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                  maggio del 1901, Giovanni Papini si fa un bel “bagno di 
                  occultismo”. Grazie a letture come quelle di Eliphas Levi, 
                  Denis e Belfiore, si “inizia” a magia ed a spiritismo. 
                  “Lo scopo per il quale io mi son messo in questo ginepraio 
                  è duplice”, scrive nel suo diario, il primo è 
                  quello di “conoscere e studiare queste strane teorie, 
                  nelle quali può esserci qualcosa di utile, e che in ogni 
                  modo hanno una grande importanza psicologica e storica”; 
                  il secondo è quello di “avvicinare e studiare questi 
                  occultisti con l’intenzione di farci delle osservazioni 
                  alcune delle quali potrebbero esser nuove, perché non 
                  pare che qualcuno se ne sia occupato di proposito. È 
                  insomma un completamento di cultura e un materiale per studi 
                  di psicologia”. A prima vista sembrerebbe innocente come 
                  un bambino ed ampiamente giustificato – forse troppo, 
                  dal momento che è pur sempre un’autogiustificazione. 
                  Nel “ginepraio” c’è, ma in quanto ci 
                  sono gli “altri”, che, poveretti, costituiscono 
                  un buon oggetto di scienza per chi, come lui, ambisce a rivoltare 
                  da capo a piedi l’esistente. Peccato che già il 16 gennaio del 1905 – in una 
                  conferenza fiorentina dedicata a “Che valore ha la scienza?” 
                  –, il medesimo Papini parli di “necromanzia” 
                  e di “visioni degli spiriti” come di discipline 
                  che si credeva “bandite dalla scienza”, mentre “oggi” 
                  starebbero “rientrandovi trionfalmente”, spiegando 
                  che “la scienza stessa contiene degli elementi artistici 
                  religiosi e metafisici” senza trovarvi più alcunché 
                  da obiettare. Peccato che, nel suo futuro, l’esoterico 
                  abbia sempre trovato posto e peccato che, infine, la soluzione 
                  più matura per rivoltare da capo a piedi l’esistente 
                  gli sia apparsa l’adesione al fascismo.
 È solo un esempio. Ne faccio subito un altro. Nel 1910, 
                  Martin Heidegger scrive il suo primo saggio, dedicato al monaco 
                  agostiniano, Abraham a Sancta Clara, predicatore a 
                  Vienna nella seconda metà del Seicento. Costui è 
                  ferocemente antisemita, xenofobo fino al punto di ammonire contro 
                  l’apprendimento di lingue straniere e di sostenere che 
                  tedeschi sono i più grandi inventori e pensatori del 
                  mondo e che “la Germania è anche la culla della 
                  più splendida e vigorosa pittura che l’umanità 
                  abbia mai conosciuto”. Ma Heidegger a tutto ciò 
                  non trova nulla da ridire. Anzi, lo definisce “veramente 
                  apostolico” e lo propone come un modello cui attenersi 
                  contro la deboscia dei tempi – contro “i sintomi 
                  della decadenza, di un triste declino della sanità e 
                  del valore trascendente della vita” -, auspicando che 
                  i suoi scritti “possano avere una maggiore circolazione” 
                  e “il suo spirito possa diventare un fermento potente 
                  per mantenere la nostra salute e, ove la necessità lo 
                  reclami, per la rinnovata salvezza dell’anima del popolo”. 
                  Pensiero e linguaggio, qui, sono una garanzia: se, più 
                  tardi, esisterà un partito nazista, sulla richiesta di 
                  tessera da parte di Heidegger ci si può contare ad occhi 
                  chiusi.
 Mi fermo qui. Voglio far riflettere sulle matrici culturali 
                  delle persone e sul fatto che, spesso, non c’è 
                  bisogno che qualcuno commetta una nefandezza in un secondo tempo 
                  allorquando è sufficiente un primo tempo per poterla 
                  prevedere. Le debolezze di Papini erano implicite già 
                  nei primi scritti – si accorge che qualcosa in scienza 
                  ed in filosofia non va, ma non ne individua bene le origini 
                  e così si butta nella finta alternativa costituita dalle 
                  culture mistiche ed esoteriche che costituiscono una falla ben 
                  aperta da cui s’intrufolerà il fascismo -, negli 
                  scritti più maturi diventano sempre più esplicite. 
                  La protervia di Heidegger e la sua convinta passione per l’autoritarismo 
                  – checché sia purché sia “risoluto” 
                  – costituiscono fin dal primo scritto la matrice con cui 
                  scriverà il resto suggerendo altresì le scelte 
                  della sua vita.
 Il “dopo”, insomma, è insito nel “prima”, 
                  nel senso che, da un certo punto di vista, nel biologico c’è 
                  continuità ed ogni costruzione successiva si avvale di 
                  una costruzione precedente. Se questa è di un tipo, l’altra 
                  potrà sì cambiare ma non di molto. Non a caso 
                  ho sempre amato l’argomentazione fondamentale dell’anarchismo 
                  concernente la forma dell’organizzazione rivoluzionaria: 
                  se questa è strutturata in modo autoritario – fatto 
                  tipico nel “partito” – è pressoché 
                  certo che l’esito del processo cui questa forma darà 
                  vita sarà autoritario anch’esso.
  Felice Accame
 P.s.: Le citazioni di Papini sono tratte da Il non finito 
                  – Diario 1900 e scritti inediti giovanili, Le Lettere, 
                  Firenze 2005, pag. 148 e pag. 317. Per Heidegger, cfr. V. Farias, 
                  Heidegger e il nazismo, Boringhieri, Torino 1988, pp. 
                  29-46. L’argomentazione può anche essere letta come una 
                  battuta di risposta alla nota con cui, in 
                  “A” 309, mi si faceva notare che, “contrariamente” 
                  a me, la redazione della rivista non pensa che la “scelta 
                  successiva” di alcuni anarchici – finiti nel partito 
                  socialdemocratico o in dubbio “partito comunista nazionale” 
                  – “renda inevitabile qualche perplessità 
                  sul loro anarchismo” precedente.
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