 nel rossonero intenso colore
 di un mondo migliore
 dove coltivi paziente il sapere
 prodotto lento e prezioso
 da non tracannare come niente
 ma meditando il frutto faticoso
 di un pensier libero e combattente.
 In alto ancor un bicchiere al nostro Gino l’anarchenologo
 colui che al mondo fece sapere
 del contadin l’antico cantar filosofo:
 “terra è di chi la lavora
 vile chi lo ignora”
 fra spiriti comuni e solidali
 senza più industrie agroalimentari
 i loro profitti i loschi sicari
 che sfruttano terra uomini animali
 con metodi barbari medievali.
 Perché terra uguaglianza libertà – scriveva Gino da un’eternità –
 sono il vero sapore della felicità
 che non si compra né si consuma
 ma come il buon vino di campagna
 sorride nei calici e nel cuor profuma
 del saper antico dell’uva magna.
  Jules Èlysard
     Alle radici dell’odio 
                  e dell’intolleranza
 Non immaginavo che questo libro (Emanuele Del Medico, All’estrema 
                  destra del padre, tradizionalismo cattolico e destra radicale, 
                  edizioni La Fiaccola, pp. 224, euro 10,00) potesse accendermi 
                  un rumore in testa, un rumore grosso, nero. Un rumore che con 
                  l’andare delle pagine si faceva sempre più nero 
                  e pesante. Sembrava un libro di storia contemporanea come tanti: documentato, 
                  serio, magari un po’ noioso. Al primo assaggio sembrava 
                  raccontare di una storia lontana dalla mia vita di tutti i giorni, 
                  un reportage giornalistico da un mondo sotterraneo e oscuro 
                  così difficile da mettere a fuoco proprio per la mancanza 
                  di una qualsiasi esperienza personale diretta, di un contatto, 
                  di un qualche cosa di vissuto direttamente o anche solo di raccontato, 
                  di visto o saputo succedere.
 Sembrava una storia di quelle che si vedono alla televisione, 
                  quelle che succedono altrove, come tenuta distante da un vetro 
                  spesso. Cose estranee, per le quali non c’è mai 
                  attenzione né tempo.
 Mi sbagliavo.
 Il libro traduce in un documento scritto un intreccio di penombre 
                  e sensazioni scomode, galleria lugubre di personaggi che inventati 
                  purtroppo non sono e che assomigliano alle nuvole che nascondono 
                  il sole, come dei brutti sogni in cui s’inciampa di sorpresa 
                  appena girato un angolo e che obbedendo all’istinto di 
                  conservazione si preferisce lasciar scivolare via affrettando 
                  il passo.
 La memoria mi è corsa più volte a un vecchio spettacolo 
                  di Giorgio Gaber visto tanti anni fa assieme a mio padre, ad 
                  una sua visione di topi di fogna portatori di peste che avevano 
                  visto “abilissime mani lanciarli dai tombini” e 
                  che avevano imparato a non temere la luce e a vestirsi bene, 
                  riciclandosi con disinvoltura in convegni alle terme e salotti 
                  televisivi fino a divenire “maggioranza”.
 
  Emanuele Del Medico sceglie di sporcarsi le mani e di non 
                  avere paura. Osserva e racconta trovando le parole più 
                  giuste, e proprio per questo più terribili e malate, 
                  per farci spalancare gli occhi. Leggere questo suo libro fino 
                  in fondo ha significato per me smettere di nascondermi e sbattere 
                  il muso addosso a cose che in mezzo al gorgo egoista dei miei 
                  problemi personali non avrei voluto scoprire: probabilmente 
                  erano tutte cose che già sapevo ma che non volevo affrontare, 
                  cose scomode delle quali preferivo non accorgermi. Adesso non posso più farlo, perché ho capito che 
                  il mondo non resta chiuso dietro lo schermo del televisore. 
                  Il mondo lì fuori viene prima o poi a cercarti: butta 
                  giù la tua porta di casa come un’ondata, le sue 
                  mani ti toccano, le sue unghie ti graffiano, le sue dita ti 
                  tirano i capelli e ti si ficcano negli occhi, e ti portano via.
 Succederà anche a voi una cosa simile: vi si accenderà 
                  in testa lo stesso rumore, nero e pesante. Leggere questo libro 
                  significa rendersi conto che l’odio e l’intolleranza 
                  hanno la faccia del tuo rispettabilissimo vicino di casa che 
                  ti riga con un chiodo la fiancata dell’auto perché 
                  hai esposto al balcone una bandiera della pace.
 Lo stesso alito affilato della signora che occupa il posto accanto 
                  al tuo, nello stesso treno di pendolari del mattino, mentre 
                  guarda schifata la tua spilletta di Emergency bofonchiando scandalizzata 
                  per il quotidiano che stai leggendo, senza però mai guardarti 
                  negli occhi. La stessa piega cattiva delle labbra, lo stesso 
                  sguardo ipernutrito dei compagni di scuola che compatiscono 
                  tua figlia perché esce dalla classe quando c’è 
                  l’ora di religione, per le sue magliette non firmate, 
                  per la frutta al posto delle merendine e i quaderni in carta 
                  riciclata.
 Leggere questo libro ha significato per me acquistare consapevolezza 
                  e aumentare il livello di allarme. Ha significato scoprire una 
                  volta di più che pace, sogni e libertà vanno difesi 
                  ogni giorno da gente come me e te che con la tua pace, sogni 
                  e libertà ci si puliscono il culo. Gente come me e te 
                  che non esiterebbe a cercarti l’anima a forza di botte 
                  per farti cambiare idea.
  Marco Pandin
 
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