|  Ricordando Giovanni Raboni
 Cara redazione, 
                 forse non ci crederete (e anch’io mi sono sorpreso nel 
                  pensarlo), ma proprio ieri nella mia quotidiana ricerca poetica, 
                  avevo nuovamente letto alcune poesie di quegli autori che la 
                  critica italiana ha sentenziato essere i “poeti della 
                  vita quotidiana”. Fra questi – oltre a Majorino, 
                  Neri, Cesarano, Rossi – Giovanni Raboni. Lo conobbi personalmente quattro anni fa, in un bar sotto casa 
                  sua, in occasione di un lungo colloquio su Giorgio Cesarano, 
                  il poeta-rivoluzionario per cui allora stavo preparando l’introduzione 
                  alla riedizione del libro “Manuale di sopravvivenza”, 
                  richiestomi dalla Bollati Boringhieri. Fu il primo – e 
                  l’unico – incontro che avemmo (anche se ci promettemmo 
                  di reincontrarci, per il fatto che Raboni rimase sorpreso dal 
                  fatto che non gli avessi minimamente proposto – ogni volta 
                  che avevo occasione di telefonargli – di prestare attenzione 
                  alle mie poesie), tuttavia ricordo la profonda curiosità 
                  e rispetto nei confronti del pensiero libertario e anarchico, 
                  che lui ben conosceva, e che per l’occasione ebbi modo 
                  di parlarne, facendogli conoscere la rivista “ApARTe°” 
                  (allora appena edita) ed il libro di Catanuto e Schirone su 
                  “Canti anarchici”.
 Giovanni 
                  Raboni 
                    Naturalmente il nostro unico incontro era finalizzato a comprendere 
                  come Cesarano si era progressivamente staccato dalla produzione 
                  poetica, abbracciando la critica radicale, e quali erano stati 
                  i loro rapporti amicali e professionali, dal momento che Raboni 
                  aveva in più occasioni collaborato assieme a Cesarano 
                  scrivendo sceneggiati per la RAI (un inciso: la “Freccia 
                  nera”, lo sceneggiato che tanto scandalizzò il 
                  Vaticano per il costume discinto della Goggi, vide all’opera 
                  lo stesso Cesarano che nel ritradurre dall’inglese il 
                  racconto, lo migliorò in alcune sue parti, finendo per 
                  comporne l’omonima canzone). Da sempre amici, Raboni e Cesarano, condividevano in più 
                  la passione sfrenata per il calcio; il primo interista, mentre 
                  l’altro milanista, puntualmente ad ogni derby con i rispettivi 
                  figli andavano a San Siro e lì nasceva una lunga tenzone 
                  che proseguiva con interminabili sfottò. Ma era la poesia 
                  il campo in cui si ritrovavano per riflettere sull’evolversi 
                  di una situazione sociale che dopo il ’68 li aveva visti 
                  prendere posizioni differenti. Con Majorino avevano dato vita 
                  alla rubrica “Questioni di poesia” sulla rivista 
                  “Paragone”, e da allora la loro produzione poetica 
                  era diventata uno strumento per scandagliare la quotidianità.
 Poi, la rottura di Cesarano con l’establishment intellettuale 
                  milanese, uscendo dalla Rizzoli e da tutte le parallele attività. 
                  Con Raboni i contatti continuarono; anzi, Raboni stesso affittò 
                  un casale toscano proprio vicino a quello che Cesarano aveva 
                  acquistato a Pieve di Compito. Entrambi proseguirono, però, 
                  per la propria strada, anche se nell’ultimo periodo (poco 
                  giorni prima del suicidio) Cesarano aveva ripreso con la poesia. 
                  Non per nulla la sua opera poetica fu pubblicata postuma da 
                  Raboni per conto dei “Quaderni della Fenice” dell’editrice 
                  Guanda.
 Di Giovanni Raboni serberò sempre una sua osservazione, 
                  che contribuì a cambiare il mio approccio con la produzione 
                  poetica, nel voler richiedere alla poesia una “riconoscibilità 
                  formale” per ricominciare ad esistere, oltre che nelle 
                  menti e nella volontà dei poeti, anche “nella mente 
                  e nell’orecchio dei lettori”.
 Vi chiedo scusa, per questa lunga “spataffiata”, 
                  ma volevo comunicarvi la mia tristezza per la morte di un poeta.
 Un abbraccio,
   Gianfranco 
                  “Joe” Marelli    La tristissima storia della timbratrice
 Chi ama le poesiole per l’infanzia d’altri tempi 
                  senz’altro conosce una raccolta di versi intitolata “Pierino 
                  Porcospino”. Narra la storia di un bambino, Pierino porcospino 
                  appunto, che compare nell’esordio – oh che schifo 
                  quel bambino, Pierino il porcospino – e che poi nel prosieguo 
                  viene sostituito da numerosi alter ego, accomunati da una vocazione 
                  all’indisciplina e da una irresistibile attrazione verso 
                  la trasgressione delle regole, cosa che li porta, nel breve 
                  volger di qualche strofa, a fare una brutta fine. Così 
                  Corrado che si succhia il pollice viene punito da un sarto mostruoso 
                  che, comparso all’improvviso, gli trancia via di netto 
                  i pollici criminali con il forbicione e il cattivo Federigo, 
                  tormentatore di bestie e nutrice, si becca un gran castigo. 
                  Ma la sorte peggiore tocca all’incauta Paolinetta che, 
                  lasciata in casa da sola, non sta buonina, come le ha raccomandato 
                  la mamma: si mette a giocare con gli zolfanelli, da vera sventata 
                  qual è. Finisce così: un po’ di cenere e 
                  due scarpini/caro ricordo dei suoi piedini/è quel che 
                  resta/non c’è più nulla/di quell’indocile, 
                  vispa, fanciulla.
 Non è poco, come punizione. Insomma “Pierino porcospino” 
                  è una sorta di teatro della crudeltà per bimbetti, 
                  frutto di una pedagogia d’altri tempi, che non temeva 
                  di agitare orrendi babau di fronte agli occhi sgranati dei pargoli 
                  da educare. Tant’è che una volta, volendone io 
                  acquistare una copia in una libreria per ragazzi della mia città 
                  mi sentii rispondere con sdegno che loro, quella cosa lì 
                  non la tenevano. Rinunciai a spiegare alla commessa che le povere 
                  rimette non erano poi tanto pericolose e pensai che a lei era 
                  precluso uno dei molti piaceri che questa valle di lacrime ci 
                  offre – e cioè sentir recitare da Paolo Poli “La 
                  tristissima storia degli zolfanelli”. Non è che 
                  tutto questo abbia molto a che fare con la timbratrice che rileva 
                  le presenze dei ragazzi a scuola, dirà chi legge. E invece 
                  sì, perché anche la timbratrice è un mostro 
                  come le forbici del sartore che punisce esemplarmente il povero 
                  Corrado. Ed è un mostro ugualmente il “patto formativo” 
                  che dovrebbe regolare i rapporti tra studenti e insegnanti; 
                  sono mostruosi il POF e il formalismo burocratico, è 
                  mostruoso il “progetto qualità” e il tentativo 
                  di trasformare la scuola in una azienda che piazza il suo prodotto 
                  sul mercato.
 Ma ogni ragazzino, per quanto impressionabile, sarà anche 
                  pronto a ridere del sartore, e capirà che la punizione 
                  per chi si succhia i pollici non può essere proprio quella, 
                  così esagerata.
 Mentre lo studente che si accinge ad entrare in classe per verificare 
                  se il primo ad infrangere il patto formativo sarà lui 
                  stesso o il suo insegnante, di fronte alla timbratrice rimarrà 
                  impassibile e serio, perché così deve essere nella 
                  scuola dell’autonomia, che è una scuola seria in 
                  cui nessuno ride perché non c’è niente da 
                  ridere. O forse quello studente cederà alla tentazione 
                  ed invece di far passare il codice a barre del suo libretto 
                  delle assenze proporrà al lettore ottico il codice a 
                  barre del detersivo – tanto per sabotare con un’umana 
                  monelleria la scuola-azienda e l’istruzione-merce. E magari 
                  per farsi due risate con il compagno di banco – che quello 
                  ancora non è stato monitorato, non è stato abolito 
                  dalla riforma Moratti e si chiama ancora così, compagno 
                  di banco.
  Giovanna Lo Presti delegata RSU CUB Scuola Itis Peano Torino
    L’ironia di Luigi 
 Poco dopo il ’68 e prima dell’epoca degli anni di 
                  piombo, ci fu un periodo nel quale il movimento anarchico, colpito 
                  dalla repressione nel ’69, oltre a fare la campagna per 
                  la verità contro la mistificazione ed i complotti, sviluppava 
                  un intenso dibattito interno proiettato verso un rinnovamento 
                  culturale e organizzativo.
 L’obiettivo era la ripresa del suo posto nella società, 
                  dal quale era stato estromesso dal fascismo. Insieme quindi 
                  l’impegno antistragista e contro la repressione, l’entusiasmo 
                  e l’energia della militanza volta a creare un mondo migliore. 
                  Furono anche rivolti a temi specifici.
 A Roma il punto di aggregazione era in quell’epoca la 
                  redazione di “Umanità Nova”, in via dei Taurini: 
                  un piccolo appartamento nello stabile in cui venivano stampati 
                  “Paese Sera” e “l’Unità”. 
                  Per la sede del mitico giornale fondato da Malatesta passavano 
                  torrenti di compagni e compagne e vi era un continuo ricircolo 
                  di idee e di discussioni, nonché di tentativi di analisi 
                  volti al superamento della fase involutiva che era iniziata 
                  con la strage del ’69.
 Una sera tra il ’71 ed il ’72 il compagno Luigi 
                  Carlizza venne ad una seduta della redazione collegiale. Saputo 
                  che egli era il medico/compagno con il quale volevo iniziare 
                  un discorso per affrontare in modo anarchico la medicina, gli 
                  chiesi di partecipare al gruppo che si impegnava all’Acquedotto 
                  Felice e di installare un ambulatorio medico. Noi eravamo un 
                  piccolo gruppo di studenti anarchici di Medicina, in progressiva 
                  espulsione da parte del collettivo di Medicina del Manifesto. 
                  Con i suoi occhi pieni di bonomia e di serietà Carlizza 
                  ci parlò con scetticismo, sostenendo che non era quello 
                  il modo di militare, che invece avremmo dovuto trasformare la 
                  Medicina dall’interno, relazionandoci alla riforma sanitaria 
                  per la quale i lavoratori più avvertiti si battevano 
                  da tempo in una ottica di larghe masse. Naturalmente le parole 
                  non furono queste, ma sicuramente il concetto.
 Esauritasi la fase del collettivo il Manifesto, nel quale non 
                  c’era ovviamente posto per gli anarchici e terminata la 
                  fase del volontarismo presso l’Acquedotto Felice (che 
                  non è da sottovalutare perché rappresentò 
                  un embrione di intervento popolare), iniziò un dialogo 
                  con Luigi per “rivitalizzare” (così ci si 
                  esprimeva allora) l’anarchismo attraverso lo studio del 
                  sistema sanitario , la pubblicazione di articoli sul tema e 
                  la formulazione di proposte da portare nei gruppi della FAI 
                  per l’azione militante.
 Tra chi si batteva da anni per la riforma sanitaria e per il 
                  superamento del sistema mutualistico e chi invece voleva far 
                  incidere le sue idee anche nella futura professione, si sviluppò 
                  un impegnativo dibattito i cui risultati apparenti furono davvero 
                  pochini, se si fa riferimento a qualche articolo comparso su 
                  “Umanità Nova” e su altra stampa, ma la cui 
                  sostanza fu davvero fondamentale.
 Forse neppure se ne rendeva conto, tanto era il suo rigore, 
                  che si faceva scudo di una certa ritrosia di carattere e che 
                  lo faceva ripetere di scrivere chiaro, semplice come Malatesta 
                  aveva scritto Al Caffè. Obiettivo abbastanza difficile 
                  sia per la assoluta sproporzione tra il Maestro e noi giovani 
                  militanti sia perché allora imperava il sinistrese, dal 
                  quale tutti (chi più chi meno) eravamo affetti. Ne conseguivano 
                  stroncature terrificanti agli articoli che gli proponevo e continue 
                  riscritture e rielaborazione dei concetti per raggiungere quella 
                  massima chiarezza e limpidezza che era il suo ideale di pubblicistica 
                  anarchica.
 Ma insieme alle discussioni sui temi sanitari si parlava del 
                  gradualismo malatestiano, quale originale tentativo di “tenere 
                  assieme” la tensione rivoluzionaria con una pratica non 
                  ingessata dall’ideologia; del Congresso di Carrara del 
                  1965, che aveva portato alla scissione dalla Federazione Anarchica 
                  Italiana (FAI) dei Gruppi d’Iniziativa Anarchica (GIA) 
                  che ne contestavano le scelte organizzative); dell’esperienza 
                  “neomarxista” dei Gruppi Anarchici d’Azione 
                  Proletaria (GAAP) alla quale aveva partecipato quasi una ventina 
                  di anni prima.
 Mi ricordo che Luigi mi regalò l’opuscolo degli 
                  atti del Congresso di Pontedecimo. quello che nel 1951 aveva 
                  segnato il passaggio dai Gruppi Anarchici di Azione Proletaria 
                  al leninismo di Lotta Comunista).
 Sull’opera costruttiva della Rivoluzione Spagnola era 
                  uscito in quei tempi il libro di Gaston Leval, che trattava 
                  anche delle straordinarie esperienze degli anarcosindacalisti 
                  spagnoli nel campo della sanità. Io ne fui entusiasta, 
                  Luigi meno, perché probabilmente le riteneva improponibili 
                  in Italia in quell’epoca storica. Io e la mia compagna 
                  abbiamo avuto l’inestimabile esperienza di percepire dall’interno 
                  l’esperienza ed il vissuto di tanti anni di anarchismo 
                  dal secondo dopoguerra in avanti.
 Una sola volta lo vidi veramente abbattuto e profondamente arrabbiato 
                  e fu quando ci giunse la notizia che il nostro compagno Franco 
                  Serantini era stato barbaramente ucciso, a Pisa. Era l’inizio 
                  di maggio del 1972. Sapeva tuttavia nascondere la sofferenza 
                  ed il dolore e, a parte quella sera terribile e tenebrosa, non 
                  ne parlò più.
 Luigi non credeva che il fascismo fosse il principale problema, 
                  temeva molto di più l’avvento ed il consolidamento 
                  della tecnoburocrazia rossa. Perciò stimava molto i compagni 
                  di Milano raccolti intorno ad “A” (e successivamente 
                  anche al Centro studi libertari “Pinelli”) che per 
                  primi avevano iniziato ad affrontare lo studio di questa nuova 
                  classe a partire dalle geniali diagnosi e profezie bakuniniane. 
                  Luigi mi prestava da leggere il Bipartitismo imperfetto 
                  di Giorgio Galli, un libro sul socialismo libertario di Andrea 
                  Caffi edito da Azione Comune, testi sulla riforma sanitaria 
                  e sulla mortalità infantile. A testimonianza di quanto 
                  fosse vasto e innovatore il suo pensiero.
 Fui accolto con cordialità e con affetto nella sua famiglia 
                  e vidi crescere i suoi figli in quel profondo calore che si 
                  irradiava da una vita malatestianamente vissuta, un valore che 
                  si è sedimentato negli anni e che ha dato i suoi frutti 
                  di resistenza quando il declino sociale degli anni ’80 
                  sembrava negare qualsiasi possibilità di rinascita dell’anarchismo 
                  sociale.
 Un calore umano ed una profonda umanità la sua, una spontaneità 
                  vivacissima dei suoi figli, una cordialità profonda dei 
                  suoi famigliari, che nel ricordo assumono i caratteri mitici 
                  di un’epoca nella quale stava rinascendo l’anarchismo 
                  politico ed umano come testimonianza di vita.
 Oggi che l’anarchismo ha conquistato nella società 
                  riconoscimento culturale e politico, che viene considerato come 
                  uno dei tanti filoni del movimento operaio e popolare del 900, 
                  che non lascia indifferenti e che non suscita più diffidenza 
                  o superficiale antipatia, è difficile ritornare con la 
                  mente a quei tempi e capire come allora l’anarchismo non 
                  disponesse che di pochi militanti seri e consapevoli che avevano 
                  ben chiare le differenze ontologiche con il marxismo, come non 
                  attraesse gli intellettuali, come in una parola si fosse suo 
                  malgrado allontanato dalla società.
 Forse per questo Luigi ci teneva a dire che ci si batteva per 
                  la rivoluzione sociale attraverso il gradualismo, che per lui 
                  implicava la partecipazione alla nascita ed allo sviluppo della 
                  riforma sanitaria.
 
 Luigi 
                  Carlizza, “ammanettato” al figlio Francesco “Fricche” 
                  Per quanto riguarda il dibattito teorico all’interno 
                  del movimento anarchico, Luigi – che aveva vissuto in 
                  prima persona e con passione l’esperienza “marxista” 
                  e ultra-organizzatrice dei GAAP vent’anni prima – 
                  era fortemente polemico con l’archinovismo e 
                  il piattaformismo, cioè con quella tendenza 
                  verso un movimento tendenzialmente omogeneo e rigidamente strutturato. 
                  Proprio in quegli anni Luigi tornò alla militanza attiva, 
                  attraverso la creazione e lo sviluppo con altri compagni (alcuni 
                  della sua età) del gruppo Roma Centro, attraverso la 
                  comunanza ideale con alcuni suoi compagni di gioventù 
                  (come Pier Carlo Masini).
 Alcune sere d’estate, quando la canicola scemava temporaneamente, 
                  ci vedevamo talvolta con Luigi e con Ugo Scattoni, il fratello 
                  di Umberto Scattoni (compagno di Bandiera Rossa trucidato alle 
                  Fosse Ardeatine); discutevamo con molta partecipazione emotiva 
                  e con impegno della Spagna, del sindacalismo, del movimento 
                  anarchico del dopoguerra, dell’esperienza neomarxista 
                  dei GAAP cui avevano dato origine Luigi, Ugo Scattoni, Pier 
                  Carlo Masini ed altri ancora.
 Furono anni di intensi confronti tra la sua critica radicale 
                  al piattaformismo e la mia maggiore attenzione nel 
                  cogliere le ragioni di fondo del piattaformismo, quale 
                  risposta al fallimento dell’anarchismo in Russia, pur 
                  senza aderirvi. Convenimmo che il Programma dell’Unione 
                  Anarchica Italiana scritto da Malatesta nel 1920 fosse 
                  il migliore e che dovesse essere calato nella concretezza della 
                  realtà, che certo non presentava il momento rivoluzionario 
                  nel cui contesto quel Programma era nato.
 Questo impegno noi lo cercammo, come dicevo, anche nella ricerca 
                  della definizione di un’organizzazione sanitaria popolare, 
                  da dibattere all’interno del movimento e da portare avanti 
                  come tesi e proposte operative nei gruppi. Frequentavo almeno 
                  una volta alla settimana la sua famiglia e ho visto crescere 
                  i suoi figli. Ricordo che durante il movimento del ’77 
                  raccomandai ad uno di loro di stare attento ai pericoli insiti 
                  in un impegno personale troppo intenso: temevo per la sua stessa 
                  vita.
 Questo impegno Luigi lo cercò nel gruppo Roma Centro 
                  ed a quell’epoca, negli anni ’80, il nostro sodalizio 
                  politico, salvo che per qualche incontro, si interruppe, mentre 
                  non si interruppe il senso della nostra profonda amicizia. La 
                  ricerca del lavoro e il lavoro in quanto tale mi presero molto 
                  e quando mi giunse la notizia della sua morte provai un grande 
                  dolore: dolore che in parte fu attenuato successivamente dalla 
                  lettura degli articoli su “Umanità Nova” 
                  di suo figlio Francesco (noto come “Fricche”), nei 
                  quali ho ritrovato l’ironia di Luigi. È comparso 
                  anche un bellissimo articolo su Luigi nel volume che venne pubblicato 
                  a Carrara in occasione del monumento a Bresci e riscontrai con 
                  piacere che a Luigi venivano attribuite quelle qualità 
                  che io avevo rilevato.
  Enrico Calandri
 |