| Renaud1: il Gavroche della canzone
  Ormai 30 anni di fiera attività (considerando la data 
                  d’incisione del suo primo LP), fanno del biondino 
                  una delle figure più interessanti della canzone poetica 
                  francese. Certo, come tutti coloro che sentono impellente la necessità 
                  di continuare, anche dopo i furori della tardadolescenza, a 
                  vomitare qualche pensiero sul bruttomuso della realtà, 
                  non s’è salvato dal rischio d’apparire controverso 
                  e contraddittorio. Il rischio è però accettato 
                  in partenza. Il personaggio c’è. Non è un 
                  intellettuale, ma non è un uomo dei boschi, un bluesman 
                  o un poeta contadino.
 È Renaud, il cantore popolare tenero e virulento. È 
                  l’uomo che è riuscito a stare in piedi sulle classifiche 
                  radiofoniche con versi di un’incontrovertibile radicalità.
 Culturalmente Renaud, nato da una famiglia della piccola borghesia 
                  ma ancora di provenienza fortemente popolare (prole numerosa, 
                  zio minatore nelle cave del nord), diventa uomo sulle barricate 
                  del maggio ’68, dove si trova accanto a cinque dei suoi 
                  sei fratelli, e dove, appena sedicenne, fonda e organizza alcuni 
                  gruppi politico/culturali: il Groupe Gavroche Revolutionaire, 
                  prima, e il Groupe Ravachol, poi; sempre su quelle 
                  barricate prende immediatamente le distanze dai militanti di 
                  ispirazione marxista, riconoscendosi, sulla scorta delle letture 
                  di Proudhon, di Bakunin, di Stirner, anarchico.
 La rabbiosa delusione che segue la fallita ipotesi di un rapido 
                  cambiamento rivoluzionario della società, coincide con 
                  l’abbandono degli studi regolari. Affida dunque la sua 
                  formazione a qualche anno di peregrinazioni per il mondo (fino 
                  al Sudafrica!), alla boheme parigina, agli incontri e alle discussioni. 
                  Poi, ancor giovane e timidissimo, comincia la sua gavetta nel 
                  mondo dei professionisti della canzone.
 La carriera di Renaud segue un evolversi, forse non sempre coerente, 
                  ma senz’altro molto umano e comprensibile, in fasi successive, 
                  che tenteremo di analizzare utilizzando l’unico documento 
                  veramente atto allo scopo: la stretta successione cronologica 
                  della sua discografia.
 
 Gavroche  Il 1975 consegna ai banconi dei negozi musicali francesi un 
                  LP fresco di stampa: sulla copertina campeggia in primissimo 
                  piano la faccia di un adolescente biondo, con uno sguardo fra 
                  il sarcastico e l’aggressivo, che fa contrasto con l’apparenza 
                  da cherubino. La tenuta – al limite della mascherata e del ridicolo 
                  – è da perfetto Gavroche: così 
                  solevano essere affettuosamente chiamati (in riferimento a un 
                  personaggio dei Miserabili di Victor Hugo) gli appartenenti 
                  a quell’esercito di ragazzini sottoproletari, che a Parigi 
                  avevano animato le barricate di ogni tentativo rivoluzionario, 
                  ultimo (?) dei quali proprio il Mai ’68.
 Al, già mitico, maggio molte tracce del disco si richiamano 
                  esplicitamente, e il “mese del mughetto” rimarrà, 
                  sullo sfondo come un passato mitico, in tutta la produzione 
                  successiva dell’autore. Il disco denuncia tutti i difetti 
                  dell’opera prima, soprattutto per quanto riguarda gli 
                  arrangiamenti a volte di una misera sobrietà, improvvisamente 
                  poi gonfiati da interventi pseudo-orchestrali del tutto inutili, 
                  probabilmente guidati dal doppio condizionamento di un budget 
                  bassissimo e dell’inesperienza dell’autore, magari 
                  affidato a un mestierante dell’arrangiamento dalla casa 
                  discografica. La voce, poi, carica di inflessioni tipiche della 
                  banlieu (l’estrema periferia parigina), non perfettamente 
                  intonata e un po’ lagnosa, non ha ancora imparato a trasformare 
                  in caratteristiche i propri difetti; le canzoni sono uno strano 
                  mescolio di militanza, sarcasmo grandguignolesco, populismo 
                  primo novecento e nonsense: non c’è bisogno 
                  di aggiungere che non si tratta di capolavori! Una traccia del 
                  disco porta il significativo titolo di “Società, 
                  non mi avrai!” (Societé, tu ne m’aurais 
                  pas):
 C’era 
                  Antoine (sic!) prima di me / c’era Dylan prima di lui 
                  /.../ Loro li hanno recuperati / quanto a me non mi avranno
 Sparerò per primo / mirando giusto /.../
 Per cui sta’attenta alla tua pelle / ai tuoi sbirri, al 
                  tuo lavoro /
 La verità vincerà, l’anarchia rifiorirà 
                  /.../
 Ho cantato 10, 100 volte /.../ ho urlato su tutti i tetti/
 Ciò che pensavo di te / società, società...non 
                  mi avrai
 …insomma una specie di assegno in bianco di futura coerenza 
                  che l’artista firma al suo pubblico, e un primo omaggio 
                  (in seguito ne verranno numerosi) al banditismo anarchico gusto 
                  Bonnot. Seguono alcune esercitazioni di stile chanson realiste: 
                  canzoni sulla carriera di perfetti delinquenti dalla nascita 
                  sul pavé, fino all’inevitabile epilogo sulla ghigliottina; 
                  c’è una sarcastica e digrignante “Compagno 
                  borghese” (Camarade bourgeois) e qualche più 
                  stravagante che originale canzone d’amore; la title 
                  track è una simpatica canzone contro l’ecologia 
                  scoutistica e che dichiara tutto l’amore del 
                  nostro per Parigi e i suoi sobborghi (Amoureux de Paname).
 Ma in questo disco, fin qui trascurabile, c’è anche 
                  un miracolo: L’Hexagone (“L’esagono”, 
                  o, fuor di metafora, La Francia). L’Hexagone 
                  è la prima prova di un grande autore che si rivela: un 
                  capolavoro di struttura e significato, in cui, calendario alla 
                  mano, i vizi privati e pubblici orrori dei francesi grandi, 
                  medi e piccoli vengono passati al vetriolo da una coscienza 
                  critica irridente, partecipe e indignata; qui la cronaca diventa 
                  analisi sociale, la risata non si fa consolatorio sfottò, 
                  ma è usata come un accetta che scava sotto il piedistallo 
                  del potere e dell’idiozia capillare. Scandita come un 
                  recitativo (una specie di rap ante litteram) su un ritmo irresistibile, 
                  curata nella metrica e negli accenti, L’hexagone 
                  resta a tutt’oggi una delle più riuscite opere 
                  dell’autore, conosciuta anche dalle più giovani 
                  generazioni e immancabilmente richiesta a gran voce ad ogni 
                  concerto.
 Il secondo disco Laisse Beton (1977) 
                  mostra i segni di una progressiva maturazione, che senza fornire 
                  ancora il frutto di un album perfetto, compie un notevole passo 
                  in avanti. I panni di Gavroche sono abbandonati per quelli più 
                  moderni, ma nello spirito analoghi, del Loubard: il 
                  delinquentello della periferia, l’individualista antisociale 
                  che ha sviluppato un suo duro codice di comportamento per non 
                  essere sopraffatto, in mancanza di altre armi culturali, dalla 
                  massificazione distruttiva dell’ operaio/schiavo organizzato 
                  della moderna società capitalistica. Il loubard, che 
                  aveva conosciuto il suo antieroe di riferimento nel James Dean 
                  protagonista di Gioventù bruciata, e in Inghilterra 
                  troverà di lì a poco la sua espressione più 
                  estrema nel movimento cosiddetto Punk, resterà a lungo 
                  uno dei riferimenti di Renaud, che in seguito adatterà 
                  anche gli arrangiamenti delle sue canzoni, che nascono “povere” 
                  armonicamente, anche se indiscutibilmente piacevoli, e infarcite 
                  di musette (il valzerino cantabile), a un gusto più 
                  duro, con strumenti elettrici, quasi un compromesso col rock, 
                  germinando un interessante contaminazione. Parecchi i brani 
                  interessanti: La chanson du Loubard esplicita quel 
                  passaggio da un populismo di maniera a uno più significativo 
                  e contemporaneo di cui dicevamo sopra, Laisse Beton 
                  e Je souis une bande de jeunes percorrono la stessa 
                  strada, ma sul versante dell’opera buffa piuttosto che 
                  del melodramma, evidenziando peraltro un bel talento nel reinventare 
                  e modernizzare l’argot, a volte con trovate lessicali 
                  e invenzioni idiomatiche fenomenali; comincia in queste raffinatezze 
                  formali ad essere percepibile il debito contratto verso quello 
                  che a buona ragione può essere definito il solo vero 
                  maestro di Renaud: Georges Brassens. Anche in questo disco non 
                  manca un vero capolavoro: Le Charognards. Ispirata 
                  a un fatto di cronaca, cui Renaud aveva assistito in prima persona: 
                  l’uccisione a sangue freddo da parte dei poliziotti di 
                  due giovani rapinatori sorpresi con le proverbiali mani nel 
                  sacco, la canzone si sviluppa in soggettiva dal punto di vista 
                  del bandito agonizzante che coglie attorno a se i commenti malevoli 
                  dei passanti radunatisi ad assistere a quell’atto di giustizia 
                  sommaria, ne emerge un racconto secco, in cui la brutalità 
                  dei poliziotti e la stupidità della folla sono messe 
                  a confronto, e lasciate parlare da sé; una composizione 
                  impietosa e finalmente non patetica.
 
 Renaud  Ma gonzesse (1979) 
                  mostra il segno della necessità di ampliare i propri 
                  temi, fors’anche per timore di una cristallizzazione nel 
                  ruolo di portaparola anarco-loubard, proponendo originali canzoni 
                  d’amore o esistenziali, affermando una voglia di paternità 
                  (Chanson pour Pierrot) che annuncia un tema che diverrà 
                  carissimo all’autore di lì a qualche anno, proseguendo, 
                  insomma, sulla strada della crescita stilistica, la rincorsa 
                  che porterà al balzo compiuto col quarto disco. Intanto col, già considerevole, bagaglio di canzoni accumulato, 
                  Renaud accede al Bobino di Parigi, teatro mitico per gli artisti 
                  francesi (quello preferito da Brassens, ma anche palco di fondamentali 
                  esibizioni di Léo Férre, di Pierre Perret , di 
                  Barbara, di Guy Beart, di Gilles Vigneault, ecc...), e chiaro 
                  segnale di una repentina crescita di consensi, che presto sarà 
                  confermata dall’apertura delle porte del teatro francese 
                  di varietà più famoso del mondo: l’Olympia. 
                  A Bobino Renaud porta uno spettacolo molto interessante, integralmente 
                  documentato da due dischi separati: Le p’tit 
                  bal du samedi soir (registrato durante la prima 
                  parte della serata) contiene interpretazioni di una serie di 
                  canzoni Belle Epoque (vi abbondano quelle del truculento 
                  repertorio di Frehel), del genere cosiddetto Realiste, 
                  splendidamente accompagnate da un gruppo di specialisti della 
                  valse musette, introdotte da un geniale monologo di 
                  Aristide Bruant (Le Lezard), di cui viene eseguita anche la 
                  più che sublime Rose Blanche (nota anche come 
                  Rue Saint Vincent, e di cui già lungamente parlammo 
                  nell’articolo dedicato all’autore). Non manca uno 
                  dei pezzi più noti del repertorio militante pacifista 
                  francese La boutte rouge di Montheus. Ovviamente tali 
                  canzoni sono affrontate per sottolineare il legame ideale con 
                  la tradizione popolare francese, non a caso Renaud, anche in 
                  funzione antintelletualistica, non sceglie di interpretare le 
                  composizioni, a lui pur così vicine, dei grandi autori, 
                  ma quelle passate quasi anonime nella memoria collettiva.
 Renaud a Bobino (registrato durante la seconda parte 
                  del medesimo spettacolo) riunisce invece tutto ciò che 
                  di buono il cantante ha scritto fino ad allora, assumendo così 
                  carattere di consuntivo di questa prima parte della sua carriera; 
                  vi si ritrovano canzoni quali Les Charognard, Hexagone, 
                  Chanson pour Pierrot, ecc... con arrangiamenti decisamente 
                  più aggressivi e gradevoli delle versioni studio, cantate 
                  con grinta di fronte a un pubblico partecipe e attento, di modo 
                  che, nonostante un equilibrio musicale precario (alcuni strumenti 
                  ora sovrastano ora scompaiono, i suoni sono piuttosto acidi 
                  e poco equalizzati) scopriamo per la prima volta un interprete 
                  che non riferisce piattamente le proprie canzoni, ma 
                  le carica di tutta la personalità di una voce dai mezzi 
                  estremamente limitati, ma caratteristicamente espressiva. La 
                  tempra dell’artista a questo punto appare rivelata. Il 
                  trionfo definitivo non tarda.
 (à suivre)
  Alessio 
                  Lega alessio.lega@fastwebnet.it
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