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 Bologna, 1971, i portici 
                  dell’Università, occupata, in via Zamboni. Fra 
                  i soliti capannelli dei compagni dei gruppi e gruppuscoli che 
                  formano il variegato movimento studentesco, passano di mano 
                  in mano giornali e riviste: i quaderni di Potere Operaio, 
                  Lotta Continua, il mensile del Manifesto, 
                  il bolognese La Classe. Qualcuno mostra, con grande 
                  sprezzo del ridicolo, perfino Servire il popolo. Umanità 
                  Nova non è certo fra i più diffusi, forse 
                  sconta il taglio poco “classista” allora così 
                  in voga, forse alcuni anarchici, come il sottoscritto, scontano 
                  la loro confusione ideologica e la loro infatuazione per l’operaismo. 
                  Sta di fatto che la nostra stampa, come si suol dire, latita. 
                  All’ingresso della facoltà di Lettere, affollata 
                  come sempre, si avvicendano i diffusori di questi giornali, 
                  ogni giorno c’è qualcosa di nuovo da leggere o 
                  commentare, ogni giorno i pochi soldi a disposizione escono 
                  dalle tasche per “sostenere” la stampa rivoluzionaria. 
                  Non starò a dire che mi mancava drammaticamente un giornale 
                  anarchico “all’altezza” (e non me ne vogliano 
                  i compagni che allora redigevano Umanità Nova 
                  se, nei miei ricordi, il settimanale della FAI stentava a tenere 
                  il passo con la nuova stampa del movimento), resta il fatto, 
                  però, che chi mi conosceva mi considerava pur sempre 
                  un anarchico, anche se avevo interrotto l’attività 
                  con gli anarchici, per cui sentivo, in un certo senso, il peso 
                  “morale” di un anarchismo che non riusciva ad esprimere 
                  un giornale in grado di rispecchiare e interpretare con più 
                  “modernità” lo spirito e le tensioni del 
                  tempo. Ebbene, ne fui certo allora e ne sono ancora più 
                  convinto oggi, l’uscita di A-Rivista Anarchica 
                  riuscì, e con bella spavalderia, a colmare lo scarto 
                  fra “noi” e “loro”. Quando, infatti, 
                  vidi le prime copie nelle mani di un compagno che ne strillava 
                  il nome nell’atrio della facoltà, mi resi conto 
                  che la perdita di terreno che l’anarchismo aveva marcato 
                  dopo l’ondata del mitico sessantotto, forse, poteva essere 
                  arginata. E il paradosso, forse involontariamente situazionista, 
                  era che questa apertura al nuovo si esprimeva nella prima pagina 
                  del primo numero con quella bella frase, così ottocentesca, 
                  di Pierre-Joseph Proudhon: «Essere governato significa 
                  essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto...». 
                  Leggo la rivista dal primo numero, non ne ho mai saltata una 
                  copia, e per questo, come è d’uso durante le premiazioni 
                  aziendali ai dipendenti anziani, potrei anche meritare una medaglia 
                  o un cipollone con catena, fosse pure di legno. In più 
                  riprese, allora e tuttora, ho contribuito e contribuisco a diffonderla, 
                  vi collaboro regolarmente da alcuni anni, in altri tempi la 
                  redazione ha pubblicato una qualche mia lettera o un occasionale 
                  contributo. Penso comunque che il mio rapporto con la rivista, 
                  a parte l’aspetto dell’assiduità che, ahimè, 
                  mi conferisce il privilegio dell’età, sia sostanzialmente 
                  simile a quello degli altri compagni. Uno strumento, soprattutto, 
                  uno strumento di discussione e di dibattito, una finestra sulle 
                  tematiche che ci interessano, una possibilità in più 
                  di dialogare con i compagni e con la società. Ma anche 
                  con noi stessi. Uno strumento che ha accompagnato la nostra 
                  presenza in tutte le fasi di quella profonda evoluzione, sociale 
                  ed esistenziale, che ha segnato il passaggio fra novecento e 
                  nuovo millennio. E che di quella evoluzione si è fatto 
                  testimone anche nella profonda evoluzione intellettuale dei 
                  suoi redattori. Uno strumento a volte lineare e prevedibile, 
                  a volte contraddittorio e spiazzante, come si conviene a un 
                  foglio che fa dell’affermazione della libertà, 
                  della piena libertà, la sua ragione d’essere. Come 
                  tanti altri compagni, nel confrontarmi con le pagine della rivista, 
                  con i suoi numerosi collaboratori, con le sue rubriche ed i 
                  suoi “esperti”, mi sono imbattuto, e a volte scontrato, 
                  con la ricchezza e la eterodossa diversità che caratterizza 
                  il nostro movimento, ritrovandovi le ragioni e le radici del 
                  nostro inesauribile, contraddittorio e fecondo dibattere.
 
  Più di trent’anni della storia del movimento 
                  anarchico, dunque, accompagnati puntualmente dalla Rivista. 
                  Trent’anni di avventure, di iniziative, di lotte, di vittorie 
                  e sconfitte scandite e riflesse, anche, sulle colonne di A, 
                  testimone puntuale di tutto ciò che si è mosso 
                  dentro e intorno al nostro movimento. Coi suoi amici, e con 
                  i suoi “nemici”, specchio fedele e privilegiato 
                  dell’anarchismo di lingua italiana. Se è impossibile 
                  pensare a questa rivista, al suo ruolo e alla sua necessità, 
                  senza l’esistenza parallela dell’anarchismo in lotta 
                  e in azione, così, per altri aspetti, è parimenti 
                  impossibile pensare alle vicende del movimento anarchico, alle 
                  nostre vicende di militanti e protagonisti di lunghi anni di 
                  impegno e intervento, senza la parallela presenza della rivista. 
                  Senza questo ininterrotto, puntuale e prezioso strumento di 
                  informazione, di analisi, di approfondimento, di cronache, di 
                  contatti, di proposte. È, il nostro, un movimento privo di forme di rappresentanza 
                  che non siano quelle che si esprimono e manifestano su un piano 
                  orizzontale. Un movimento estraneo a una rappresentanza codificata 
                  e ingessata dentro alle istituzioni e ai suoi strumenti, e che 
                  individua i mezzi per comunicare e relazionarsi solo nell’attività 
                  diretta della sua pratica quotidiana di lotta contro il potere. 
                  E tutto ciò anche e soprattutto tramite la carta stampata, 
                  megafono e centro di raccolta delle sue “informazioni”, 
                  espressione di un lavoro collettivo e di un collettivo sentire.
 Il rapporto fra gli anarchici e i loro “giornali” 
                  è una costante, la costante simbiosi fra il movimento 
                  che agisce e le redazioni che delle azioni e delle idee dei 
                  loro compagni fanno un insostituibile strumento di propaganda, 
                  di diffusione, di elaborazione, di invasione in quel corpo sociale 
                  al quale fanno riferimento. Non si può immaginare una 
                  storia dell’anarchismo senza la storia dei suoi giornali, 
                  dei suoi fogli, delle sue riviste. Non si può immaginare 
                  la storia del nostro anarchismo, dell’anarchismo che conosciamo 
                  oggi, senza Umanità Nova, o Sicilia Libertaria, 
                  o Volontà, o L’Internazionale... 
                  o senza A-Rivista Anarchica.
 E ne va riconosciuto il merito a chi allora iniziò questa 
                  avventura, ai redattori e ai loro collaboratori, che tuttora 
                  permettono che la rivista continui a increspare le acque del 
                  conformismo e a parlarci di libertà.
  Massimo Ortalli
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