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                  lo scienziato e lo storico la differenza è abbastanza 
                  chiara: il primo considera ripetibile quel che il secondo, di 
                  principio, considera ben fissato ad un posto ed a un momento, 
                  che, dunque, come tale, diventa irripetibile. Che, poi, certi 
                  storici, sulla base di confronti che sono sempre liberi di fare, 
                  amino raccontarci che, essendo il dato contesto simile a quell’altro, 
                  è lecito aspettarci in questo quel che è accaduto 
                  nell’altro, va interpretato più come la manifestazione 
                  – non sempre conscia – dei loro desideri di attualità, 
                  che non l’affermazione di un sapere indiscutibile. Che 
                  scienziato e storico, infine, possano condividere qualche aspetto 
                  della loro attività con il detective è ovvio: 
                  sono tutti impegnati a ricostruire narrazioni cui si chiede 
                  un minimo garantito, la coerenza. Jurgen Kluver e Christina Stoica – in un saggio intitolato 
                  Un detective a tutto bit – raccontano della possibilità 
                  di automatizzare l’investigazione. Con le tecniche dell’intelligenza 
                  artificiale, o, più precisamente, con le reti neurali 
                  – marchingegni più o meno teorici che si vorrebbero 
                  imitino il cervello umano –, è stato analizzato 
                  Il mistero della cassapanca spagnola, un racconto di 
                  Agatha Christie, mettendo in competizione, per così dire, 
                  la macchina con il famoso detective Hercule Poirot. Chi dei 
                  due sarebbe giunto per primo ad individuare l’immancabile 
                  colpevole? Inutile dire che le risultanze di questi esperimenti 
                  sono penose: è ovvio, infatti, che il programma computeristico 
                  debba possedere il medesimo sapere che è a disposizione 
                  di Poirot per giungere alle medesime conclusioni. È ovvio 
                  che, fra questo sapere, non c’è solamente, che 
                  so, il grado di parentela del principale indiziato con la vittima, 
                  ma anche tutta quell’enciclopedia che specifica cosa sia 
                  un grado di parentela nonché una miriade di altre cose 
                  che Poirot sa per apprendimento progressivo e che la macchina 
                  di per sé non sa di sicuro. Ed è anche ovvio che, 
                  quando Kluver e Stoica dicono che la macchina in questione – 
                  la macchina investigatrice – “deve disporre di tutti 
                  i dati” si mettono in bel guaio. “Tutti” è 
                  una categoria mentale particolarmente infida: implica l’esaurimento 
                  di un catalogo, ma se preventivamente di questo catalogo non 
                  viene fornito il criterio tramite il quale compilarlo, ecco 
                  che “tutti” non designa più alcunché. 
                  Quel che è un “dato” per qualcuno, può 
                  esser ricondotto ad un altro “dato” da qualcun altro, 
                  perché il “dato” non è mai tale e, 
                  piuttosto, è un “costruito”.
 L’idea del computer detective è vecchiotta, peraltro. 
                  Nell’edizione italiana di “Playboy”, Italo 
                  Calvino pubblicò L’incendio della casa abominevole, 
                  un racconto che, più tardi, avrebbe dovuto diventare 
                  un romanzo dal titolo “L’ordine del delitto”. 
                  Rimase soltanto alla stato di bozza, ma in esso era già 
                  chiara l’idea del programma computerizzato per risolvere 
                  una catena di delitti: i personaggi erano quattro, le azioni 
                  transitive erano dodici (tipo “spiare”, “strangolare”, 
                  “ricattare”, etc.) e la combinatoria delle eventualità 
                  ottenute da Calvino ammontava ad un numero composto da tredici 
                  cifre. Roba da computer, per l’appunto, in linea con le 
                  curiosità di un Calvino nei confronti dei giochi letterari 
                  e della linguistica computazionale – un Calvino ormai 
                  lontano dai tempi de Il sentiero dei nidi di ragno.
 Esautorando il computer, invece, ne Il partigiano e l’aviatore, 
                  Davide Pinardi porta a termine due tipi di indagine su quelli 
                  che, superficialmente, potrebbero essere classificati come due 
                  tipi di morti. La prima riguarda la morte di Federico Barbiano 
                  di Belgioioso, un partigiano ucciso a Milano il 27 aprile del 
                  1945. Pinardi è preso dall’ingranaggio della curiosità 
                  storica perché, leggendo le cronache, i conti non gli 
                  tornano: Federico sembrerebbe ucciso per errore da altri partigiani 
                  – e così lui e la sua storia sono stati sepolti, 
                  consentendo, peraltro, che a commemorarlo anni dopo siano, contemporaneamente 
                  e ben separatamente, fascisti ed antifascisti. Le versioni di 
                  “come sono andate le cose” gli si moltiplicano tra 
                  le mani – ne conterà addirittura sette – 
                  , e, soprattutto, gli si deforma innanzi agli occhi la figura 
                  di partigiano che, per errore, l’avrebbe ucciso.
 La seconda indagine riguarda Gianni Romanini, un militare, pilota 
                  d’aereo, sparito in Africa il 21 aprile del 1941, i cui 
                  resti vennero ritrovati nel deserto libico il 21 luglio del 
                  1960. Anche qui, ovviamente, ci sono conti che non tornano – 
                  fra questi il fatto che il ritrovamento avviene in un punto 
                  molto lontano da dove si pensava che dovesse e potesse avvenire 
                  – e l’affettuosamente scrupolosa indagine di Pinardi 
                  rimette tante cose al loro posto. Ma, in questo gioco di immaginazione 
                  e pazienza, oltre ai cosiddetti fatti, capita a Pinardi di ricostruire 
                  la matrice di un pensiero nonché la gamma di quelle conseguenti 
                  opzioni comportamentali che, attingendo alla collettività 
                  di un’epoca – il fascismo –, colorano questo 
                  pensiero del sentimento di una persona, concedendogli pertanto 
                  le sue sfumature di individuo, prima, e di vittima, poi.
 Da una prospettiva, allora, l’assassino è il fascismo: 
                  la mitologia del volo, l’orgogliosa spettacolarità 
                  del “Maresciallo dell’Aria” Italo Balbo, il 
                  dannunzianesimo che canta la macchina aerea, la retorica futurista 
                  dell’“esteta armato”, l’“uomo 
                  nuovo” e “moderno” che irride dall’alto 
                  ai beduini indifesi nella loro medioevalità. Ma dall’altra 
                  prospettiva le cose si complicano.
 Federico è stato ammazzato da tal Giuseppe Marozin, detto 
                  “Vero”, e questo Marozin non ha soltanto una storia, 
                  ne ha due. In una è un eroe partigiano, un eroe cui inneggiano 
                  i manifesti affissi sui muri della Milano del 25 aprile, una 
                  “simpatica figura di capopopolo”. E una fotografia 
                  è lì ad attestarlo: è in piazza del Duomo, 
                  accanto a Pertini e a Bonfantini, in trionfo, acclamato, si 
                  gode l’agognato momento della liberazione dal nazifascismo. 
                  Nell’altra storia è meno acclamabile.
 Fra i pochi altri, ne raccontava già Mario Bernardo nel 
                  1969, in un libro intitolato con il sospiro di un bene perduto 
                  per sempre, Il momento buono, dove diceva che, in pratica, 
                  nel vicentino e nel veronese, Marozin non si è comportato 
                  molto diversamente dai nazifascisti, razziando quel che poteva, 
                  torturando ed uccidendo. Fascista, d’altronde, fino a 
                  poco prima – era stato in Spagna, ma dalla parte dei nazionalisti 
                  –, sarebbe stato strano si comportasse altrimenti. Tanto 
                  è vero che il comando dei partigiani l’aveva condannato 
                  a morte – una condanna alla quale Marozin e i suoi riescono 
                  a sfuggire, ai primi di novembre del 1944, scappando proprio 
                  a Milano, dove, nella versione benefica di Pertini e di Bonfantini, 
                  Marozin si ritrova eroe. A nulla valendo – così 
                  andavano e così vanno le cose – lo sdegno dei partigiani 
                  che, invano, ne chiedono l’arresto. Ed è da eroe, 
                  dunque, che, nell’esercizio del suo mestiere, incappa 
                  nell’increscioso “incidente” di ammazzare 
                  Federico.
 Nel risalire di responsabilità in responsabilità 
                  si può andare indietro all’infinito. Il momento 
                  buono per fermarsi è indice della sensibilità 
                  di un’epoca e di una persona che in quest’epoca 
                  vive con un quadro di valori che è di tutti quanto suo. 
                  Dove Pinardi entra in crisi – allorché i dati gli 
                  si contraddicono e le categorie alle quali è stato educato 
                  non gli bastano più e, anzi, sembrano portarlo fuori 
                  strada –, il marchingegno dell’intelligenza artificiale 
                  non arriva ancora.
 Il sentiero dei nidi di ragno è del 1947. A 
                  metà degli anni Sessanta, in occasione di una ristampa, 
                  Calvino vi aggiunge una prefazione estremamente interessante. 
                  Non solo perché ammette che, al momento, “i discorsi 
                  sulla letteratura” gli danno “sempre più 
                  fastidio”, precisando trattarsi di quelli degli altri 
                  come dei suoi, ma perché, con leale incertezza, cerca 
                  di far comprendere e comprendere egli stesso cos’era stato 
                  il suo rapporto di persona e di scrittore con quella Resistenza 
                  cui, dal 1944, sui monti liguri, aveva partecipato direttamente. 
                  Bene, già allora, Calvino accusava la “rispettabilità 
                  ben pensante” del primissimo dopoguerra e la retorica 
                  che della Resistenza mistificava la natura. Con onesta e dolente 
                  umanità diceva che, per molti dei suoi coetanei, “era 
                  stato solo ih caso a decidere da che parte dovessero combattere” 
                  e che, per molti, “le parti tutt’a un tratto si 
                  invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; 
                  da una parte o dall’altra sparavano o si facevano sparare” 
                  e “solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile”. 
                  Il sentiero dei nidi di ragno, già allora, dunque, 
                  fu il riflesso di una “ostentazione di spavalderia quasi 
                  provocatoria” su due fronti: contro i “detrattori 
                  della Resistenza” e, “nello stesso tempo”, 
                  contro i “sacerdoti d’una Resistenza agiografica 
                  ed edulcorata”.
  Felice Accame
 P.s.: Ne Il partigiano e l’aviatore di Pinardi, 
                  fanno anche la loro comparsa – non sempre luminosissima 
                  – alcuni dei personaggi che compongono l’iconologia 
                  degli Gli anarchici e la Resistenza, 
                  in “A” 307. Andrebbe allora rammentato che Perelli, 
                  Pietropaolo e Bruzzi, per esempio, figurano come interpreti 
                  minori di quell’inquietante caso che, nel 1921, fu l’attentato 
                  al Diana. Bruzzi è imputato, ma, francamente, non ho 
                  mai capito di cosa. Perelli, invece, è stato condannato, 
                  perché era stato sorpreso, per strada, nella stessa sera 
                  dell’attentato al Diana, mentre, con altri, si dirigeva 
                  verso la sede dell’“Avanti!”, dove, secondo 
                  le sue parole al processo, avrebbero voluto fare una “dimostrazione”, 
                  con bomba. La sua carriera politica virerà più 
                  tardi in direzione del Partito Socialista Italiano e, infine, 
                  verso il Partito Socialdemocratico. Anche a Pietropaolo toccheranno 
                  16 anni e 11 mesi di carcere. A Germinal Concordia viene ascritto 
                  il merito di aver liberato Villa Triste, a Milano – la 
                  nota sede dei torturatori della banda di Pietro Koch –, 
                  ma, a quanto risulta da più parti, già Mussolini, 
                  verso la fine del 1944, si era dato da fare in proposito ordinando 
                  l’arresto di Koch (che scappa e si consegna alla questura 
                  di Firenze tempo dopo). Alla fine del 1945, comunque, Germinal 
                  Concordia – con Perelli e Pietropaolo – fonda una 
                  Federazione Libertaria Italiana che sembrerebbe piuttosto orientata 
                  alla partecipazione elettorale e, nel 1950, non lasciando più 
                  adito a dubbi sulle sue intenzioni, fonda il Partito Comunista 
                  Nazionale Italiano. Passi per il “comunista”, ma 
                  per il “nazionale”... Mah. Qualche perplessità 
                  sul loro anarchismo è inevitabile. Ricordandosi, anche, 
                  delle raccomandazioni di Malatesta quando diceva che “gli 
                  anarchici non debbono, non possono essere dei giustizieri”, 
                  perché “essi sono dei liberatori”.  P. p. s.: Il saggio di Kluver e Stoica è in “Mente 
                  e cervello”, III, 14, 2005. Del racconto di Calvino e 
                  del progetto di romanzo parla Paul Braffort in Letteratura 
                  e matematica – Il guerriero rigoroso, in “AltroVerso”, 
                  6/7, dicembre 2004 – marzo 2005. Il partigiano e l’aviatore di Davide Pinardi 
                  è pubblicato da Odradek (Roma 2005). Il momento buono 
                  di Mario Bernardo venne pubblicato da Ideologie, a Roma nel 
                  1969. L’esteta armato è il titolo di un 
                  saggio di Maurizio Serra, edito da Il Mulino, a Bologna nel 
                  1990. Cfr., infine, L’attentato al Diana, Napoleone, 
                  Roma 1973. Per la citazione di Malatesta, cfr. E. Malatesta, 
                  Errori e rimedi (a cura di P. Adamo), MB Publishing, 
                  Milano s. d.
  
                  
                     
                      |  Gli 
                          anarchici e la Resistenza 
                          Precisazioni redazionali
 Alcune 
                          affermazioni dell’amico Felice Accame nel suo 
                          “P.s.” ci spingono a precisare che: 
                        
                           Gli anarchici citati 
                            (e di ciascuno dei quali abbiamo pubblicato un’immagine) 
                            nella doppia pagina fotografica (pagg. 26-27) del 
                            numero di aprile di “A” non fanno parte 
                            di alcuna “iconologia” ufficiale, ma – 
                            come precisato nelle due righe introduttive – 
                            sono solo alcuni partecipanti alla lunga Resistenza 
                            antifascista degli anarchici. 
                          La presenza tra i 17 antifascisti anarchici citati, 
                            di Germinal Concordia, Mario Orazio Perelli e Antonio 
                            Pietropaolo – che dopo la Resistenza si allontanarono 
                            dal movimento anarchico approdando in forme diverse 
                            ai lidi della socialdemocrazia – non significa, 
                            naturalmente, che noi sottovalutiamo né tantomeno 
                            condividiamo tale loro scelta successiva al periodo 
                            esaminato. Contrariamente a Felice, non pensiamo che 
                            tale loro scelta successiva renda inevitabile qualche 
                            perplessità sul loro anarchismo. Da Andrea 
                            Costa a Francesco Saverio Merlino, a Piercarlo Masini, 
                            sono state innumerevoli le persone che dopo una intensa 
                            e a volta lunga militanza tra le fila anarchiche se 
                            ne sono allontanati. Nessuno potrebbe negare che siano 
                            stati anarchici. 
                          Per quanto riguarda il Partito Comunista Nazionale 
                            Italiano, ci limitiamo ad osservare che il termine 
                            “nazionale” non deve evocare analogie 
                            con il Socialismo Nazionale di hitleriana memoria 
                            né con altri fenomeni nazionalisti. Analogamente 
                            l’uso del termine “comunista” merita 
                            un’attenzione non superficiale: nella turbolenta 
                            fase post-resistenziale numerosi furono i tentativi 
                            di rivendicare un’identità comunista 
                            alternativa e antagonista a quella (stalinista) del 
                            PCI. Peraltro anche tra gli anarchici la scelta di 
                            abbandonare il termine “comunista” (nell’autodefinizione 
                            di “comunisti anarchici” o “comunisti 
                            libertari”) non fu né scontata né 
                            indolore, prima del congresso costitutivo della Federazione 
                            Anarchica Italiana (Carrara, settembre 1945). 
                          Analogamente la presenza, tra i 17 antifascisti 
                            anarchici citati, di Bruzzi, Perelli e Pietropaolo 
                            – tutti e tre implicati (per la precisione) 
                            non nell’attentato al teatro Diana ma in episodi 
                            collaterali e contemporanei – non comporta da 
                            parte nostra alcuna sottovalutazione della gravità 
                            di quel fatto né alcuna attenuazione della 
                            nostra totale ferma dissociazione da qualsiasi mezzo 
                            di lotta che abbia comunque esiti indiscriminati e 
                            obiettivamente terroristici. Fa bene Felice a citare 
                            le parole di Malatesta, che condividiamo. 
                          La redazione di "A"
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