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                  personaggi Noi diroccatidi Giuseppe Pontremoli
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                  Noi diroccati un po’ ci ninnavamo. Sono ancora senz’altro 
                    in sospeso, i miei conti più veri con la notte e il 
                    sonno. E così ogni volta, in un reiterato sfiancante 
                    e sereno altalenare, oppongo resistenze che si configurano 
                    ben più come un percorrere che come un approdare. C’è 
                    sempre ancora almeno una cosa da fare: preferibile o inderogabile 
                    o utile o necessaria o cupamente ossessiva, si tratti di gioia 
                    o di dolore, è più forte del sonno. È 
                    più forte il frugare, l’impastare; sono più 
                    forti le voci. E sono voci che, ad ascoltare davvero, raccontano del mondo 
                    e del senso di starci; e dicono, per esempio, che il mondo 
                    è troppo grande, e – in perfetta estenuante alternanza 
                    – che è troppo piccolo, questo stesso mondo. 
                    Che ci vuole troppo coraggio a continuare. Che è troppo 
                    bello per non guardarlo più.
 Io consulto l’oracolo e leggo: Ci sono ore in cui, 
                    d’improvviso, il mondo si fa piccolissimo, ma in un 
                    altro d’improvviso torna ad essere, di nuovo, troppo 
                    grande. Si deve aspettare il terzo pensiero (1).
 Sì, è vero, bisogna aspettare il terzo pensiero; 
                    e bisogna aspettarlo ben sapendo che – purtroppo e per 
                    fortuna – quando arriva, se arriva, non si dichiara 
                    mai apertamente come tale.
 Aspetto il terzo pensiero, e aspettando leggo ancora qualcosa 
                    dell’oracolo, là dove parla di Capo Zequiel:
 Il Capo udiva, udiva tutto, condannato. Chi era il nemico? 
                    Chi veniva? La notte passa lontano, e appartiene alla terra, 
                    più di un albero, più di un ventre di serpente. 
                    Ci sono luoghi in cui è più notte che in altri. 
                    […] Tutti nella casa della fazenda dormono, la gente, 
                    tutti; il nemico non è con loro. Il Capo, no; non si 
                    concede riposo. Se si distrae un momento, sta lì ai 
                    suoi piedi, dentro di lui. Non c’è porta, contro 
                    quello, che si possa chiudere. […] Il Capo, lui ascolta, 
                    rovistando. Una notte dopo l’altra, il mondo ha perso 
                    le sue pareti. Attacca un grillo, piccola sega. Silenzio. 
                    Gli insetti sono milioni. Il bosco, vocetta ammansata, aeiouava. 
                    Dall’altro bosco, e dai buritìs, le risposte. 
                    Più freddo e pieno di calore il Brejão fermenta. 
                    Un pesce guizza in spirale. Il battere di un remo. Un gemito di rana. Il tùi-tùi 
                    a puntate delle pittime e dei mignattai, tra i giunchi dell’acquitrino. 
                    Non c’è mai silenzio. Le fronde del bosco, un 
                    vento, un grande ramo stridendo. Gli alberi vogliono ripetere 
                    quel che di giorno hanno detto le persone. […] Nel silenzio 
                    non c’è mai silenzio (2).
 Anche Achab, anche Fedallah, in Moby Dick, non si abbandonano 
                    al sonno; e quando Stubb avrà l’ardire di proporre 
                    al capitano di fare qualcosa per attutire i colpi del suo 
                    tormentato percorrere la coperta impedendo a tutti di dormire, 
                    si sentirà rispondere con parole piuttosto chiare: 
                    Scendi nella tua tomba notturna dove la gente come te dorme 
                    nel sudario, per abituarsi a quello definitivo. Via, cane, 
                    alla cuccia! (3) Ma non c’è solo questo, non ci sono soltanto 
                    gli Achab e gli Zequiel. E proprio l’oracolo già 
                    consultato, nel primo dei sette romanzi che compongono Corpo 
                    di ballo, parlando di un bambino, Miguilim, dice:
 Non si abbandonava al sonno. Voleva avere il coraggio 
                    di aprire la finestra, contemplare lassù in alto, appeso 
                    con gli occhi, tutte quante, le Sette-Stelle. Non voleva dormire, mai. […] La notte riceveva più 
                    di sé, formava un’oscurità piena. Allora, 
                    furono lucciole in ogni parte. […] Un’invasione. 
                    Miguilim era incantato (4).
 Come si può dormire? Anche qui, tra Zequiel e Miguilim, 
                    bisogna aspettare il terzo pensiero.  
 Giuseppe Pontremoli La notte porta nutrimento
 Aspetto il terzo pensiero, e aspettando leggo qualche poesia 
                    molto amata. Passo da Aleksandr Blok: Come aumenta l’angoscia 
                    sul far della notte / C’è silenzio, c’è 
                    freddo, c’è buio (5) 
                    a Marina Cvetaeva: Per dormire c’è tempo, 
                    c’è tempo, c’è tempo (6) 
                    a Ingeborg Bachmann: Ovunque ci volgiamo nella bufera 
                    di rose, / la notte è illuminata di spine, e il rombo 
                    / del fogliame, così lieve poc’anzi tra i cespugli, 
                    / ora ci segue alle calcagna (7).
 Ma io non amo soltanto quei poeti che, come quelli citati, 
                    possono consolidare una già ben più che robusta 
                    resistenza all’arrivo del sonno. Amo moltissimo anche, 
                    per esempio, René Char che, in un libro tradotto da 
                    Giorgio Caproni, scrive:
 La notte porta nutrimento, il sole affina la parte nutrita. 
                    […]
 Notte plenaria in cui il sogno senza grazia più non 
                    occhieggia,
 conservami vivo ciò che amo
 e poi:  Notte, mio fogliame e mia zolla (8). 
                   E moltissimo amo Elsa Morante, un altro oracolo che consulto 
                    spesso:  Dormi. La notte che all’infanzia ci riporta
 e come belva difende i suoi diletti
 dalle offese del giorno, distende su noi
 la sua tenda istoriata (9).
 Mi fermo qui, perché in questa poesia c’è 
                    una cosa decisiva: la belva che difende i suoi diletti dall’assedio 
                    di belve. E, fermandomi qui, qui trascrivo una poesia di Fernando 
                    Bandini, troppo bella per non essere riportata integralmente, 
                    intitolata Berceuse:  E fatta la bella cucitura alle palpebre dormi, bambino, dormi!
 Non una goccia di sangue ti è uscita
 dai cigli. Stelle enormi
 galleggiano nell’aria, la tua manina
 pende dal letto. Come rassomigli
 al piccolo re dei Cimmerii
 che dorme sulle rive del Mar Nero!
 E adesso che hai la bella cucitura alle palpebre
 dormi, bambino, in eterei
 regni trasvola dove fioco è il pensiero.
 Il tuo sonno è un pulcino nel suo guscio.
 Io sono un passo e ti fruscio qui accanto,
 io sono il ramoscello di calicanthus
 nella sua brocca e bramo
 la fredda aria d’inverno del tuo letargo.
 Gli altri girino al largo che coverò il tuo sonno nel suo uovo.
 Fruste di rovo userò per straziare
 il dorso dei cani randagi
 che si aggirano intorno al tuo sepolcro (10).
 Forse è troppo sottile il confine tra una notte che 
                    ha fine e una notte definitiva, e non mi sembra un caso che 
                    Char, nel libro già citato, abbia scritto una Ninna 
                    nanna per ogni giorno fino all’ultimo: Numerose 
                    volte, molte volte, / l’uomo s’addormenta, il 
                    suo corpo lo sveglia; / poi una volta, soltanto una volta, 
                    / l’uomo s’addormenta e perde il suo corpo 
                    (11). È vero, si tratta di una volta a fronte di tantissime, 
                    ma qual è quell’una? Io al mattino voglio svegliarmi 
                    e alzarmi, dico.
 Io al mattino voglio svegliarmi e alzarmi, mi ha detto Silvia, 
                    una bambina di sette anni che spiegava di non volere crescere 
                    per il fatto che crescendo si diventa vecchi e si muore e 
                    si va in Paradiso e si sta lì a fare niente: una noia 
                    mortale, io al mattino voglio svegliarmi e alzarmi e fare 
                    delle cose, ha detto. Forse conosceva quel peccatore occhialuto 
                    che in un racconto di Isaac Bashevis Singer dice che i giusti, 
                    in paradiso, muoiono di noia (12); 
                    oppure Huckleberry Finn, che racconta come la signorina Watson, 
                    dopo avergli spiegato che se non si comporta come dice lei 
                    andrà a finire nel posto brutto, prende su e mi conta 
                    tutto per filo e per segno di come è il posto bello.
 Mi dice che non c’era più niente da fare lassù, 
                    solo andare in giro tutto il giorno con un’arpa e cantare 
                    per tutti i secoli dei secoli. Così che a me non è 
                    che mi interessa molto (13).
 Io la mattina voglio svegliarmi e alzarmi e fare delle cose, 
                    avrà pensato.
 Il mattino dopo che si è morti non ci si può svegliare
 la vita è finita
 è incominciata la morte
 […]
 Io al mattino voglio svegliarmi e alzarmi
 non starmene lì sotto terra (14)
 scrive Vivian Lamarque nel bellissimo, struggente, doloroso 
                    poemetto Questa quieta polvere. Questa citazione non rende certo l’idea di cosa sia 
                    davvero il poemetto di Vivian Lamarque, che è da leggere 
                    tutto, con tutte le sue lievi elementari profonde parole; 
                    con tutte le fiabe che cita o che evoca; con tutto il fiabesco, 
                    di atmosfera e di linguaggio, da cui è percorso.
 Come sempre, del resto, in tutti i suoi lavori.
 
 Giuseppe 
                    Pontremoli Acuminata grazia
 Il fiabesco e l’infanzia sono sicuramente molto dentro 
                    al lavoro di Vivian Lamarque, che nel fiabesco e nell’infanzia 
                    penetra con acuminata grazia, con consapevolezza dolorosa, 
                    con limpidezza e con forza – la limpidezza e la forza 
                    che possono venire, per esempio, dall’essere una 
                    donna forte sì / ma con anche continue tentazioni di 
                    non esserlo e dall’avere qualche pensiero triste / e 
                    due o tre sereni (15).
 A me sembra che la presenza più assidua, pervasiva, 
                    del lavoro di Vivian Lamarque sia quella del dolore, e accentuata 
                    proprio dall’apparente lievità del timbro e delle 
                    situazioni. Per esempio, a proposito dell’infanzia, 
                    vorrei ricordare, tra tante altre, una brevissima poesia di 
                    Teresino, Le sue ali infantili, una poesia di grande, 
                    acuta, acuminata profondità: Le sue ali infantili 
                    / spiccano ogni volta felici il volo / incontro a chi spara 
                    (16).
 Quel che pertiene al volo è connotabile come dell’infanzia, 
                    forse perché davvero soltanto in essa il volo è 
                    praticabile; e quel volo è ogni volta felice, proprio 
                    perché volo, libero e gratuito, incurante di tutto; 
                    e felice ogni volta perché assoluto, unico, irripetibile, 
                    necessario e incontenibile come un respiro. E ci sono spari, 
                    spari di ogni tipo, contro i voli, perché il libero, 
                    il gratuito, il felice, l’incontenibile dirsi altro 
                    non è se non intollerabile. E così gli si spara 
                    – ed è uno sparo anche il fatto, inevitabile, 
                    che quel tempo del volo abbia poi fine.
 Il linguaggio di Vivian Lamarque è “fiabesco” 
                    e “infantile”, per il suo condensarsi in un “minimo” 
                    che si rivela sempre come un “tanto” se non addirittura 
                    come un tutto: come nelle fiabe, dove non è necessario 
                    che il bosco venga descritto per conoscerlo e riceverne insieme 
                    attrazione affascinata e oscuro terrore, e di una vecchia 
                    di un giovane di un re non ci serve nient’altro che 
                    la più essenziale definizione di entità, le 
                    parole di Vivian Lamarque – spesso superlativi, spesso 
                    diminutivi, spesso ripetizioni, spesso condensazioni di più 
                    parole in una, spesso personificazioni – si danno nella 
                    loro essenziale entità, nella densa intensità 
                    che viene dall’averle scrutate fino in fondo; un po’ 
                    come se alle parole, tutte quante, ma soprattutto alle più 
                    elementari, fosse applicato quello che in una sua poesia si 
                    sottolinea della parola mai: sai la parola mai? fino in 
                    fondo? (17) E i superlativi, 
                    i tanti diminutivi, le ripetizioni, sono come necessari, completamente 
                    privi del lezioso e del torbido che connota l’uso che 
                    ne è fatto in troppa parte della cosiddetta letteratura 
                    per l’infanzia e nell’intollerabile bamboleggiare 
                    di troppi adulti. Qui sono solo necessari:
 Mentre versava l’acqua pensava se non ne cadrà nemmeno una goccia
 un poco ancora si ricorda di me
 e versava con attenzione
 versava e non cadeva nemmeno una goccia
 nemmeno una finché ne cadde una
 piccolissima minuscola (18).
 Necessari, e per almeno un paio di ragioni. Una ragione mi 
                    sembra stia nel fatto che il dimensionare in piccolo, oltre 
                    che corrispondere a una scelta di gusto, a una scelta di campo, 
                    risponda anche a una sorta di coazione, e che sconfini anch’essa 
                    in un dolore, che rinvii anche al ridimensionare. E c’è 
                    una bellissima poesia, in Teresino, che si intitola appunto 
                    Ridimensionare:  Quest’operazione che la costringete sempre a fare
 “ridimensionare”
 non è come stringere un vestito
 non è indolore
 si taglia la pelle del cuore (19).
 E poi c’è un’altra ragione, speculare, 
                    forse, che trovo in un’altra poesia, di un altro poeta, 
                    il cui nome qui non faccio a caso, Tiziano Rossi: Però 
                    dai pezzettini tantissimi / viene l’intero, / e fiammeggia 
                    anche lui dentro in una / costellazione (20). 
                    E a me sembra che i pezzettini tantissimi di Vivian Lamarque 
                    formino davvero una costellazione, lucciole dentro un nero 
                    – un nero non dissolto e non negato, ma contrastato 
                    sì, e con incantamento.
 Sballottati tra insidie incombenti
 Anche Tiziano Rossi scrive con tanto “fiabesco” 
                    e con tanta e acuta attenzione all’infanzia. A questo 
                    proposito voglio ricordare soltanto un esempio, preso da Dallo 
                    sdrucciolare al rialzarsi:
 Gli anni quattro di tuo figlio che rovista in malagevoli domande
 (sul come le gòcciole bagnano e sopra la grande
 dimensione tranviaria):
 dargli una mano perché
 lui piano piano ti disfi
 e intanto partìcola avanti respiri (21).
 C’è dell’altro, ovviamente, ma basterebbe 
                    anche il solo fatto di dare una mano a qualcuno perché 
                    possa respirare e piano piano disfarci; o anche questo niente 
                    riposare sballottati tra insidie incombenti, silenzi senza 
                    silenzio, incantamenti; o anche il sentirsi persone forti, 
                    sì, ma con anche la continua tentazione di non esserlo; 
                    basterebbe anche questo soltanto, per sentirsi spossati, diroccati. 
                    E ci si sente spesso, diroccati. E Rossi, in Quasi costellazione, 
                    dice che
 in ultimo, nel nòcciolo più scuro bisognosi di cura
 […]
 noi diroccati un po’ ci ninnavamo (22).
 Vivian Lamarque, alla fine del 1989, ha pubblicato Il 
                    libro delle ninne nanne, e nella prefazione ha scritto: 
                    Ho iniziato a scrivere queste ninne nanne nel 1978, in 
                    giorni bui. Nei giorni bui ridiventiamo tutti bambini spaventati 
                    e abbiamo bisogno ancora che qualcuno “ci canti”. 
                    Le ninne nanne cullano i bambini ma anche le mamme (23). 
                    Sono trecentosessantacinque ninne nanne, una per ogni giorno, 
                    raggruppate cronologicamente nella scansione dei mesi. E tengono 
                    anche conto di ricorrenze e di eventi legati alle stagioni, 
                    ma soprattutto sono percorse da agglomerati che si dipanano 
                    a cadenze fisse: tutte le ninne nanne dei giorni 1 iniziano 
                    con ninna nanna il Sonno è...; quelle dei 
                    giorni 5 iniziano con ninna nanna ti racconto una fiaba; 
                    quelle dei giorni 10 sono le puntate della storia di un vecchino 
                    e una vecchina; quelle dei giorni 15 sono ninne nanne di 
                    un bambino che non aveva mai visto...; quelle dei giorni 
                    20 parlano del trascorrere del Tempo; quelle dei giorni 25 
                    sono storie di Re; quelle dei giorni 30 sono la storia dell’Uomo 
                    del Sonno.
 Sono piccoli canti d’amore e di dolore, di tenerezza 
                    e dolore, di canto e dolore. Ancora una volta, anche qui, 
                    è il dolore la nota assidua, non esibita ma sottesa.
  
 Tra gioia e dolore
 È facile scivolare dai testi alle biografie; è 
                    facile e ingiusto; ed è facile anche pensare alle dolorose 
                    vicende personali di cui Vivian Lamarque scrive nelle sue 
                    poesie e che ha raccontato esplicitamente altrove (24). 
                    Ma qui, ora, soprattutto mi viene da pensare a coloro che 
                    sono sempre pronti a sdilinquirsi e immaginare roselline e 
                    beote beatitudini a proposito della cosiddetta letteratura 
                    per l’infanzia e i suoi autori. A me sembra di intravedere 
                    invece una impressionante “Galleria del dolore”, 
                    sulla quale si potrebbero innestare non poche riflessioni.
 Silvio D’Arzo, figlio di un padre sconosciuto e di una 
                    “cartomante”, morì a trentadue anni.
 Stevenson, tisico per tutta la vita, aveva quarantaquattro 
                    anni quando un embolo al cervello lo fermò per sempre 
                    su un’isola dei Mari del Sud.
 Un figlio di Kenneth Grahame si suicidò a vent’anni. 
                    Anche il padre di Salgari, oltre a lui stesso, si tolse la 
                    vita; e così pure un figlio di De Amicis.
 Kipling da bambino venne picchiato e perseguitato da una “zia” 
                    a cui era stato affidato e una volta che sua madre andò 
                    a trovarlo e gli si avvicinò per abbracciarlo, lui 
                    alzò il braccio per difendersi dal colpo che si aspettava 
                    di ricevere. All’età di sei anni morì 
                    sua figlia Josephine, la prediletta “Effie”; suo 
                    figlio John, diciottenne, morì in guerra.
 Il padre di Pinin Carpi fu deportato a Mauthausen e a Gusen; 
                    suo fratello Paolo non tornò mai dal lager di Gross-Rosen.
 Andersen aveva undici anni quando suo padre morì; poi, 
                    brutto e diverso, inseguì sempre amori infelici.
 La moglie di Ted Hughes si suicidò.
 Una figlia di Dahl morì a sette anni, un figlio ebbe 
                    un incidente e rimase menomato; sua moglie restò paralizzata, 
                    e la storia di Roald bambino è proprio come quelle 
                    raccontate da Dickens.
 Mark Twain fu preceduto nella morte da due figlie e fu la 
                    sua stessa superficiale negligenza a provocare la malattia 
                    che portò alla morte, a ventidue mesi, il suo primogenito.
 Janusz Korczak venne ucciso insieme ai duecento bambini della 
                    Casa degli Orfani di Varsavia da lui diretta, nel corso della 
                    deportazione verso il campo di sterminio di Treblinka.
 Uri Orlev passò due anni nel ghetto di Varsavia; quando 
                    esso venne distrutto, la madre fu uccisa dai nazisti e Uri 
                    e il fratello vennero deportati a Bergen Belsen; e oggi Orlev 
                    ci racconta di un bambino e del suo bisogno di una bestia 
                    d’ombra amica, che lo soccorra perché la madre 
                    non può fare nulla contro l’arabo che lo insegue 
                    nei sogni (25).
 Salman Rushdie è condannato a morte dagli ayatollah 
                    – dall’antro buio della sua condizione, non potendo 
                    raccontare alcunché al proprio figlio, ha scritto per 
                    lui, e per tutti noi, l’incantevole Harun e il Mar 
                    delle Storie.
 In una poesia di Attila Jòzsef si parla di un bambino 
                    che, prima di addormentarsi, chiede alla madre di raccontare 
                    e non sa bene che cosa più desidera, / la fiaba 
                    o la presenza della madre (26).
 Mi sembra che Vivian Lamarque abbia un po’ lo stesso 
                    atteggiamento: canta, e non sa bene che cosa più desidera, 
                    quelle parole oppure il fatto stesso di dirle. E comunque 
                    dice, le dice, canta, e sente la necessità della parola 
                    perché il bimbo continui a pendere dalle sue labbra, 
                    e, mentre il sonno arriva, non si compiace di esprimere soltanto 
                    cose gradevoli, anzi, le piace introdurlo appieno nella cruda 
                    realtà e trasfondere in lui la drammaticità 
                    del mondo (27).
 Le dice, quelle parole, canta, come in una sospensione, tra 
                    gioia e dolore, tra incantamento e paura, tra difesa e offesa, 
                    tra cane e lupo.
 Anche le belle illustrazioni di Aura Cesari che percorrono 
                    Il libro delle ninne nanne si collocano qui e, in 
                    questo senso, mi sembrano un po’ meno “notturne” 
                    di quanto vengano definite nella prefazione; per l’aria 
                    complessiva, per le tinte, per i grandi un po’ sperduti 
                    tanti occhi di uccelli, sono forse invece un po’ più 
                    sulla soglia.
 Ho il sospetto che qui si sia affacciato, ogni tanto, qualche 
                    terzo pensiero. Affacciato soltanto, beninteso; ma se è 
                    vero che se ne ha bisogno, è altrettanto vero che è 
                    vitalmente essenziale anche solo il cercarlo, l’aspettare.
 Cosa c’era cosa c’era sulla neve della stradina?
 C’era l’ombra della luna.
 Cosa faceva lì?
 Lì aspettava.
 Chi aspettava?
 Aspettava l’attesa di un signore.
 Aspettava l’attesa?
 Sì, prima devono compiersi le attese dei signori,
 in seguito sulle stradine arriveranno i signori in persona.
  Giuseppe Pontremoli
 Note
				 
                  João Guimarães Rosa, Le sponde dell’allegria, 
                    tr. di Giulia Lanciani, SEI, Torino 1988, p. 73. 
                  João Guimarães Rosa, Buritì, 
                    tr. di Edoardo Bizzarri, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 43-44 
                    e 65; in Corpo di ballo, Feltrinelli, Milano 1964, 
                    pp. 588-589 e 610. 
                  Herman Melville, Moby Dick, tr. Italiana a cura 
                    di Cesare Pavese, Einaudi Torino, p. 186. 
                  João Guimarães Rosa, Miguilim, tr. 
                    di Edoardo Bizzarri, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 59 e 74; 
                    in Corpo di ballo, cit., pp. 54 e 68. 
                  Aleksandr Blok, Poesie, tr. di Angelo Maria Ripellino, 
                    SE, Milano 1987, p. 168. 
                  Marina Cvetaeva, Insonnia, a cura di Giovanna Ansaldo, 
                    Marcos y Marcos, Milano 1985, p. 31. 
                  Ingeborg Bachmann, Poesie, Guanda, Milano 1978, 
                    P. 57. 
                  René Char, Poesia e prosa, tr. di Giorgio 
                    Caproni, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 563-565. 
                  Alibi, in Elsa Morante, Opere, a cura 
                    di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Mondadori, Milano 1988, 
                    vol. I, p. 1395. 
                  Fernando Bandini, Santi di Dicembre, Garzanti, 
                    Milano 1994, p. 28. 
                  Char, Poesia e prosa, cit., p. 395. 
                  Shabbath nella Geenna, in Isaac Bashevis Singer, 
                    La morte di Matusalemme, Longanesi, Milano 1989, 
                    p. 187. 
                  Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn, tr. 
                    di Enzo Giachino, Einaudi, p. 7. 
                  Vivian Lamarque, Una quieta polvere, Mondadori, 
                    Milano 1996, p. 70. 
                  Vivian Lamarque, Teresino, Società di poesia-Guanda, 
                    Milano 1981, p. 52. 
                  Ibid., p. 55. 
                  Ibid., p. 25. 
                  Ibid., p. 39. 
                   Ibid., p. 63. 
                  Tiziano Rossi, Quasi costellazione, Società 
                    di poesia, Milano 1982, p. 65. 
                  Tiziano Rossi, Dallo sdrucciolare al rialzarsi, 
                    Guanda, Milano 1976, p. 99. 
                  Quasi costellazione, cit., p. 35. 
                  Vivian Lamarque, Il libro delle ninne nanne, Edizioni 
                    Paoline, Cinisello Balsamo, 1989, p. 5. 
                  Leggere gli anni verdi. Racconti di letture sull’infanzia 
                    e l’adolescenza, a cura di Cesare Pianciola e Giuseppe 
                    Pontremoli, e/o, Roma 1992, pp. 93-97. 
                  Uri Orlev, La bestia d’ombra, tr. di Alessandro 
                    Guetta, Salani, Milano 1995. 
                  Saluto a Thomas Mann, in Attila Jòzsef, 
                    Gridiamo a Dio, a cura di Sandro Badiali e Gilberto 
                    Finzi, Guanda, Parma 1963, p. 127. 
                  Vivian Lamarque, Il signore d’oro, Crocetti, 
                    Milano 1986, p. 58. 
                 
 
                   
                    | Fausta 
                        Bizzozzero / Costruire uomini liberi |  
                    | Giuseppe. 
                        Se chiudo gli occhi rivedo il suo viso intenso e intelligente, 
                        i suoi capelli lunghi e sciolti sulle spalle, i suoi occhi 
                        vivacissimi e curiosi. E risento la sua voce meravigliosa, 
                        calda, di timbro basso, avvolgente, leggere una storia 
                        e trasportarmi là, in un altro mondo. Nei primi 
                        mesi del 2003 la Libreria Utopia, con l’aiuto prezioso 
                        di Filippo Trasatti, aveva organizzato un ciclo di conferenze 
                        sulla scuola, sul ruolo degli insegnanti, sulla lettura. 
                        Giuseppe, ovviamente, era relatore in una di queste conferenze, 
                        ma l’ho visto seduto sui gradini della sala conferenze 
                        e l’ho sentito intervenire con passione e intelligenza 
                        a tutte, nessuna esclusa. Così l’ho conosciuto e così mi ha 
                        toccato il cuore: perché era un insegnante meraviglioso 
                        capace di trasmettere gioia ed entusiasmo (come avrei 
                        voluto essere anch’io se i casi della vita non mi 
                        avessero “costretto” ad altri studi e altri 
                        percorsi), perché come me amava la lettura in modo 
                        totale e incondizionato, perché leggeva ad alta 
                        voce in modo meraviglioso trasformando la parola in vita, 
                        perché era di una curiosità inesauribile, 
                        perché aveva saputo conservare – forse proprio 
                        grazie alla lettura e alla passione per le storie – 
                        quello sguardo sul mondo fatto di candore e meraviglia 
                        che solo i bambini hanno. Purtroppo dopo l’estate 
                        di quell’anno è cominciata la sua terribile 
                        malattia ed io l’ho rivisto solo quando abbiamo 
                        organizzato la presentazione del suo bellissimo libro 
                        Elogio delle azioni spregevoli pubblicato da 
                        L’Ancora del Mediterraneo.
 Stava già molto male e quel giorno aveva avuto 
                        una febbre altissima, ma per nulla al mondo avrebbe rinunciato 
                        ad esserci e, ancora una volta, a regalarci la magia della 
                        sua voce che ci leggeva dei brani. Nella storia trentennale 
                        della libreria nessuna conferenza è stata più 
                        partecipata, più emotivamente condivisa, più 
                        calda d’affetto e di stima da parte di tutti i presenti: 
                        insegnanti, genitori, bambini/alunni e bambini ormai cresciuti 
                        che ancora rimpiangevano il loro maestro che in quest’epoca 
                        di nazi-consumismo e di predominio del dio denaro, aveva 
                        insegnato loro a percorrere le mille strade delle mille 
                        storie dei mille mondi della lettura.
 “Maestro di libertà” è il titolo 
                        della serata che abbiamo voluto dedicargli insieme alla 
                        Libreria dei ragazzi e mai titolo fu più giusto 
                        perché questo è il compito che ha cercato 
                        di svolgere Giuseppe in tutta la sua vita, instancabilmente, 
                        con l’insegnamento, con le sue letture ad alta voce, 
                        con i suoi libri: costruire uomini liberi.
  Fausta Bizzozzero
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