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 “Tutto nel mondo sta dando risposte, 
                  quel che tarda è il tempo delle domande.” José Saramago
   La necessaria 
                  essenzialità di un semplice “no” C’eravamo abituati al fatto che i premi Nobel per la 
                  letteratura fossero il coronamento di un percorso, contrassegnato 
                  da lampi e folgori in un cielo plumbeo, dove lo scrittore era 
                  stato capace di squarciare indelebilmente l’opaca atmosfera 
                  quotidiana dell’usuale. Ugualmente avevamo assistito all’ineluttabile 
                  tramonto di chi – giunto alla sommità – si 
                  concedeva il meritato riposo, attorniato da studiati commiati 
                  e referenziali applausi. Fortuna vuole che l’opera di José Saramago (unico 
                  scrittore di lingua portoghese insignito del premio Nobel per 
                  la letteratura, nel 1998) abbia sparigliato ancora una volta 
                  le carte, ripercorrendo a ritroso la strada fin qui intrapresa.
 Una strada contrassegnata da continui e ripetuti “no”; 
                  quei “no” che lo stesso autore in un’intervista 
                  afferma di aver ribadito “molte volte, forse troppe, perché 
                  in quel momento non ne valeva la pena e forse non convinceva 
                  nessuno”, ma che rappresentano in definitiva le uniche 
                  parole necessarie, le sole parole essenziali, capaci di affermare 
                  la propria distanza dalle belanti voci del coro.
 Coerente ad un simile proposito, Saramago si è sempre 
                  mostrato refrattario alle lusinghe di una notorietà conquistata 
                  faticosamente, cogliendo ogni momento del suo scrivere per creare 
                  stadi d’inquietudine nei lettori e fastidi in una critica 
                  abituata ad officiare tributi a chi non è più 
                  ciò che voleva essere.
 Così, alla veneranda età di ottantadue anni, il 
                  poeta lusitano, dando alle stampe il suo nuovo “Saggio”, 
                  si è regalato il lusso di un ulteriore “no” 
                  sbattuto in faccia alla forma più rispettata, acclamata, 
                  reclamizzata dal potere: la democrazia. Nel farlo è stato 
                  però molto attento a porre la sua critica sociale in 
                  continuità letteraria con ciò che ha sempre caratterizzato 
                  la sua poetica comunicativa, composta di parabole atte a rendere 
                  comprensibile la realtà, celata dietro l’abitudine 
                  di trovare risposte pronte pur di non porsi domande inquietanti.
 Ensaio sobre a Lucidez (“Saggio sulla lucidità”), 
                  espressamente si richiama ad uno dei precedenti capolavori, 
                  Ensaio sobre a Cegueira (pubblicato nel 1995 e tradotto 
                  in italiano nel 1996 col titolo abbreviato in “Cecità”) 
                  –, dove la ricerca di elaborare una poesia critica ai 
                  tanti problemi del vivere umano si coniuga con una feroce accusa 
                  nei confronti dei meccanismi di controllo, consenso, repressione 
                  del sistema dominante. Ed è proprio nel cercar di seguire 
                  il percorso narrativo intrecciato fra queste due opere, che 
                  vorremmo osservare lo spessore stilistico e la profondità 
                  analitica caratterizzanti l’agire poetico/filosofico del 
                  Premio Nobel lusitano.
  José 
                  Saramago
   Romanzo come 
                  saggio, trattato, memoriale, storia Occorre innanzitutto comprendere che le opere di José 
                  Saramago confessano l’impegno nel giustificare la letteratura 
                  al pari di un viaggio, da percorrere in compagnia del lettore, 
                  verso un luogo la cui conoscenza descrittiva non è di 
                  per sé bastante. L’indagine, l’analisi, il 
                  commento, appaiono infatti essere gli elementi caratterizzanti 
                  il linguaggio poetico del lusitano, che ricerca nel lettore 
                  il complice del farsi narrativo, non nella veste di chi assiste 
                  all’evento descritto, ma di correo dell’evento stesso. 
                  Alcuni dei suoi più significativi romanzi assumono – 
                  sin dal titolo – l’austera e grave dicitura di “trattato”, 
                  “memoriale”, “storia”, “saggio”, 
                  volendo in tal modo sottolineare che la letteratura non è 
                  un semplice divertissement, un accontentarsi di raccontare 
                  – come direbbe Fernando Pessoa per bocca dell’eteronimo 
                  Ricardo Reis – “lo spettacolo del mondo”. 
                  Perché Saramago è sì un grande, straordinario, 
                  inventore di “storie”, però è soprattutto 
                  un creatore di “parabole” per comprendere l’essere 
                  umano nella sua cruda essenzialità.
 Come la critica letteraria ha ampiamente documentato (e ci riferiamo 
                  in particolar modo agli studi di Luciana Stegagno Picchio e 
                  Paolo Collo, cui queste note sono in parte fortemente debitrici) 
                  la produzione poetica di José Saramago è caratterizzata 
                  da trasformazioni stilistiche che precisano sempre più 
                  radicalmente il suo rapporto ostile, estraneo, indifferente, 
                  con una “letteratura” – come l’autore 
                  stesso si espresse in un’intervista – che non sia 
                  “parte della Vita, del Tempo, della Cultura, della Società”. 
                  Sarebbe però limitante considerare tutto ciò una 
                  riedizione della “letteratura d’impegno”, 
                  è piuttosto un impegno che la letteratura si assume nell’affrontare 
                  la realtà sociale come materiale critico a cui fornire 
                  forma stilistica.
 La letteratura diviene così una forma stilistica in grado 
                  di riappropriarsi della realtà in quanto può meglio 
                  osservarla – addirittura sentirla – in 
                  profondità, e nel far ciò supera la sua essenza 
                  descrittiva di superficie, per divenire “storia”, 
                  “saggio”. Non più soltanto un “romanzo”. 
                  Ma del romanzo conserva l’armoniosa virtù di un 
                  sapere narrato a più voci: quella dell’autore, 
                  dei personaggi, dei lettori.
  Linguaggio 
                  scritto per l’orecchio
 Proprio lo “stile orale”, a più voci, caratterizza 
                  la prosa letteraria di José Saramago che si impone prepotentemente 
                  con la pubblicazione di Levantado do Chão (“Alzato 
                  dal suolo”, tradotto in italiano col titolo “Una 
                  terra chiamata Alentejo”), romanzo del 1980. In quell’occasione 
                  si osservava la profonda trasformazione stilistica dell’autore 
                  rispetto alle prime poesie, cronache, racconti e testi teatrali, 
                  preoccupati principalmente dell’elaborazione di un linguaggio 
                  di stretta osservanza logico-cartesiana, dove il prevalere dell’impegno 
                  giornalistico aveva condotto Saramago ad una prosa asciutta, 
                  essenziale e descrittiva, nonostante fosse ammorbidita da quel 
                  “realismo fantastico” in grado di dar vita e pensiero 
                  persino agli oggetti. Si pensi – per esempio – ai 
                  sei racconti della raccolta Objecto Quase (“Oggetti 
                  o quasi”, 1978), in cui si può leggere lo splendido 
                  Cadeira (“Sedia”) che descrive, anticipandola, 
                  la caduta per consunzione del regime di Salazar, attraverso 
                  la reale caduta del vecchio dittatore dalla sedia di mogano 
                  che un provvido tarlo, in anni e anni di silenzioso lavoro, 
                  aveva intaccato in una gamba fino all’ultimo morso capitolare. 
                  È questo un linguaggio di fine intensità poetica 
                  (espresso in un ermetismo depistante per sfuggire alla censura 
                  del regime fascista prolungatosi per oltre quarant’anni) 
                  nel quale l’autore riesce ad esprimere la propria critica 
                  sociale, sebbene rimanga impigliato in una logica soggettiva, 
                  in un corpo a corpo che Saramago ingaggia con la dittatura di 
                  Salazar dalle pagine dei giornali in cui scrive e attraverso 
                  le poesie e i racconti che pubblica. Il passaggio ad un linguaggio/azione 
                  corale avverrà, appunto, con la stesura di un romanzo 
                  proletario, Levantado do Chão, affresco collettivo 
                  che racconta la dura e sofferta lotta dei contadini contro il 
                  feudalesimo medievale dei grandi proprietari terrieri dell’Alentejo 
                  – una delle regioni agricole più povere del Portogallo 
                  –, in cui Saramago riuscirà, per la prima volta, 
                  ad esprimersi nel suo inconfondibile stile autodiegetico.
 Infatti Levantado do Chão, oltre ad essere il 
                  romanzo della notorietà, è soprattutto l’opera 
                  che afferma l’inconfondibile “stile orale” 
                  del poeta lusitano, il cui carattere barocco è teso a 
                  registrare l’atmosfera di un insieme di suoni variopinti 
                  di chi ama raccontare, perdendosi nelle pieghe dei dettagli 
                  per poi ritrovarsi ricostituito e compatto in un discorso narrativo 
                  privo d’interruzione, poiché corale. La stessa 
                  visione tipografica della pagina per la sua voluta mancanza 
                  di interpunzione – che non siano le rispettose e umili 
                  virgole e punti – rafforza, ingigantendola, la compattezza 
                  della scrittura sino a farla uscire dalla materialità 
                  bianca della pagina, dandole consistenza vocale.
 La particolarità di questa scrittura orale, ricorda le 
                  pagine celiniane (in particolar modo del Voyage au bout 
                  de la nuit e di Mort à credit), dove l’aposiopesi 
                  – la reticenza nel parlare tradotta su pagina grazie alla 
                  sospensione dei puntini (…) – riesce a ricostruire 
                  perfettamente i tempi propri di un discorso narrato, così 
                  come l’incalzante repentinità delle virgole nel 
                  testo saramaghiano, consente di non dar respiro ad una raccontare 
                  frenetico ed emozionante. Con una profonda diversità, 
                  però. In Celine la vocalità del discorso scritto 
                  è soggettiva e in gran parte introspettiva; in Saramago 
                  non solo è corale, ma addirittura polifonica, poiché 
                  vi confluiscono tutti i suoni dell’atmosfera creatasi 
                  da una determinata situazione, che esige, impone, una scrittura 
                  orale perché pensata e costruita per essere letta, meglio: 
                  raccontata. Infatti, è ascoltandola che la prosa di Saramago 
                  crea quella coralità in grado di far sentire al lettore 
                  il suono polifonico – ancor prima delle immagini – 
                  delle parole dei protagonisti del racconto; parole 
                  che si sovrappongono inseguendosi senza tregua, pur nel nitore 
                  di ogni loro timbrica atmosfera.
 Linguaggio scritto per l’orecchio e non solo per gli occhi, 
                  la prosa dello scrittore lusitano doveva necessariamente oltrepassare 
                  la bravura descrittiva della forma, per sentirne il suono al 
                  suo interno; come se la capacità mostrata fin qui nell’osservare 
                  la realtà sociale del suo Paese gli imponesse di scavare 
                  in profondità sino a raggiungere l’essenza universale 
                  di quella stessa realtà sociale, che – ovunque 
                  e in ogni luogo – è sentita in quanto dolore sordo, 
                  cupo, inquietante.
 Era dunque giunto a maturazione il tempo perché Saramago 
                  scrivesse un “saggio” sulla cecità. Un saggio 
                  – come egli stesso dichiarò nella sua oratoria 
                  di saggezza per il conferimento del Premio Nobel – “per 
                  ricordare ai lettori che usiamo in modo perverso la ragione 
                  quando umiliamo la vita, che la dignità dell’essere 
                  umano è insultata tutti i giorni dai potenti del nostro 
                  mondo, che la menzogna universale ha preso il posto delle verità 
                  plurali, che l’uomo ha smesso di rispettarsi quando ha 
                  perduto il rispetto che doveva al suo simile.”
   Entrare 
                  nella pietra Ensaio sobre a Cegueira è il perfezionamento 
                  dello stile corale della scrittura di Saramago, sviluppato e 
                  proiettato all’interno dell’elemento descrittivo 
                  della narrazione. Se finora l’autore con i suoi precedenti 
                  romanzi – da “Memoriale del convento” (1982), 
                  a “L’anno della morte di Ricardo Reis” (1984), 
                  a “La zattera di pietra (1986), a “Storia dell’assedio 
                  di Lisbona” (1989) – aveva saputo descrivere la 
                  “statua”, ora sentiva il bisogno di far vivere la 
                  “pietra”. Come se – racconterà il poeta 
                  lusitano in occasione del conferimento della laurea honoris 
                  causa attribuitagli dall’Università di Torino 
                  nel 1987 – “mentre componevo tutti quei libri mi 
                  fossi dedicato a descrivere una statua. Ora, che cos’è 
                  una statua? È la superficie della pietra, il risultato 
                  di quanto è stato tolto dalla pietra.” La pietra – si sa – è ciò che rende 
                  possibile la statua. È la sostanza che racchiude in sé 
                  l’essere materia liberatasi nella forma. Descrivere la 
                  forma (la statua) significa anzitutto conoscere la materia (la 
                  pietra) che l’ha resa libera: ciò che è 
                  la statua ancor prima di svelarsi ai nostri occhi. Ed è 
                  questa la tesi espressa da Saramago con il romanzo “Cecità”, 
                  quando, fin dall’incipit narrativo (la repentina ed inesplicabile 
                  cecità che aveva contagiato un intero Paese), sottopone 
                  il lettore all’inquietante considerazione secondo cui 
                  “Il problema non sta nel fatto che tutti quanti diventino 
                  ciechi, quanto nel fatto che già tutti lo siamo.”
 L’azione del romanzo, a detta dell’autore, “si 
                  svolge in una società o in un mondo o in una capitale 
                  del mondo o dovunque vivano gli esseri umani. È un’epidemia 
                  di cecità che copre e oscura tutti gli esseri umani”. 
                  Non è dato capirne il perché, la causa; basti 
                  riflettere sulle conseguenze per comprendere – ci suggerisce 
                  Saramago – che la cecità senza i ciechi, è 
                  una parola priva di senso: non esiste. L’importante è 
                  scoprire che quella cosa che chiamiamo cecità, quella 
                  cosa è dentro di noi… “è quella cosa 
                  è ciò che siamo.”
 Non a caso fin dalla descrizione che ne fa il “primo cieco” 
                  colpito dall’epidemia ( e come lui “la moglie del 
                  primo cieco”, “il medico”, “la ragazza 
                  dagli occhiali scuri”, “il vecchio dalla benda nera”… 
                  perché i ciechi “non hanno bisogno del nome”) 
                  siamo informati che la cecità non è una luce che 
                  si spegne, ma si accende. Una luce illuminante il baratro delle 
                  nostre passioni costantemente contrite e trasformate dalla possibilità/impossibilità 
                  di soddisfare i nostri bisogni, le nostre furie. Una luce bianca, 
                  come un mare lattiginoso, allappante, che sommerge indistintamente 
                  tutti, rendendoci simili gli uni agli altri: “Ciechi che 
                  vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.”
 Come tutte le tragedie, però, anche questa ha una sua 
                  catarsi che anticipa la riacquistata e definitiva possibilità 
                  di vedere, ritornando a vivere come un tempo, quando le immagini 
                  del mondo costituivano l’unica possibile esperienza in 
                  un mondo di sole immagini.
 Anzi, sembra che la fine dell’incubo non sia tanto nel 
                  progressivo, ineludibile ed altrettanto inspiegabile ritorno 
                  al mondo delle immagini in seguito alla scomparsa della cecità 
                  dagli occhi di tutti, quanto piuttosto nel misterioso e impenetrabile 
                  prodigio che ha consentito ad una sola persona, la “moglie 
                  del medico”, di salvarsi dall’epidemia: gli unici 
                  occhi che non hanno mai smesso di vedere, quando tutti gli occhi 
                  del mondo – perfino gli occhi di dio – erano diventati 
                  ciechi.
 Si sa, “in terra di ciechi l’orbo è re.” 
                  Vedere ciò che nessun altro può, rende sicuri, 
                  forti, potenti. Ma anche schiavi. Schiavi di chi non può 
                  vedere… di chi ha bisogno degli occhi di un’altra 
                  persona per vedere…di chi s’illude di vedere… 
                  di chi si nasconde pur di non vedere…. Tutto ciò 
                  diviene insopportabile, non per chi si adatta alla condizione 
                  di cieco, ma per chi si ostina ancora a vedere, accorgendosi 
                  che se non vi sarà nessuno che vorrà/potrà 
                  vedere, a sua volta egli stesso diverrà cieco. A poco 
                  a poco, com’è successo agli altri: “diverrò 
                  sempre più cieca di giorno in giorno – farà 
                  dire Saramago alla “moglie del medico” – perché 
                  non avrò più nessuno che mi veda.”
 Il dramma di chi è costretto a fingersi cieco pur continuando 
                  a vedere – il dramma della “moglie del medico” 
                  – è il dramma di chi ha fatto esperienza di che 
                  cos’è la cecità del mondo: la perdita di 
                  una ragione non più in grado di vedere, sentendola 
                  come propria, la sofferenza, il dolore, l’umiliazione 
                  che l’uomo infligge all’altro uomo.
 Con crudeltà. Una cieca crudeltà per la conquista 
                  del potere. Pure – è la fiduciosa speranza di Saramago 
                  che, infine, affida al “saggio” sulla cecità 
                  – l’umanità si salverà per salvare 
                  chi l’ha aiutata a salvarsi: la “moglie del medico”, 
                  che ha avuto il coraggio di vedere quando tutti erano ciechi, 
                  fingendosi cieca. Per amore del suo uomo. Per amore degli uomini. 
                  Che siano quello che siano.
  
 Serata 
                  di lettura e audizione del romanzo Cecità di 
                  José Saramago, svoltosi lo scorso 14 gennaio al Liceo 
                  Classico di Ischia   Dalla 
                  cecità alla lucidità dell’umanità Proprio questa umanità che si è salvata dalla 
                  cecità, è protagonista dell’ultimo romanzo 
                  di Saramago: Ensaio sobre a Lucidez (“Saggio 
                  sulla lucidità”). Con un’unica differenza: 
                  è un’umanità maggioritaria, non più 
                  generale. Infatti, se la “cecità” è 
                  una condizione che riguarda tutti, perché colpisce tutti, 
                  la “lucidità” interessa i più e conduce 
                  alla preoccupazione, all’inquietudine, i pochi. Quei pochi 
                  – la maggioranza di una minoranza – ancora impegnati 
                  nell’esercizio del potere: far credere di essere necessari 
                  per l’ordine, la sicurezza, la tranquillità, della 
                  società umana. L’andamento musicale – i tempi, i ritmi diegetici 
                  – di quest’ultimo romanzo saramaghiano sono speculari 
                  al precedente saggio. Analizzando, ad esempio l’incipit, 
                  si può osservare quanto l’azione coinvolga non 
                  più una sola persona (“il primo cieco”) per 
                  poi estendersi alla totalità, bensì la maggioranza 
                  dei cittadini che – chiamati al voto – pongono nell’urna 
                  elettorale la scheda bianca, invece di esprimersi a favore di 
                  uno dei partiti in lizza per le elezioni politiche, al punto 
                  da inquietare il Governo democratico e indirizzarlo alla ricerca 
                  del capro espiatorio di una simile e inspiegabile “cecità”.
 Di più: se in Ensaio sobre a Cegueira l’epidemia 
                  – a seguito del suo progredire esponenziale, prima, e 
                  del suo regredire definitivo, poi – segnerà uno 
                  sprofondare nell’abisso dei comportamenti umani da cui 
                  infine riemergere ancora una volta colmi di speranza, in Ensaio 
                  sobre a Lucidez la speranza che qualcosa di nuovo sia accaduto, 
                  al punto che nulla potrà esser più come prima, 
                  accompagna fin dall’inizio il raccontarsi dell’evento 
                  – assumendo marcati e travolgenti effetti comici, (riassumibili, 
                  qui e per brevità, nell’aggettivo “biancoso” 
                  con il quale il governo appella chi si è permesso di 
                  votare scheda bianca in quantità “così eccessiva” 
                  da diventare sovversivo) – ma finirà per spegnersi 
                  drammaticamente quando la necessità di individuare il 
                  responsabile di un simile atto sovversivo che ha saputo organizzare 
                  la maggioranza dei cittadini nel non fare un “uso prudente” 
                  del voto, travolge ogni logica e inonda mortalmente l’intera 
                  umanità, colpendo la “moglie del medico”, 
                  l’unica a vederci allora, al tempo dell’epidemia 
                  di cecità bianca che coinvolse l’intera popolazione 
                  e, pertanto, tutt’ora l’unica rea dell’attuale 
                  cecità che ha condotto la maggioranza a votare scheda 
                  bianca.
 Nel ricollegare questo nuovo “saggio” con il precedente, 
                  è stata preoccupazione di Saramago sondare in profondità 
                  i meccanismi di riproduzione dell’esercizio del potere, 
                  cogliendo diversità e differenze fra il potere dei “ciechi 
                  malvagi”, affermatosi mediante l’utilizzo della 
                  forza della violenza, e il potere del “governo democratico” 
                  che, del tutto sorpreso a seguito dell’uso inappropriato 
                  del voto da parte dei cittadini della capitale, riafferma il 
                  proprio controllo attraverso la pratica violenta della propria 
                  forza.
 Se, infatti, sono i bastoni, ma soprattutto la pistola in mano 
                  al capo dei “ciechi malvagi” ad acclarare il potere 
                  di vita e di morte sulla comunità reclusa nell’ex 
                  manicomio durante il diffondersi – quattro anni prima 
                  – dell’epidemia bianca, ciò che ora assicura 
                  al “governo democratico” il controllo sulla cittadina 
                  posta in stato d’assedio è l’uso violento 
                  della forza messo in atto attraverso l’infiltrazione, 
                  la manipolazione, la repressione, per convincere i suoi cittadini 
                  di esser stati nuovamente contaminati dalla cecità.
 Non per nulla – crediamo – le pagine dei due saggi 
                  saramaghiani su questo tema si cercano reciprocamente, sviluppandosi 
                  in maniera antitetica, grazie a un serrato contrappunto armonico 
                  di fine espressività poetica, tale da dettare una sequenza 
                  temporale dal “serio”, al “grave”, al 
                  “sereno” per quanto concerne Ensaio sobre a 
                  Cegueira, mentre per Ensaio sobre a Lucidez dallo 
                  “scherzo”, al “sereno”, al “tragico”.
 Così, se il percorso narrativo di “Cecità” 
                  giunge agli estremi con una descrizione orrida e orripilante 
                  della presa del potere da parte dei “ciechi malvagi” 
                  che dominano la situazione a suon di minacce, soprusi, violenze, 
                  fino al punto in cui la “moglie del medico” saprà 
                  fare giustizia, l’ultimo romanzo di Saramago percorre 
                  stanze narrative in cui da situazioni burlesche – che 
                  descrivono la difficoltà del “governo democratico” 
                  nel riorganizzarsi per riprendere il controllo di una realtà 
                  sociale ormai autonoma e in grado di autogestirsi – si 
                  perviene a situazioni tragiche dove la necessità di porre 
                  ordine ad uno stato di tranquilla armonia presente all’interno 
                  della cittadina “ribelle”, condurrà il “governo 
                  democratico” ad organizzare il disordine mediante un attentato 
                  terroristico pur di riaffermare il bisogno del proprio ordine.
 Ed è proprio la dicotomia fra la tranquilla quotidianità 
                  di una cittadinanza che semplicemente ha detto “no” 
                  a chi esercita il potere – proseguendo imperturbabilmente 
                  il proprio tran-tran giornaliero, sebbene lo stato d’assedio 
                  prima, l’atto terroristico poi, l’aggressione psicologica 
                  dei media sempre, cerchino in tutti i modi e con tutti i mezzi 
                  di inquietarla ed impaurirla – e la spasmodica preoccupazione 
                  di un governo, seppur democratico, di impedire il diffondersi 
                  della possibilità di esautorare (utilizzando i medesimi 
                  meccanismi elettorali) il sistema rappresentativo dei partiti, 
                  a tessere la narrazione della storia di un substrato analitico 
                  in grado di chiarire i molti lati oscuri, ciechi, del potere.
 Lati oscuri, ciechi, che soltanto la lucidità squarcia 
                  dall’interno per far emergere quanto non possano esistere 
                  “poteri buoni”.
 Per questo Ensaio sobre a Lucidez – come si cerca 
                  e si vuole far credere da parte di una critica disorientata 
                  e da un’editoria allarmata – non è “un 
                  avvincente ‘giallo politico’ in cui ritornano gli 
                  indimenticabili protagonisti di ‘Cecità’”. 
                  È molto di più.
 È un saggio critico sul potere democratico attraverso 
                  l’analisi dei meccanismi che inducono all’obbedienza 
                  e alla rassegnazione partecipative. È un’accusa 
                  – tradotta all’istante in dura condanna – 
                  nei confronti della democrazia in quanto potere proiettato ad 
                  autolegittimarsi come unica, sola, organizzazione sociale che 
                  non accetta nessuna critica, sia pure quella democratica.
 Perché – e José Saramago non può 
                  essere più esplicito, quando per bocca del “commissario” 
                  accusa la “moglie del medico” di aver tramato contro 
                  la democrazia, votando e facendo votare scheda bianca – 
                  “chiunque deve capire che si tratta di una semplice questione 
                  di gerarchia di valori e di senso comune, in primo luogo ci 
                  sono i voti espliciti, poi vengono le schede bianche, poi le 
                  nulle, infine le astensioni, […] la democrazia si troverebbe 
                  in pericolo se una di queste categorie secondarie passasse in 
                  testa alla principale, se i voti ci sono è perché 
                  se ne faccia un uso prudente.”
   …altrimenti 
                  ci arrabbiamo! Ora si può comprendere il crimine di cui è 
                  accusato Saramago, quello che l’ha spinto – come 
                  tutti i criminali – a ritornare sulla scena del 
                  delitto: non esser diventato cieco in un mondo dove tutti lo 
                  sono. Di più: aver svelato le cause della cecità 
                  nella rappresentazione di un potere rappresentativo – 
                  la democrazia – che obnubila la ragione e la prostra dinnanzi 
                  ad un’autorità totalmente priva di autorevolezza, 
                  poiché cooptata all’interno di una maggioranza 
                  composta dalla minoranza degli eletti, preoccupati di autolegittimarsi 
                  unici rappresentanti del potere democratico, senza alcun’altra 
                  qualità se non quella di rigenerarsi continuamente attraverso 
                  il suffragio elettorale. Infatti, poco importa il risultato delle elezioni, ciò 
                  che conta è votare chi bisogna votare. Ma soprattutto 
                  evitare un uso abusivo – seppur legale – del voto. 
                  Altrimenti… altrimenti ci arrabbiamo!
 Tuttavia non è facile liquidare il caso Saramago, limitandosi 
                  ad asserire quanto egli sia sempre stato – nella sua vita 
                  quanto nel suo lavoro – privo di politically-correct, 
                  al punto da essere sospettato un sovversivo, un terrorista, 
                  ponendo così fine a qualsiasi discussione. Perché 
                  trovare un nome a ciò che ci inquieta non serve 
                  a calmarci, come se chiamare morte la morte fosse sufficiente 
                  per non temerla più.
 E poi, Saramago stesso, in più interviste, ha finito 
                  per rivelare il suo sentirsi comunista causato da un fattore 
                  ormonale: “Oltre all’ipofisi, io ho nel cervello 
                  una ghiandola che secerne ragioni affinché io sia stato 
                  e continui a essere comunista. Quelle ragioni le ho trovate, 
                  un giorno, condensate in un motto de “La Sacra Famiglia” 
                  di Marx e Engels: “Se l’uomo è formato dalle 
                  circostanze, bisogna formare le circostanze umanamente. Le circostanze 
                  non le ha formate umanamente il socialismo pervertito, e tanto 
                  meno le formerà mai il capitalismo, che è pervertito 
                  per definizione. Dunque, il mio cervello continua a secernere 
                  ormoni ...”.
 Certo, grazie alla mappatura del genoma, si potrebbe intervenire 
                  con terapia genica, anche se – come sosterrebbe Lewontine 
                  – risulta difficile in campo biotecnologico individuare 
                  il gene portatore di una simile devianza, pena dover classificare 
                  l’intera specie umana…come dire… di natura 
                  comunista. E allora? Allora, forse, non rimane che osservare 
                  quanto Saramago nel suo ultimo “saggio” ha voluto 
                  porre in chiara evidenza: se la cecità può 
                  colpire tutti – in quanto ciechi “già tutti 
                  lo siamo” – allo stesso modo la lucidità 
                  può colpire i più. Perfino i più insospettabili.
 Addirittura il “ministro della giustizia” – 
                  come apprendiamo, sorpresi, in Ensaio sobre a Lucidez 
                  –, che, in pieno consiglio del governo, pose in dubbio 
                  se aver votato scheda bianca da parte della maggioranza dei 
                  cittadini, fosse una manifestazione di cecità o di lucidità. 
                  “Come osa, pronunciare una simile barbarità antidemocratica, 
                  dovrebbe vergognarsi, non sembra neanche un ministro della giustizia, 
                  sbottò quello della difesa, Mi domando se sono mai stato 
                  tanto ministro della giustizia o di giustizia, come in questo 
                  momento, Ancora qualcosina e mi farà credere che ha votato 
                  scheda bianca, osservò il ministro dell’interno 
                  ironicamente, No, non ho votato scheda bianca, ma ci penserò 
                  alla prossima occasione.”
 Inquietante? No, saramaghiano.
  Gianfranco Marelli
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