| Renaud2: La tigna e il successo
  Il mese scorso avevamo lasciato Renaud (Sechan è il 
                  suo cognome, ma è noto col solo prenom) solidamente 
                  avviato sulla strada di un successo popolare. La cosa può 
                  ben stupire, vista la radicalità dei suoi testi. Il personaggio 
                  in effetti, per tentare un improbabile paragone, è una 
                  specie di Vasco Rossi (molto) politicizzato, un rocker casereccio 
                  (alla maniera francese) sincero nel suo populismo, e popolare 
                  per la sua assoluta sincerità. Continuiamo a seguire la sua crescita artistica, di disco in 
                  disco, e parallelamente la conquista della simpatia di un pubblico 
                  sempre più vasto.
 Non si può certo dire che il favore crescente, con l’inevitabile 
                  conseguenza dell’attenzione sempre più invasiva 
                  dei media, producano in Renaud l’immediato ritiro su posizioni 
                  più potabili, più tranquillizzanti per un pubblico 
                  che sta diventando vastissimo.
 La coerenza dell’artista premia gli appassionati della 
                  prima ora e conquista i neofiti con un atteggiamento esattamente 
                  contrario. Il biondino lancia sul piatto la sua bomba più 
                  cattiva, il suo disco più rivoltoso, e anche uno dei 
                  suoi più belli: Marche à l’ombre 
                  (1980).
 
  La scrittura arriva all’apice di una significativa corrispondenza 
                  fra secchezza formale e radicalità tematica; lo standard 
                  in seguito resterà alto, ma avrà difficoltà 
                  a ritrovare un impatto così dirompente. La canzone che dà il titolo all’album è 
                  il remake, più riuscito dell’originale, 
                  della Laisse beton del secondo disco, tutta puntata 
                  su simpatiche trovate lessicali; giusto un aperitivo linguistico 
                  servito da maître Renaud, per introdurre l’atmosfera, 
                  i titoli di testa di un film sospeso tra il noir più 
                  digrignante e un realismo poetico che vira al buffo.
 La teigne, è un acquerello a tinte già 
                  più drammatiche in cui del loubard (come abbiamo 
                  spiegato nella prima parte del nostro articolo, il loubard è 
                  il delinquente delle periferie francesi) di turno, si approfondiscono 
                  gli aspetti psicologici e il dolore esistenziale, per carità 
                  sempre con pudore e con una sorta di brusco rispetto privo di 
                  pietismi, nonostante il finale da lacrimoni.
 Ou est que j’ai mis mon flingue? (Dove ho cacciato 
                  la pistola?) è invece quanto di più velenoso Renaud 
                  abbia mai ammannito al suo pubblico: si parte da una riflessione 
                  sulla propria raggiunta celebrità
 da quando vi vendo 
                  anche in TV la mia zuppa avvelenata…
 che nulla ha cambiato della virulenza del
 passato
 anche gli sbirri mi salutano
 e porgono il berretto da firmare
 io ci sputo dentro e urlo
 che il blue marine mi fa vomitare...
 il bersaglio si rivolge poi alla sinistra parlamentare  non sarà domani che marcerò coi coglionazzi verso le urne
 ai radical-chic eternamente in manifestazione
 mai più slogan contro la sbirraglia
 ma fucili, pietre, bombe!
 Urlare contro la repressione
 in corteo per Parigi
 mentre i miei amici crepano in prigione
 fa buona la coscienza degli stronzi
 per concludere con un richiamo ai maestri della rivolta di 
                  sempre e a quelli attuali, facendo nel contempo il verso a Victor 
                  Hugo  se un giorno mi trovano faccia a terra la colpa è di Baader
 se crepo riverso in un fiume
 la colpa è di Bonnot.
 Per i benpensanti c’è di che tremare... se non 
                  altro d’indignazione! Forse solo il Léo Ferré di Comme une fille 
                  aveva osato altrettanto, anche se, pur svettando in qualità 
                  poetica e musicale a un livello irraggiungibile, con un linguaggio 
                  più immaginifico e letterario. Di Renaud invece colpisce 
                  la costruzione sapiente che sa tenere in equilibrio il sentire 
                  della marmaglia del bar all’angolo con una forma concisa 
                  e strutturata.
 La sua forza particolare non consegna a metafore la rivolta, 
                  venendo così intesa a tutti i livelli. Il suo eroe (o 
                  antieroe) che non può, dopo la delusione sessantottina, 
                  essere la massa, ma il singolo deviato di una classe marginale 
                  e allo sbando, si sposa perfettamente con lo sbando stesso percepito 
                  del popolo della sinistra all’inizio dei fangosi anni 
                  ottanta.
 È così che il cantautore politico più radicale 
                  diventa anche il più popolare.
 Baston in questo senso è una canzone emblematica 
                  e fotografa bene la violenza repressa che germina in un’esistenza 
                  che non concede più nessuno spazio e iniziativa al miglioramento 
                  della società per chi deve porsi, innanzi tutto, il problema 
                  dei bisogni primari. È una canzone che ha ancora tanto 
                  da raccontarci in tempi di sassi dai cavalcavia e giochi mortiferi.
 Proseguendo nell’ascolto del disco si entra in uno dei 
                  luoghi mitici dell’universo di Renaud con Mon H.L.M. 
                  (è l’acrostico con cui si designa l’edilizia 
                  popolare delle periferie degradate) dove un mondo frastornato 
                  e frastagliato combatte una vera guerra fra poveri di vicini 
                  che, a parte l’acqua alla gola della sopravvivenza quotidiana, 
                  null’altro accomuna; la grandezza del cantante è 
                  nel tratteggiare ora con umorismo, ora con tenerezza, ora con 
                  sarcasmo un intero mondo nei pochi minuti della canzone, offrendo 
                  il perfetto spaccato di un vissuto comune talmente familiare 
                  ai più, da restare nella zona grigia del “così 
                  quotidiano da essere invisibile”.
 Ricordo ancora Mimì L’Ennui (Mimì 
                  la Noia) ritratto di una Teen Agers in preda a un’invincibile 
                  forma di moderno spleen esistenziale, una noia velenosa 
                  incontrollabile, in grado di fagocitare amori, pulsioni, speranze 
                  e rabbie in una resa totale
 Non ama niente nemmeno gli amici
 che dicono che è stanca
 di trascinare la carcassa
 in questi luoghi marci
 in questa povera vita senza vita
 si annoia Mimì
 con questo ritratto Renaud esce anche dall’ambiente sociale 
                  dei miserabili che gli è consono, per attingere a un 
                  comportamento, non più tipicamente proletario o francese, 
                  ma semplicemente universale. Questi gli episodi più interessanti di un disco denso, 
                  compatto, carico di umori e di humour, e che, come dicevamo, 
                  comincia a segnare per Renaud l’inizio di un travolgente 
                  successo, che lo porterà in vetta ad ogni classifica 
                  nazionale.
 
  Il disco successivo, che già dal titolo (Le 
                  retour de Gerard Lambert 1981) fa il verso ad 
                  una delle canzoni più bozzettistiche del precedente, 
                  non può che porsi come una continuazione di quello e, 
                  pur non stupendo per novità, ne approfondisce egregiamente 
                  i temi. C’è Banlieu Rouge (Periferia rossa) in 
                  cui, come ogni volta che racconta una figura marginale mescolando 
                  al cinismo una sorta di brusca tenerezza, attinge al sommo della 
                  sua arte: nello specifico si tratta di una vedova di mezz’età 
                  sull’orlo della povertà, che ha come unica consolazione 
                  la radio, i gatti e i pesci rossi con cui parla e che la notte 
                  sente muoversi irrequieti, che non nutre speranze e desideri 
                  ma solo una sorta di feroce delusione che non riesce a trasformarsi 
                  in rabbia, dal momento che
 non crede 
                  in se stessa e non crede agli umani
 comunque ha piazzato il buon Dio
 sopra il suo letto
 a lui crede – forse –
 ma non è reciproco.
 C’è Oskar, stupendo ritratto dello zio 
                  minatore nelle cave del nord, emblema del proletario iperpoliticizzato, 
                  nei ranghi di partito e sindacato, sfruttato e poi gettato via 
                  come un limone, spremuto dai padroni, ma che conserva una forza 
                  interiore con cui attraversa un’esistenza difficile, finché 
                 non è partito, come dicono i poeti né è volato in cielo come dicono i preti
 un mattino di dicembre
 per un cancro imbecille
 è morto.
 La canzone solitamente priva di fronzoli e artifici retorici, 
                  priva di qualsiasi morale da finale di favoletta, si distingue 
                  proprio per una sorta di orgoglioso cinismo che le fa raggiungere 
                  il fremito di eternità della vita realmente vissuta. 
                  La Blanche, con cui si prende posizione in maniera 
                  molto dura contro l’eroina, è il resoconto di un 
                  dialogo con un vecchio amico divenuto tossicodipendente, condotto 
                  sul filo di un’amara, tenera ironia
 pare che la tua ganza sia scappata con la cassa
 forse perchè non ti tirava più
 per le sue cosce e le sue chiappe
 che vuoi che ti dica...?
 che eri troppo bello per lei
 ma no... sto scherzando
 non sono crudele
 che vela appena la rabbia lasciata esplodere nel finale  ma se trovo il tuo 
                  spacciatore devo al suo cuore
 due coltellate da parte di un vecchio amico
 cosa non facile
 visto che quest’escremento
 non credo che abbia un cuore a portata di mano.
 Stupenda anche la canzone Manu, sorta di dialogo con 
                  se stesso (il secondo nome di Renaud è proprio Manuel) 
                  sulla fugacità dell’amore, e sulla difficoltà 
                  di gestire un cuore in pezzi conciliandolo con un aspetto da 
                  duro in giubbotto di cuoio e tatuaggi. Il successo, dicevamo, sempre crescente, porta Renaud a calcare 
                  le scene dell’Olympia (spettacolo anch’esso documentato 
                  su disco), e questi lo fa cantando le canzoni più dure 
                  del suo repertorio, aprendo proprio con Ou est que j’ai 
                  mis mon flingue?, sparando addosso al pubblico, presumibilmente 
                  composto da studenti di sinistra, una violentissima satira sui 
                  figli di papà che all’università diventano 
                  improvvisamente rivoluzionari, ma, in fondo, studiano come perpetuare 
                  una cultura borghese:
  studente peli al mento
 non sono della tua razza
 /.../
 c’è solo la scuola della strada
 che m’infanga gli stivali
 studente di giurisprudenza
 ci sono più fascisti nel tuo corso
 che in un reggimento di parà
 /.../
 domani arriverai
 nella tua toga imbrattata di sangue
 a far applicare le leggi
 che nessuno ha mai votato
 /… /
 studente di medicina
 ti rompi per sette anni
 per diventare mercante di penicillina
 /.../
 la tua medicina è una puttana
 e il suo magnaccia è il farmacista
 /.../
 la tua cultura ci fa vomitare
 studente rispettabile
 che ti vedi già dirigente
 trascinando nella cartella
 la coglionaggine dei tuoi padri
 gli arrangiamenti, decisamente rockettari (il disco risulta 
                  registrato molto meglio del precedente live), danno a queste 
                  strofe un’aria ancor più incanaglita e aggressiva. 
                  La fase violenta, quella più legata al passato di militante 
                  anarchico, della carriera di Renaud è, anche formalmente, 
                  arrivata al suo apice; a questo punto il rischio è quello 
                  di trasformarsi nella ripetitiva macchietta del cantautore incazzato, 
                  ma vedremo che, senza rinnegare niente, l’ancor giovanissimo 
                  Sechan, ha altre frecce al suo arco.
  Alessio 
                  Lega alessio.lega@fastwebnet.it
 La prima parte 
                  di questo articolo è apparsa sullo scorso numero della 
                  rivista (“A” 308, maggio 2005). |