| Degenerazione autoritaria
 di Andrea Papi
 Ringrazio Cosimo per le questioni che pone suscitate dal mio 
                  articolo e lo saluto caramente. Quando è autenticamente 
                  motivata da un sincero confronto di idee ed argomentazioni, 
                  la polemica è sempre ricchezza ed aiuta tutti coloro 
                  che vi sono coinvolti in un processo di comprensione che, quando 
                  si vuole, diventa fondamentale per definire come e cosa si debba 
                  e si voglia fare. E qui mi sembra che ci siamo in pieno. Ma veniamo a ciò che c’interessa. Premetto innanzitutto 
                  che concordo con Cosimo che il problema di quella che considero 
                  una degenerazione autoritaria e burocratica della questione 
                  sindacale, sottolineando per parte mia la prevalenza del carattere 
                  autoritario, sia più complessa delle questioni da me 
                  poste, alle quali però, pur essendone consapevole, siccome 
                  le ritengo centrali, ho scelto arbitrariamente di dar loro una 
                  preminenza, senza per questo considerare le altre meno importanti. 
                  Forse avrei dovuto dichiararlo e di ciò mi scuso. Condivido 
                  pure tutta la giustezza degli esempi e delle considerazioni 
                  che egli pone riguardo alle diverse situazioni internazionali 
                  cui fa cenno, che mi sono apparse motivate e valutate in modo 
                  consono ed adeguato.
 Ciò di cui m’interessava discutere però 
                  è altro, anche se del tutto connesso a questi argomenti. 
                  Innanzitutto, essendo partito dalle ultime clamorose lotte degli 
                  autoferrotranvieri, egemonizzate dalle proposte dei sindacati 
                  di base italiani, le mie considerazioni si sono riferite principalmente 
                  alla situazione specifica italiana e volutamente non mi sono 
                  addentrato in un excursus internazionale, se non per qualche 
                  cenno del tutto secondario. Tenendo presente in specifico questa 
                  territorialità, ho così cercato di approfondire 
                  un punto in particolare che ritengo centrale rispetto alla questione 
                  della degenerazione sindacale: l’ingerenza sempre più 
                  pressante dell’ideologia e della pratica partitiche all’interno 
                  delle strutture del movimento operaio, il quale, ne sono fermamente 
                  convinto, dovrebbe trovare, o ri-trovare in modo aggiornato 
                  ed attuale, l’originario spirito autonomo per cui si fece 
                  consapevole e l’originaria spinta, sempre autonoma, di 
                  difesa e imposizione dei propri diritti attraverso le lotte, 
                  scrollandosi di dosso l’inquinamento della politica militante, 
                  determinante oggi più che mai nel far risaltare gli elementi 
                  conservativi.
   Processo esasperato ed irreversibile Rivendico la considerazione che la visione strumentale teorizzata 
                  da Lenin, nota come Cinghia di trasmissione, a un certo 
                  punto, abbia esasperato e reso irreversibile il processo in 
                  atto di colonizzazione, ideologico e politico insieme, già 
                  comunque pienamente presente per conto delle diverse forze socialiste 
                  e repubblicane, come ho sottolineato nell’articolo. Tale 
                  visione, forse aspettata, per gli attivisti partitici fu occasione 
                  succulenta per innestare nelle strutture sindacali già 
                  presenti un’ulteriore consapevolezza e volontà 
                  di occupazione ed uso a fini strategici. Nei partiti leninisti 
                  per tentare di condurre in porto l’occupazione del potere 
                  da parte del partito bolscevico, per altre forze politiche e 
                  padronali, all’inverso, per tentare l’ingerenza 
                  e la gestione impropria nel e del movimento operaio, con lo 
                  scopo d’imbonirlo e di dirigerlo, ognuno per i propri 
                  scopi. La qual cosa, forse perché il terreno era fertile in 
                  tal senso, in breve tempo forgiò, e al contempo fece 
                  si che si mantenessero, un insieme di approcci, di mentalità 
                  e di atteggiamenti psicologici atti a rendere salda tale occupazione. 
                  Non a caso, da parte degli attivisti sindacali più impegnati, 
                  che nella maggioranza dei casi erano e sono sempre impegnati 
                  anche su versanti specificatamente politici o partitici, le 
                  organizzazioni dei lavoratori sono state e vengono viste e vissute 
                  come luoghi prioritari per la ginnastica e l’azione della 
                  lotta politica, cui si continua a pensare che debbano servire.
 Il fatto di sottolineare, come continuo a rivendicare, che la 
                  teorizzazione leninista fornì e permise di applicare 
                  nei fatti una base altamente giustificativa e, agli occhi degli 
                  attivisti, nobilitante, per strumentalizzare a fini propri il 
                  movimento operaio, non vuol dire e nei fatti non comportò, 
                  che ci sia stata dovunque un’egemonia indiscussa del leninismo 
                  e che il processo innestato da tale occupazione sia dovunque 
                  risultato incontrastato e vincente. L’applicazione di 
                  una teorizzazione è sempre foriera di imprevisti, contraddizioni, 
                  incidenti in itinere e necessità di correzioni. Ciò 
                  che però ritengo fondamentale, e nell’articolo 
                  mi sembra che risulti, non è tanto come tale impatto 
                  si sia realizzato, quanto quali deleterie dinamiche relazionali, 
                  atteggiamenti psicologici e giustificazioni d’intenti, 
                  più o meno limpidi, fu in grado d’innestare, inquinando 
                  e nel tempo deteriorando l’azione di difesa e di autorganizzazione 
                  per cui il movimento operaio prese forma.
 Un danno collaterale, non minore per importanza, è rappresentato 
                  dal fatto che la Cinghia di trasmissione è stata 
                  capace d’inserire come un cuneo la logica e le tensioni 
                  legate all’ideologia della lotta di classe. Trattata e 
                  proposta frequentemente in modo poco ortodosso o scorretto, 
                  se non addirittura osteggiata, sposta ed è stata comunque 
                  capace di spostare l’attenzione su un problema squisitamente 
                  ideologico. Idealisticamente è sorretta da una lettura 
                  aprioristica della realtà. Impone cioè una visione 
                  secondo cui le lotte operaie debbano essere finalizzate alla 
                  prevalenza ed all’egemonia della classe operaia, o comunque 
                  che il problema operaio, in quanto inerente ad una categoria 
                  socioeconomica di riferimento supposta prevalente, sia o debba 
                  essere il problema più rilevante attorno al quale ruota 
                  e debba ruotare l’insieme delle lotte per l’emancipazione 
                  sociale. Non, per esempio, che l’emancipazione riguardi 
                  invece l’insieme della società, in una logica ed 
                  in una tensione di superamento della divisione in classi, dove 
                  la visione di riferimento non sia più legata alla logica 
                  della prevalenza della struttura economica, com’è 
                  secondo la dottrina di classe, ma al contrario al superamento 
                  ed all’eliminazione di tutte le strutture di potere, sia 
                  economiche sia politiche.
 Non sto a ripetermi. Lo stesso Cosimo del resto nella sua gradita 
                  polemica asserisce e promette che della lotta di classe, come 
                  sulle prospettive del sindacalismo di base, giustamente, vi 
                  sarà tempo e modo di tornare.
  Andrea Papi
 
 Battaglia anticoncertativa
 di Gino Caraffi
 Carissimo Cosimo, ho letto il tuo lavoro sulla burocrazia sindacale…, il 
                  tuo pezzo mi lascia un po’ perplesso, perché affronta 
                  il problema della burocrazia come se fossimo all’inizio 
                  del secolo scorso.
 Come tu sai non sono un teorico del sindacalismo, ti voglio 
                  quindi porre alcune domande, sia sull’impegno sindacale, 
                  che sul ruolo degli anarchici impegnati in questo “scivolosissimo” 
                  terreno che è la lotta di classe.
 Come tu forse saprai io, ed altri compagni di Reggio Emilia, 
                  abbiamo scelto di “rientrare” in CGIL, in modo particolare 
                  nella FIOM, in quanto abbiamo ritenuto importante partecipare 
                  a quella che riteniamo l’ultima battaglia anticoncertativa 
                  possibile.
 Come mai gli anarchici non riconoscono un ruolo alla FIOM-CGIL 
                  in questa fase? Forse i lavoratori che si ribellano sotto le 
                  sue bandiere non sono degni di attenzione?
 Siamo sicuri che tutti i compagni abbiano chiaramente compreso 
                  la composizione di classe in questo paese, e per ciò 
                  che mi riguarda nella media industria metalmeccanica?
 Questo ed altri quesiti vorrei porre alla tua attenzione, la 
                  differenza tra ciò che io penso e/o vorrei ha uno scarto 
                  troppo grande con quella che è la realtà di classe 
                  in cui lavoro, quindi prima ancora di interrogarmi sul senso 
                  del sindacalismo libertario mi è indispensabile creare 
                  momenti di socialità e di condivisione minima tra i lavoratori, 
                  oggi più inclini al leghismo padano che ad ogni ipotesi 
                  solidaristica, e, rispetto alla burocrazia, è inevitabile 
                  che ci si doti strutturalmente di funzionari e di sedi, perché 
                  come tu ben sai noi operai tra le altre cose dobbiamo anche 
                  lavorare, quindi lascio queste “pippe” ai filosofi 
                  ed agli esteti di un anarchismo che ha sempre meno a che fare 
                  con la lotta di classe, o forse solamente con me.
 Ciao
  Gino Caraffi
 
  Anomalia sindacale di Cosimo Scarinzi
 Caro Gino, se ti prendessi alla lettera e credessi che mi stai “ponendo 
                  delle domande” mi preoccuperei un po’. Non mi troverei, 
                  infatti, troppo a mio agio nel ruolo di dispensatore di buoni 
                  consigli e parole di conforto ai compagni impegnati sul terreno 
                  della lotta di classe. D’altro canto, senza che vi sia 
                  alcun disprezzo per la filosofia e per l’estetica, sai 
                  bene che la mia principale attività è quella sindacale 
                  e che ne vivo tutte le contraddizioni ma anche la ricchezza 
                  di esperienze e di percorsi.
 In realtà, le tue domande sono già affermazioni 
                  sin troppo chiare. Proverò a dirti la mia in maniera 
                  il più schematico possibile.
 Tu ti domandi come mai i compagni non guardino con maggior interesse 
                  all’attuale percorso della FIOM. Vi è già 
                  un modo singolare di porre il problema. Chi sono, infatti, i 
                  compagni? Non siamo forse io, tu ed altri che esprimono posizioni 
                  e valutazioni a volte convergenti ed a volte divergenti? E chi 
                  ci impedisce di ragionare sul percorso della FIOM? Io, per parte 
                  mia, ne ragiono, mi è capitato di scriverne, guardo con 
                  attenzione a quanto avviene in casa CGIL e non credo di essere 
                  il solo.
 Detto ciò, sulla FIOM tu esprimi un giudizio politico 
                  ed io un altro ed altri compagni ne avranno di ancora diversi. 
                  È su questo giudizio che varrebbe la pena di misurarsi.
 E se è di questo che parliamo, è evidente che 
                  quando affermo che la FIOM esprime un’anomalia nel quadro 
                  sindacale istituzionale ma anche che questa anomalia, nonostante 
                  i fatti di Melfi di questi giorni, non è assolutamente 
                  antesignana di una rottura radicale con la concertazione guardo 
                  a dei fatti precisi quali il comportamento del corpo intermedio 
                  di questo sindacato nella conduzione delle vertenze aziendali, 
                  comportamento assai meno radicale di quanto si possa intendere 
                  leggendo gli interessanti interventi di Cremaschi.
 Io ritengo, fra l’altro, che la pressione della maggioranza 
                  della CGIL, per non parlare di CISL e UIL, sia arrivare a mettere 
                  in riga la dirigenza giacobina della FIOM. Posso sbagliare, 
                  naturalmente, mi è già capitato di sbagliare ma, 
                  per ragioni che non ho il tempo di sviluppare, questo è 
                  il mio attuale convincimento.
 Poniamo, però, che la CGIL nel suo insieme persegua in 
                  una svolta a sinistra, già ampiamente rientrata, per 
                  la verità, che si è manifestata con l’avvento 
                  della destra al governo.
 Avremmo, in questo caso, un sindacato fortemente burocratizzato 
                  e verticista ma “duro”.
  Critica radicale
 Tu 
                  fai rilevare che i lavoratori, non lo avrei immaginato, lavorano 
                  e che è impensabile che dedichino in numero consistente 
                  il loro tempo libero alla vita del sindacato. Ne sono sin troppo 
                  consapevole e te lo concedo serenamente. Ma la scommessa che 
                  noi facciamo, quella che ci ha portato alla critica radicale 
                  dello sfruttamento e del dominio statale, è proprio quella 
                  che le persone normali, non qualche superuomo anarchico, possano 
                  sviluppare pratiche sociali volte alla propria emancipazione 
                  e che solo sviluppandole possano cambiare, in misura maggiore 
                  o minore, la situazione presente. Questa posizione è straordinariamente impopolare al momento 
                  e sostenendola finiamo per trovarci in minoranza ed essere in 
                  minoranza, per chi non abbia attitudini élitiste, e io 
                  non ne coltivo, non è gradevole. D’altro canto 
                  se, per essere in accordo con la maggioranza, dovessi entrare 
                  in disaccordo con me stesso non ne avrei gran giovamento.
 Liquidare, quindi, la questione della burocrazia come una necessità 
                  è certamente ragionevole ma di una ragionevolezza che 
                  rischia di essere subalterna. Se pensiamo che la burocratizzazione 
                  del sindacato non è un problema, che non si possa nemmeno 
                  ipotizzare un sindacalismo libertario si può certo scegliere 
                  di stare nel sindacato più robusto ma sarebbe forse più 
                  consequenziale non fare sindacalismo se non nella limitata misura 
                  in cui si occupano di sindacato gli altri lavoratori “che 
                  lavorano”.
 In estrema sintesi, la nostra discussione è paradossale 
                  perché entrambi vediamo il conflitto industriale come 
                  il momento centrale di ogni possibilità di trasformazione 
                  radicale del mondo ed entrambi guardiamo criticamente all’anarchismo 
                  dei compagni che eludono lo scontro di classe.
 Io penso, però, che la scelta di altri compagni abbia 
                  delle ragioni che magari non mi convincono e che qualche volta 
                  mi fanno persino innervosire ma che non sono prive di fondamento.
 Ti farò dei casi concreti, io conosco, a Torino, dei 
                  giovani compagni operai molto bravi da diversi punti di vista. 
                  Questi compagni tendono, la cosa può piacermi o meno 
                  ma è così, a sviluppare pratiche di rottura non 
                  a partire dal loro lavorare in fabbrica ma attraverso la costruzione 
                  di aggregazioni fuori dal luogo di lavoro. Per dirla tutta, 
                  ritengono magari che non valga la pena di aggiungere all’oppressione 
                  del lavoro salariato la dura fatica della militanza sindacale. 
                  Visto che un essere umano vive una sola vita e che cerca di 
                  trarne il maggior piacere possibile, ritengo che la loro scelta, 
                  che è disastrosa per il rafforzamento di una robusta 
                  corrente sindacale libertaria, non sia irragionevole.
 Tu mi dirai che non ti riferivi a compagni come quelli dei quali 
                  parlo io ma a persone che, avendo una solida formazione politica, 
                  assumono posizioni di indifferenza rispetto alla lotta sindacale. 
                  D’altro canto, per parte mia, ritengo che il problema 
                  dei militanti sindacali libertari non è quello di convertire 
                  al sindacalismo gli anarchici ma, casomai, di avvicinare, attraverso 
                  la loro pratica sindacale, i lavoratori più combattivi 
                  con i quali entrano in relazione alle idee libertarie.
 Per ora mi fermo
 Fraterni saluti
  Cosimo Scarinzi
 
 “Sabaudamente gufesco”
 di Dario l’autoflagellante
 Forse semplifico troppo brutalmente, ma se per modello libertario 
                  di organizzazione intendi, e si intende, un’organizzazione 
                  priva di apparati burocratici, ovvero di distaccati, ovvero 
                  di quella “minoranza di funzionari e militanti” 
                  a cui i lavoratori sono “più che disponibili a 
                  delegare le funzioni organizzative”, non vedo come questa 
                  sia realizzabile. Insomma, se dobbiamo sillogizzare la tua analisi, dato che non 
                  si dà sindacato senza lavoratori e dato che i lavoratori 
                  vogliono delegare, non si dà sindacato senza delegati.
 A meno da non cambiare le esigenze e le disponibilità 
                  dei lavoratori. Allora è questo che va “argomentato, 
                  dimostrato, verificato sul campo”? A me pare questo un 
                  obiettivo che a definire titanico si violenta il concetto di 
                  eufemismo. Per come percepisco io la vita e la politica nel 
                  loro complesso, quanto va argomentato, dimostrato e verificato 
                  è più o meno sintetizzabile come segue:
 
				  Che si possono modificare i rapporti di forza fra lavoratori 
                  e padronato (ivi compresa l’amministrazione pubblica) 
                  Che il singolo lavoratore ha la possibilità di incidere 
                  nel gioco sia come componente collettiva in una manifestazione 
                  o nel computo degli aderenti ad uno sciopero, sia, soprattutto, 
                  per la propria iniziativa individuale 
                  Che tutto ciò vale davvero la pena, ovvero che il tempo 
                  e le energie sottratti alla vita famigliare o più generalmente 
                  “privata” portano 
                  
				  ad un miglioramento delle condizioni altrui (posizione straordinariamente 
                  altruistica); 
                  oppure ad un di più di felicità individuale (posizione 
                  normalmente egoistica); 
                      piuttosto alle due cose insieme (posizione “politica”, 
                        la più equilibrata). 
                     Per quanto mi guardo attorno, almeno negli ambienti di lavoro 
                  che conosco (autoferro e metalmeccanici saranno forse un’altra 
                  faccenda), non avverto la disponibilità ad accogliere 
                  tesi di questo genere: in molti casi si ha la percezione che, 
                  per quanto si faccia, il mostro è invincibile e persino 
                  inattaccabile; se poi si ritiene che qualcosa si possa fare, 
                  l’azione non può che inserirsi in un’iniziativa 
                  che muova i grandi numeri (lo sciopero unitario!); ad un livello 
                  ulteriore, si è disposti ad un moderato impegno, ma a 
                  patto che il prezzo non sia troppo alto, non già – 
                  o non sempre – per ingenerosità, ma piuttosto perché 
                  non si crede che davvero valga la pena (e allora intervengono 
                  altri moventi che vanno dal senso del dovere ai rapporti personali 
                  e di amicizia a strane forme autolesionistiche – scherzo, 
                  ma non troppo). E tutto sommato non mi sembra che la realtà dei fatti 
                  e dei conflitti deponga a nostro favore.
 Un’ultima nota: io forse apparirò sabaudamente 
                  gufesco, ma hai fatto caso che il tuo ragionamento porta ad 
                  un modello di sindacato di “tutti militanti” che 
                  già si profilava in alcune sconsolate riflessioni del 
                  nostro Gufo guforum (hai presente?), e, sia pur con toni diversi, 
                  neanche tu riesci a concretizzare una proposta finale.
 Spero di essere smentito.
  Dario l’autoflagellante
 P.s.: a proposito della disponibilità di tempo ed energie, 
                  mi ci è voluto un periodo di mutua per indurmi a scrivere 
                  questa pagina.  
 Rete di relazioni sociali
 di Cosimo Scarinzi
 Caro 
                  Dario, le tue riflessioni hanno il fastidioso pregio di essere una 
                  limpida e sintetica descrizione del normale rapporto fra lavoratori 
                  come individui atomizzati e organizzazioni del movimento operaio 
                  e, a rigore, sistema sociale generale.
 Evitiamo, innanzitutto, un equivoco, io non penso ad un sindacato 
                  di militanti, un aggregato del genere sarebbe un collettivo 
                  politico ed è buon uso chiamare le cose con il loro nome.
 Proporrei, per venire a quanto rilevi, un approccio al problema 
                  parzialmente diverso. È innegabile che nella società 
                  attuale si è determinato, semplifico molto ma è 
                  necessario, un modello di relazioni sociali fondato sullo scambio 
                  dal punto di vista economico e sulla normazione burocratica 
                  della vita quotidiana dal punto di vista politico. Questo sistema 
                  di relazioni si manifesta, inoltre, come complessificazione 
                  dei problemi e come conseguente crescita della specializzazione 
                  dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro.
 Se assumiamo, ed è ragionevole farlo, che l’attività 
                  di un sindacato è, propriamente parlando, un lavoro, 
                  ne consegue che questo lavoro tenderà a seguire le “regole 
                  del gioco” pena l’inefficienza e la marginalizzazione.
 D’altro canto, e questo non implica un’opzione militante 
                  in senso stretto, il sindacato è o, almeno, può 
                  essere un’associazione intesa propriamente come una rete 
                  di relazioni sociali fondate, magari parzialmente, sulla condivisione 
                  di alcuni valori generali, sulla solidarietà, sull’identificazione 
                  in un soggetto collettivo.
 Questo ragionamento vale, in qualche misura anche per i sindacati 
                  istituzionali o, almeno, per la parte meno integrata nelle istituzione 
                  di questi sindacati. Non potremmo, infatti, spiegarci la tenuta, 
                  per fare un esempio oggi dinanzi agli occhi di tutti, della 
                  FIOM se non sapessimo che vi sono donne ed uomini che le dedicano 
                  lavoro volontario, impegno, passione e, in molti casi, il sacrificio 
                  di legittimi interessi personali.
 Se assumiamo che un sindacato, anche un sindacato fortemente 
                  istituzionale, è vitale solo se sa suscitare identità, 
                  ne consegue che questo aspetto della vita sindacale non è 
                  l’aspettativa di un mondo migliore ma qualcosa che, in 
                  qualche misura, già esiste. Naturalmente vi sono sindacati 
                  che riducono la loro attività alla pura tutela legale 
                  degli iscritti, allo scambio clientelare o quasi ma non sono 
                  gli unici sindacati possibili ed, anzi, è evidente che 
                  la loro consistenza dal punto di vista del numero degli iscritti 
                  non corrisponde a un peso reale quando si sviluppa il conflitto 
                  sindacale. Per usare una vecchia battuta, gli iscritti non si 
                  contano ma si pesano.
 Ora, a me sembra, che la nostra esperienza sindacale funzioni, 
                  quando funziona, perché, in qualche misura, sa suscitare 
                  la tensione associativa alla quale facevo cenno ed è, 
                  assai imperfettamente, anche un rete di relazioni sociali.
 Per concludere, mi sembra che tu faccia un’ottima fotografia 
                  della realtà quotidiana ma che serva anche porre l’accento 
                  sul fattore tempo, sullo svolgersi delle situazioni, per restare 
                  alla metafora un film e so che sei appassionato 
                  di cinema.
 In fondo, il senso profondo di un’esperienza sindacale 
                  si coglie appieno nei momenti di conflitto aperto, i momenti 
                  nel quale se ne può valutare appieno l’utilità 
                  e la tenuta.
 Stammiti bene
  Cosimo il fustigatore di masochisti
 Struttura leggera di Walker
 Per quanto riguarda il sindacato, nella sua accezione più 
                  generale possibile di struttura permanente volta alla difesa 
                  degli interessi, più o meno immediati, di classe, ho 
                  maturato ormai una posizione che non fa di me l'interlocutore 
                  ideale per una discussione sui limiti e le caratteristiche della 
                  sua “burocrazia” (nei termini in cui la intende 
                  Cosimo). Ritengo, cioè, che un luogo fisico (fornito 
                  del minimo di attrezzature tecniche ormai necessarie: telefono, 
                  fotocopiatrice, fax e computer) dove riunirsi e un buon avvocato 
                  siano tutto quello che serve ad organizzare una difesa sindacale 
                  da parte di gruppi di lavoratori in lotta (resta e non trascurabile 
                  il problema di chi pagherebbe tutto ciò, ma fin che siamo 
                  sul piano di una discussione “astratta” di questo 
                  possiamo non curarci). Detto questo penso, sullo specifico del 
                  sindacalismo di base, poche e banali cose. La prima è 
                  che il funzionariato permanente è ormai una iattura necessaria; 
                  la seconda è che se è una iattura, allora bisognerebbe 
                  eliminarla, costi, quello che costi; la terza è che il 
                  ruolo dei militanti libertari e anarchici fortemente impegnati 
                  sul terreno sindacale (e nelle strutture sindacali) è 
                  gravoso ai limiti dell'insostenibilità, questione che 
                  dunque non è risolvibile se non sul piano delle loro 
                  scelte personali di coerenza e di conseguenza; la quarta ed 
                  ultima, è che, per fortuna, non abbiamo né un 
                  partito, né una strategia di fondo condivisa, che ci 
                  impongano scelte unitarie e nemmeno, forse, coordinate. Di ciò, 
                  spero, un giorno l'umanità ci renderà merito. 
                  Walker
 Organizzazioni stabili
 di Cosimo Scarinzi
 Caro Walker, mi sbalordisce il fatto che proprio tu, il gufo imperiale, ipotizzi, 
                  sospetto per burla, che l’umanità ci possa rendere 
                  merito di qualsivoglia nostra scelta.
 Detto ciò, due brevi considerazioni:
 
 
                  la struttura leggera che ipotizzi, se è stabile, 
                    pone, e lo riconosci tu stesso, la questione di chi pagherebbe. 
                    Per quanto si voglia ragionare “in astratto” bisogna 
                    evitare la cattiva astrazione. Per assurdo, ti seguo nel tuo 
                    ragionamento, la delega ad un avvocato della dimensione vertenziale 
                    è più subalterna all’esistente rispetto 
                    alla gestione sindacale. L’ipotesi funzionerebbe solo 
                    e nella misura in cui pensassimo a dei collettivi politici 
                    fondati sull’impegno volontario di un certo numero di 
                    compagni; 
                  è chiaro che se non si ritiene possibile o desiderabile 
                    l’esistenza di organizzazioni stabili dei lavoratori 
                    il problema delle derive burocratiche si risolve in radice. 
                    Ma è appunto la possibilità e desiderabilità 
                    di organizzazioni di questo genere il problema che, magari 
                    sbagliando, ritengo opportuno porre. 
                 Sono 
                  sostanzialmente d’accordo sul fatto che non è possibile, 
                  visti i caratteri contingenti e storici, del movimento anarchico 
                  che non siano ipotizzabili scelte unitarie o, peggio, uniche 
                  sulla questione sindacale. Lasciami pensare che se fossero almeno 
                  coordinate, nel senso di un confronto sulle questioni di merito 
                  e sulle prospettive, sarebbe un fatto positivo. Fraterni saluti
  Cosimo
 
 Battaglia
 anti-gerarchica
 di Claudio Strambi
 Mi sembra un fatto riconosciuto da tutti i partecipanti al 
                  dibattito sulla burocrazia sindacale (cominciato con l’articolo 
                  di Cosimo) che la tendenza alla burocratizzazione sia una delle 
                  tendenze spontanee di ogni organizzazione permanente dei lavoratori, 
                  tendenza che si accentua man mano che ci si allontana da cicli 
                  di lotte particolari come può esser stato quello del 
                  ‘68-‘73. Su questo non posso che convenire essendo 
                  difficilmente opinabile, per chiunque abbia frequentato il movimento 
                  operaio sia sui libri che nella pratica reale. Tuttavia voglio rilevare che non a caso ho detto “una” 
                  delle tendenze spontanee e non “la” tendenza spontanea 
                  perché altrimenti dovrei convincermi sulla inutilità 
                  di ogni ipotesi di sindacalismo tendenzialmente libertario.
 Anche in una congiuntura come quella attuale, non certo ricca 
                  di anelito autogestionario tra i lavoratori, vi sono sempre 
                  controtendenze interessanti che legittimano lo sforzo anti-autoritario 
                  ed una possibile visione in progress della costruzione di un 
                  movimento operaio che tenti di sfuggire dal puro riflesso del 
                  modello statale che gli si pone davanti.
 Da questo punto di vista trovo assai di cattivo gusto che il 
                  mio amico e compagno Gino Caraffi definisca “pippe” 
                  da filosofi ed esteti la battaglia anti-burocratica (sarebbe 
                  più corretto dire la battaglia anti-gerarchica). Voglio 
                  ricordare che se è vero che esiste, e me ne dolgo anch’io, 
                  un anarchismo che ha sempre meno a che fare con la lotta di 
                  classe, è anche vero che esiste anche un modo di concepire 
                  la lotta di classe che ha poco a che fare con l’anarchismo. 
                  E per me pari sono.
 In secondo luogo non credo affatto ininfluente nel determinarsi 
                  del fenomeno della gerarchizzazione del movimento operaio la 
                  cultura politica di chi si trova alla testa del movimento.
 Se RdB è così irrimediabilmente “Monarchica”, 
                  mentre pezzi della CUB o dello SLAI Cobas lo sono meno è 
                  anche perché i secondi soggetti che ho elencato non sono 
                  mai stati confederati ai sindacati di Stato delle Monarchie 
                  Rosse dell’est europeo.
 Fatte queste due sintetiche precisazioni penso che bisogna distinguere 
                  tra la necessità oggettiva per un sindacato di avere 
                  una certa quantità di lavoro retribuito ed il modo centralista 
                  e autoritario di articolare questo lavoro retribuito.
 Il ruolo dei libertari deve essere non solo quello di cercare 
                  di allargare il più possibile nelle condizioni date il 
                  lavoro volontario rispetto al lavoro retribuito (distacchi e 
                  permessi), ma anche quello di dotarsi di un vero e proprio programma 
                  politico di gestione del lavoro retribuito da portare in ogni 
                  ambito sindacale dove si interviene.
 Vengo quindi a sintetizzare alcune indicazioni di massima per 
                  la costruzione di un modello anti-burocratico ed anti-gerarchico, 
                  essendo ben cosciente di non dire niente di particolarmente 
                  originale:
 
                  consigli direttivi non eletti in blocco ai congressi, bensì 
                  delegati eletti direttamente dalle realtà locali o categoriali 
                  e da queste continuamente revocabili; 
                  comitati esecutivi che abbiano un qualche criterio di rotazione; 
                  distribuzione più larga possibile dei permessi tra gli 
                  attivi e preferenza dei permessi rispetto ai distacchi; sì a forme controllate di semi-professionismo (distacchi 
                  a non + del 50%), no al professionismo puro (se si ha bisogno 
                  di 1 distaccato se ne fa 2 al 50%), oppure quando non evitabile 
                  professionismo puro con rapida rotazione;
definizione di un tempo massimo entro cui il distaccato deve 
                  comunque tornare a lavorare, senza passare da un incarico retribuito 
                  ad un altro come invece avviene; 
                  netta prevalenza dei distacchi rispetto al funzionariato o se 
                  si preferisce distribuzione ampia dei distacchi sui livelli 
                  decentrati dell’organizzazione (pochi funzionari a Roma 
                  e molti semi-distaccati in periferia); 
                  federalismo-solidale nella gestione delle risorse economiche 
                  dell’organizzazione. 
                   Se si pensa che queste sono “pippe” allora non 
                  si capisce perché dobbiamo sudare sette camicie a tenere 
                  in piedi giornali, sedi, memoria storica, quando il panorama 
                  è pieno di possibilità politiche meno “onanistiche”. 
                  Claudio Strambi
   Burocrati di tutto il mondo unitevi
 di Gino Caraffi
 Mi dispiace che Claudio non abbia colto la mia provocazione 
                  sulla burocrazia, o forse non la ha colta per intero. Quando iniziammo (ormai 15 anni fa) a costruire le prime strutture 
                  sindacali di base, COBAS, FLMU, UNICOBAS, ecc. vi era all’interno 
                  dell’anarchismo organizzato un dibattito che rintracciava 
                  nella necessità di dotarci di una nuova organizzazione 
                  sindacale un punto dirimente per il rilancio della lotta di 
                  classe, vi era l’USI, da alcuni anni impegnata nella creazione 
                  e nel consolidamento della propria organizzazione, tra l’altro 
                  l’unica senza funzionari.
 I compagni in modo significativo rivolsero la propria attenzione 
                  verso la CUB, nata dal processo confederativo della FLMU di 
                  Tiboni ed altri funzionari che si “erano ritrovati tra 
                  le mani” un po’ di soldi della FIM CISL milanese, 
                  e le RDB, già presenti nel pubblico impiego con funzionari 
                  distaccati ed una discreta rete di militanti.
 Come si vede il sindacalismo di base nasce ”burocratico”, 
                  ma penso che l’interesse dei lavoratori verso queste nuove 
                  esperienze (nuove per l’epoca) sia stato soprattutto per 
                  l’opposizione dimostrata da questo nuovo soggetto contro 
                  la riforma delle pensioni, contro lo smantellamento dell’industria 
                  statale dei primi anni novanta, per un sindacalismo democratico 
                  che ricollocava i lavoratori al centro nelle funzioni decisionali, 
                  contro quindi la politica concertativa che altri burocrati portavano 
                  avanti sulle nostre teste.
 Quanto premesso per dire che non solo le strutture sindacali 
                  subiscono una deriva burocratica, ma che questo tipo di concezione 
                  sindacale nasce burocraticamente.
 Questo non è però a mio avviso il limite del sindacalismo 
                  di base, il limite che viviamo è e resta quello imposto 
                  dal capitale, in alcuni paesi non esiste il sindacalismo di 
                  base, e la situazione dei lavoratori è tragica, in altri 
                  paesi non esistono sindacati, e la situazione dei lavoratori 
                  è tragica, vi sono paesi dove esistono organizzazioni 
                  sindacali governative, dove i lavoratori sono sotto la soglia 
                  di povertà, mi riesce difficile di questi tempi discutere 
                  della burocrazia sindacale come se fosse il male maggiore ed 
                  il limite maggiore che un sindacalista si trova ad affrontare.
 Sarei più propenso a discutere delle nuove forme del 
                  conflitto sociale, di sindacalismo conflittuale, anche perché 
                  continuo a pensare che il compito dei libertari nel sindacato 
                  sia quello di ricostruire una cultura di classe, di tessere 
                  relazioni tra lavoratori, ricordandogli anche i mali della burocrazia, 
                  ma soprattutto ricordargli il suo stato di sfruttati, dentro 
                  e fuori i luoghi di lavoro, il dare troppa importanza al lato 
                  burocratico del sindacato non si tramuta in nuova consapevolezza, 
                  o almeno non necessariamente da parte dei lavoratori.
 Mi sembra riduttivo per altro limitare la presenza degli anarchici 
                  nel sindacato con l’assunzione dell’antiburocrazia 
                  come tratto qualificante, evidentemente Claudio nel suo intervento 
                  si è dimenticato di dire che vi sono differenti modi 
                  di concepire e di “fare” la lotta di classe, la 
                  contaminazione libertaria può avvenire su differenti 
                  livelli, nelle lotte, nelle proposte, nella condivisione di 
                  vittorie o di sconfitte, difficilmente i lavoratori faranno 
                  la rivoluzione partendo da una rivolta antiburocratica, al limite 
                  la attraverserebbero.
 La costruzione di un’identità libertaria del movimento 
                  dei lavoratori passa ancora attraverso a ciò che sapremo 
                  mettere in campo, oggi, perché io continuo a pensare 
                  che siano state regioni storiche e sociali a determinare la 
                  forza della CNT Spagnola nel”36, e non la critica antiburocratica.
 In Colombia burocrati sindacali o aspiranti tali vengono sistematicamente 
                  assassinati dal governo, in questo senso continuo a pensare 
                  che un dibattito sulla burocrazia sindacale interessi piuttosto 
                  qualche compagno desideroso d’approfondimento teorico, 
                  e che la questione posta oggi in questi termini non porti da 
                  nessuna parte, pippe per l’appunto.
 Ciao
  Gino
 Critica alla burocrazia sindacale
 di Cosimo Scarinzi
 Caro 
                  Gino, sebbene i tuoi appunti siano rivolti principalmente a Claudio, 
                  mi permetto di risponderti su di un punto che ritengo rilevante 
                  anche perché può dare adito ad equivoci.
 Come lo stesso Claudio segnalava nel suo intervento, la nostra 
                  critica alla burocrazia sindacale è, in realtà, 
                  un aspetto della nostra lotta antigerarchica, lotta che conduciamo, 
                  con ogni evidenza, non solo né principalmente nel sindacato.
 La questione dei distaccati sindacali, in particolare, non può 
                  essere affrontata in maniera semplicistica non solo perché 
                  dobbiamo fare i conti con la, relativa, necessità di 
                  un lavoro sindacale continuo e minuzioso che difficilmente può 
                  essere svolto tutto da volontari ma anche perché sarebbe 
                  sciocco ed ingiusto presentare i distaccati, io, al momento 
                  lo sono, come “topi nel formaggio” per stare alla 
                  metafora di Monatte che citavo nel mio articolo.
 Per mia esperienza diretta, i distaccati CUB che conosco hanno 
                  spesso affrontato seri sacrifici personali, del gruppo FIM CISL 
                  che, all’inizio degli anni ‘90, diede vita all’esperienza 
                  della FLMU la maggior parte dei distaccati tornò in produzione 
                  e quelli che restarono distaccati vissero, e vivono, l’esperienza 
                  di saltare lo stipendio, di averne comunque uno inferiore a 
                  quello che avrebbero altrove ecc..
 Il problema che stiamo discutendo è, a mio avviso, un 
                  altro o, almeno, dovrebbe essere un altro. Si tratta, partendo 
                  dalla consapevolezza che la questione della burocrazia è 
                  significativa, oggettivamente, per il lavoratori sempre ma che 
                  si pone esplicitamente solo in momenti particolari di ragionarne 
                  a fondo.
 Ora, il punto è che l’apparato sindacale, qualsiasi 
                  apparato sindacale ha interessi propri assolutamente normali. 
                  Questi interessi possono, ed è la norma per l’apparato 
                  dei sindacati di stato, essere non solo diversi ma configgenti 
                  con quelli dei lavoratori.
 Basta, a questo proposito, guardare gli accordi e i contratti 
                  che scambiano reddito e diritti dei lavoratori con garanzie 
                  per l’apparato. Insisto su un punto, sebbene, a fini propagandistici, 
                  sia assolutamente corretto denunciare il carattere scandaloso 
                  di accordi del genere – basta pensare, per fare un paio 
                  esempi, alle trattenute per gli enti bilaterali che vengono 
                  imposte ai lavoratori del commercio o allo scambio fra taglio 
                  delle pensioni e accesso dell’apparato sindacale alla 
                  gestione dei fondi pensione – a livello analitico deve 
                  essere assolutamente chiaro che i sindacati concertativi fanno 
                  queste scelte perché è nella loro natura sociale.
 Ritengo per, provvisoriamente, concludere assolutamente evidente 
                  che i lavoratori o, meglio, gruppi consistenti di lavoratori 
                  maturano una critica antiburocratica quando entrano in movimento, 
                  quando costruiscono nella lotta contro lo sfruttamento legami 
                  sociali che permettono un, problematico e magari effimero, superamento 
                  dell’atomizzazione che è la prima caratteristica 
                  della condizione proletaria “normale”.
 D’altro canto, i militanti sindacali libertari, che io 
                  sappia, non riducono certo la loro attività alla critica 
                  della burocrazia sindacale né ne fanno un’attività 
                  specialistica che sarebbe decisamente singolare.
 La nostra attività quotidiana consiste, come è 
                  ovvio che sia, nell’organizzazione della resistenza e 
                  della lotta allo sfruttamento capitalistico e statale.
 L’attenzione alle pratiche di autorganizzazione, alla 
                  dimensione federalistica, alla critica antigerarchiche sono, 
                  però, un carattere specifico della nostra azione che 
                  non può essere liquidata come una fuga dalla realtà 
                  a meno di non assumere che lo stesso sindacalismo libertario 
                  è una fuga dalla realtà.
 Fraternamente
  Cosimo
  
 Culture organizzative diverse
 di Pietro Stara
 Credo che l’intervento di Cosimo sul percorso che ha 
                  portato alla formazione di una robusta burocrazia all’interno 
                  delle strutture sindacali di base sia fondamentalmente corretto. 
                  Alle sue osservazione vorrei, però, aggiungere due considerazioni, 
                  la prima estensiva/critica di un punto elaborato da lui ed una 
                  seconda a se stante. La prima riguarda il punto relativo all’incremento delle 
                  funzioni relative alla consulenza: Cosimo afferma che questo 
                  apparato burocratico si è formato, in parte, per rispondere 
                  a delle esigenze concrete che ogni lavoratore pone nei confronti 
                  di una struttura sindacale: lettura buste paga, tutela legale, 
                  malattia etc. Se questo è un dato di fatto, occorre però 
                  chiedersi il perché ad una struttura sindacale vengano 
                  sempre più richieste prestazioni consulenziali e meno 
                  di lotta.
 La via giudiziaria al socialismo, anarchica o comunista poco 
                  importa in questo caso, è frutto di alcuni aspetti che 
                  si sono tra loro sovrapposti e che hanno marciato parallelamente 
                  nel corso degli ultimi venti anni:
 
                  La riduzione sensibile delle mobilitazioni sui posti di lavoro 
                  e del lavoro politico-sindacale che inevitabilmente faceva da 
                  contraltare al dispiegarsi delle lotte. Il sindacalismo, da 
                  questo punto di vista, ha subito lo stesso smacco, anche se 
                  in forma diversa, della politica militante. 
                  L’atomizzazione delle forme contrattuali (contratti a 
                  progetto, somministrazione, interinali…) che ha agito 
                  nel duplice senso di rottura ideologica e psicologica dell’unità 
                  di classe ed ha favorito il processo di delega delle rappresentanza. 
                  L’atomizzazione individuale, vera vittoria di un modello 
                  politico culturale del liberalismo di marca ottocentesca, da 
                  non confondere con il nostro (anarchico) individualismo socializzante 
                  e solidale. 
                  L’interiorizzazione della “specializzazione professionale” 
                  come processo di delega. Anche qui la politica, che ne ha preceduto 
                  i tempi, ma anche la cultura, l’organizzazione del tempo 
                  libero, la socializzazione in senso lato sono stati affidati, 
                  per essere completamente alienati dal popolo, a dei professionisti. 
                  Il sindacalismo anche in questo non è da meno. 
                  La violenza dell’attacco politico padronale che ha generato 
                  una sorta di ricerca individualizzata dei percorsi di sopravvivenza 
                  alle condizioni date ed imposte. 
                   Penso che allora, se ciò corrisponde al vero, o parzialmente 
                  ad esso, che non si possa parlare di una singola burocrazia 
                  all’interno dei sindacati di base, ma di almeno due. La prima è quella tecnica, dei patronati, dei CAF, dei 
                  consulenti o degli avvocati, insomma degli specialisti del mestiere, 
                  che possono, a seconda delle volte usare queste conoscenze per 
                  contrattare del potere gestionale, dei soldi, o del potere politico.
 La seconda è quella politica, dirigenziale, di governo 
                  interno: in alcuni casi questa burocrazia detiene anche una 
                  profonda conoscenza dei meccanismi legislativo – vertenziali, 
                  ma quello che di essa ne fa la forza è soprattutto la 
                  capacità gestionale – relazionale, il presenzialismo 
                  totale (retribuito), la capacità politica e la formazione 
                  politica. Da ultimo, come in ogni organizzazione che si rispetti, 
                  è anche il controllo del flusso di denaro, proveniente 
                  dai vari servizi e dalle tessere che fa di questo ristretto 
                  gruppo un organismo dirigenziale come per qualsiasi altra azienda 
                  di produzione. Questo significa conseguentemente che colui che 
                  ha un ruolo decisionale all’interno del sindacalismo di 
                  base sia necessariamente un burocrate? Solo date le condizioni 
                  precedenti: la burocratizzazione può passare tranquillamente 
                  attraverso un processo di consolidamento della base militante, 
                  a volte storica, e non necessariamente al contrario.
 La seconda osservazione riguarda un tema che dovrebbe essere 
                  approfondito per ogni organizzazione del sindacalismo di base 
                  e attiene la o le “culture organizzative”. All’interno 
                  del sindacalismo di base si sedimentano, crescono, si compongono 
                  e confliggono diverse culture organizzative, che rispondono 
                  in parte alle diverse culture sindacali e politiche di provenienza. 
                  Per alcuni, e non sempre a torto per capirci, soltanto un’organizzazione 
                  fortemente centralizzata è in grado di rispondere agli 
                  attacchi padronali, perché concentra al meglio la forza 
                  conflittuale in una struttura politicamente e sindacalmente 
                  disciplinata. Peccato che questo modello porti con sé 
                  una bella dose di autoritarismo, di verticismo, di personalismi 
                  ed una formazione burocratica a cascata, formata da vassalli, 
                  valvassori e valvassini. D’altro canto i sostenitori (come 
                  me) del federalismo organizzativo vanno spesso incontro a strutture 
                  sindacali deboli, molto confuse, dove un’altra burocrazia, 
                  locale, magari più subdola, dove gli incarichi si sovrappongono 
                  a gestioni personalistiche del potere, si somma all’inefficacia 
                  delle politiche di lotta. Sulla burocrazia occorre quindi ragionarci, 
                  ma in maniera non banale e non convenzionale ed è soltanto 
                  un bene che su questo tema possa aprirsi un dibattito aperto.
 Per ora mi fermo qui.
  Pietro Stara
  
 Punto d’arrivo e d’arresto delle lotte
 di Simone Bisacca
 Caro Cosimo, proprio perché faccio di mestiere l’avvocato del 
                  lavoro, ripeto in tutte le occasioni possibili che non credo 
                  esista “la via giudiziaria alla rivoluzione”. Credo 
                  che il ricorso all’autorità giudiziaria nel conflitto 
                  tra capitale e lavoro dovrebbe essere ponderato e diffido della 
                  giuridicizzazione del conflitto sociale. Diciamo, brutalmente, 
                  che quando un lavoratore o, peggio, un sindacato, va dall’avvocato, 
                  ha già perso. Ha già perso perché ricorre 
                  al diritto e all’apparato statale preposto all’applicazione 
                  del diritto. I rapporti sociali sono rapporti di forza; nel 
                  diritto questi rapporti possono in un dato momento storico cristallizzarsi 
                  e il diritto, il diritto del lavoro in particolare, ha costituito 
                  nella nostra esperienza storica (parlo dell’Italia repubblicana) 
                  un punto di arrivo e di arresto delle lotte, da un lato; dall’altro, 
                  la riaffermazione del dominio del capitale sul lavoro. Per capirsi: 
                  lo statuto dei lavoratori del 1970 è stata una conquista 
                  che ha portato a compimento il disegno costituzionale dell’esercizio 
                  dei diritti liberali anche sul posto di lavoro (non solo nella 
                  società): diritto di opinione, di associazione, di riunione, 
                  non discriminazione per sesso, opinioni politiche, appartenenza 
                  sindacale, ecc. Ma la legge 300/70 viene dopo una stagione di 
                  lotte tutte svolte senza alcuna protezione legale, tutte basate 
                  solo sulla capacità di imporre all’avversario le 
                  proprie condizioni. Con lo statuto dei lavoratori assistiamo 
                  al riconoscimento in fabbrica degli stessi diritti che ogni 
                  cittadino ha nella società: e quindi al riconoscimento 
                  degli stessi diritti formali (l’ipocrita: la legge 
                  è uguale per tutti; sappiamo che non tutti sono 
                  uguali, nel senso che non tutti soggiacciono alla legge: il 
                  potere vero delle leggi se ne frega). Si assiste ad 
                  una formalizzazione del conflitto sociale, nel senso che vengono 
                  dettate regole per lo svolgimento del conflitto (cos’è 
                  l’art. 28 dello statuto?) o per i soggetti legittimati 
                  a trattare e a rappresentare i lavoratori (cosa significa la 
                  maggiore rappresentatività che consente di avere 
                  RSA, diritto di assemblea, di contributi sindacali, ecc.?).
   Art. 18, un deterrente Certo tutto ciò è una conquista, chi sputa sull’art. 
                  18 dello statuto che ha impedito negli anni che tanti lavoratori 
                  combattivi non perdessero il posto? Al di là dell’applicazione 
                  pratica, l’art. 18 è stato e resta un deterrente. 
                  Ricordiamoci che dopo e insieme allo statuto dei lavoratori 
                  vengono negli anni ’70 la legge sul divorzio, sull’obiezione 
                  di coscienza al servizio militare, la riforma fiscale del ’73, 
                  la riforma del diritto di famiglia del ’75, i decreti 
                  delegati nella scuola, la riforma dell’ordinamento carcerario, 
                  la legge sull’equo canone del ’78, la legge sull’aborto 
                  dello stesso anno. Sicuramente dimentico qualcosa, ma vedi quante 
                  energie sono state spese dal movimento dei lavoratori per conquistare 
                  diritti liberali e quante lotte si siano giocate sul piano della 
                  produzione legislativa? Lo stato sociale è stato conquistato 
                  attraverso lotte, ma giacché le leggi le fa la maggioranza 
                  temporanea in parlamento, quando la maggioranza in parlamento 
                  è cambiata, in assenza di un forte contropotere nella 
                  società, è iniziata la lenta demolizione di quelle 
                  leggi, fino ad arrivare alla legge 30/2003, la famigerata riforma 
                  Biagi, che ha fotografato lo stato dei rapporti tra le 
                  classi e la supremazia del capitale sul lavoro. La legge 
                  Biagi non è stata promulgata da una maggioranza 
                  al soldo del capitale per indebolire la classe lavoratrice; 
                  piuttosto, è stata promulgata perché la classe 
                  lavoratrice è talmente debole che non è stata 
                  in grado di impedirne la promulgazione. E perché lo stato 
                  sociale è stato demolito pezzo a pezzo dagli ultimi governi 
                  dell’Ulivo e dal governo Berlusconi? Perché potevano 
                  permetterselo: nessuno si è messo di traverso. Sorge 
                  il dubbio che il difetto stia nel manico, cioè che l’ipotesi 
                  socialista (in senso lato) e cattolica di accesso delle masse 
                  alla partecipazione democratica, al potere, sia una trappola 
                  che priva di nerbo la classe lavoratrice: gli unici a prendere 
                  sul serio in Italia in questi ultimi cinquant’anni la 
                  democrazia sono stati proprio i lavoratori e le loro organizzazioni 
                  partitiche e sindacali. Cosa si ritrovano in mano? La difesa 
                  di quei diritti liberali di cui il capitale fa volentieri, e 
                  appena può, a meno. La democrazia è un gioco a 
                  cui solo i lavoratori hanno davvero giocato: gli altri ne fanno 
                  a meno, possono alla bisogna mettere bombe nelle banche, nelle 
                  piazze, sui treni, quando sono sulla difensiva; possono imporre 
                  le loro leggi quando hanno la maggioranza in parlamento. E quando, 
                  come oggi, il potere passa attraverso il controllo e la gestione 
                  di produzione di immaginario (la mitica comunicazione) 
                  che fa la classe lavoratrice se non subire i modelli culturali 
                  del padrone? Incapace di produrre un senso proprio, cioè 
                  modelli di vita altri, la classe lavoratrice non può 
                  che subire. Chi non immagina il futuro, non può gestire 
                  il presente. Perché non ha un progetto un disegno un 
                  filo, per uscirne, non ha una rotta e quindi non può 
                  prendere il timone. Il sindacalismo alternativo mi pare essere entrato in queste 
                  dinamiche giocando un ruolo negli ultimi venti anni di difesa 
                  di quello stato sociale che era stato conquistato attraverso 
                  le lotte, poi formalizzato nelle leggi citate sopra e aggredito 
                  poi in nome della globalizzazione e dall’esigenza di stare 
                  nel mercato nuovamente in mano al liberismo selvaggio. I partiti 
                  della sinistra e i sindacati concertativi hanno cercato di governare 
                  la ritirata per salvare il loro ruolo di interlocutori e quindi 
                  i loro apparati. Mi chiedo se e quanto sia stato produttivo 
                  per il sindacalismo alternativo fare la coscienza critica di 
                  questa ritirata, ritagliandosi il ruolo di assemblea dei refrattari 
                  che indicava come obiettivo il mantenimento dei diritti sociali 
                  per legge. Voglio dire che forse il gioco della democrazia ha 
                  preso un po’ tutti e si è perso di vista il fatto 
                  che le dinamiche descritte si svolgono dentro un grande gioco, 
                  quello, appunto, della democrazia, conquistata, persa, difesa, 
                  ridimensionata, ecc.
   Avvocati come regolatori sociali Tanti pensano che l’americanizzazione della nostra società 
                  mediterranea o europea passi attraverso la coca-cola o la precarizzazione 
                  del lavoro. È vero. Ma a me preoccupa più il fenomeno 
                  tutto americano del primato degli avvocati come regolatori sociali. 
                  Hai presente le cause delle associazioni ambientaliste o dei 
                  consumatori contro le grandi multinazionali? In cosa si risolvono? In un risarcimento del danno. Voce che 
                  tutte le società mettono a budget, contabilizzano in 
                  bilancio. Il conflitto sociale è un costo che viene previsto 
                  e spesato a bilancio, compensato da tagli qua e aumenti dei 
                  prezzi là.
 E quanto immaginario si spende nel mondo anglosassone per esaltare 
                  la figura dell’avvocato? Il sistema è marcio, ma 
                  se hai un buon avvocato puoi sempre vincere una causa e quindi 
                  pensare che in fondo il sistema ha anche i suoi correttivi, 
                  non è così marcio. Hai l’AIDS e sei un bianco 
                  avvocato omosessuale discriminato (Tom Hanks) con l’amante 
                  cicano (Antonio Banderas)? Ci sarà sempre un avvocato 
                  di colore (Denzel Washington) a battere in tribunale i cattivi, 
                  anche quando sarai crepato (chi non ha visto Philadelphia 
                  e chi non ricorda la colonna sonora del boss Bruce 
                  Springsteen?). Oppure A civil Action con John Travolta, 
                  avvocato che si rovina pagando di suo le perizie di una causa 
                  contro un’azienda che inquina e che ha mandato al creatore 
                  un po’ di giovani del paese? Alla fine del film John Travolta 
                  è effettivamente rovinato, ma manda le sue carte ad un’agenzia 
                  governativa per la protezione dell’ambiente e alla fine 
                  i cattivi pagano.
 Oppure A proposito di Henry, con Harrison Ford cattivo 
                  avvocato delle aziende che si converte alla lotta contro le 
                  multinazionali che sfornano prodotti dannosi in barba alla salute 
                  collettiva?
 O John Q sulle polizze sanitarie in America: le compagnie 
                  assicurative sono bastarde, ma c’è sempre un onesto 
                  che alla fine la spunta contro di loro.
 Ed infine Codice d’onore: Tom Cruise, giovane 
                  e cazzone avvocato militare che inchioda in un memorabile interrogatorio 
                  Jack Nicholson, colonnello dei marines di Guantanamo (ma pensa!) 
                  reo di aver ordinato una punizione nonnista, un codice rosso, 
                  finita col morto?
 Dopo la tirata cinefila, ti lascio con due immagini da quello 
                  che fu il Fiatnam e che offro come icone alla comune 
                  riflessione. FIOM, Sincobas, Slai e CUB hanno ottenuto dai giudici 
                  del lavoro di Milano e Torino provvedimenti ex art. 28 dello 
                  statuto dei lavoratori che hanno ordinato a Fiat di far tornare 
                  al lavoro i cassintegrati di Arese e Mirafiori del 2002/2003. 
                  Risultato? Un bel niente. Due giorni fa la Fiat ha ottenuto 
                  da un giudice del luogo un provvedimento d’urgenza che 
                  ordinava alla FIOM di rimuovere i blocchi (si dice ancora picchetti?) 
                  a Melfi. Risultato? Si va a spostare gli operai con l’ufficiale 
                  giudiziario? Al limite con la celere e i carabinieri, no? O 
                  con le trattative a Roma…
   Rottamazione sociale Caro Cosimo, quel che mi preoccupa di più è quando 
                  un compagno sindacalista di base mi chiama per strutturare 
                  l’ufficio vertenze o per aprire una causa 
                  su una certa interpretazione del contratto collettivo o di una 
                  norma di legge. In questi anni mi è capitato per caso di essere coinvolto 
                  nella ristrutturazione Olivetti a Ivrea o nel massacro che la 
                  Fiat ha fatto a Torino: cessioni di rami d’azienda, cassa 
                  integrazione ordinaria, straordinaria, mobilità; smantellamento 
                  di un sistema produttivo manifatturiero e scambio politicamente 
                  e sindacalmente condiviso con un sistema di rottamazione sociale 
                  dei lavoratori vecchi e aumento di sfruttamento dei lavoratori 
                  giovani.
 Ho condiviso e condivido percorsi di lotta anonimi (nel senso 
                  che non finiscono sui giornali) di singoli o gruppi che cercano 
                  nell’avvocato una difesa, ma insieme, e inscindibilmente, 
                  una ricerca di verità su quel che è capitato loro. 
                  Chi racconta la fine dell’informatica in Italia? Chi racconta 
                  la fine industriale di Torino? Suggerisco che l’inchiesta 
                  (troppo datato?) possa essere un campo dove il sindacalismo 
                  alternativo abbia molto da dire e fare: inchiesta intesa nel 
                  senso di capacità di analisi critica delle situazioni 
                  e proposta politica di uscita dalle stesse. Per far questo bisogna 
                  investire risorse nell’andare là dove stanno i 
                  lavoratori, più che nello strutturarsi per ricevere le 
                  loro richieste. Ci sono tante storie che aspettano di essere 
                  raccontate, tante energie da raccogliere. Bisogna scegliere: 
                  nel senso che si rinuncia al CAF, che fanno tutti e porta un 
                  po’ di soldi, se per fare il CAF si rinuncia a essere 
                  capaci di star dietro alle situazioni di tensione e di lotta. 
                  Se si è quattro cats, seppur wild, 
                  non si può far tutto. Essere la sinistra di CGIL-CISL-UIL 
                  e vendere un prodotto simile al loro, seppure più radical, 
                  è la vostra scelta?
 È la vostra scelta politica? O i CAF i patronati gli 
                  uffici vertenze sono strumenti per raccogliere le forze che 
                  poi, convertite alla rivoluzione, si scateneranno contro il 
                  capitale? Fare la scelta di un sindacalismo di azione diretta 
                  e non di azione legale (scusa il gioco di parole) sarebbe sconsiderato? 
                  Chi ci perderebbe: la burocrazia sindacale o i lavoratori? Brutalmente 
                  e semplicisticamente: le attività di protezione dei lavoratori 
                  che servono a tirare su soldi servono ad alimentare un gruppo 
                  stabile (burocrazia) di attivisti sindacali che preparano la 
                  rivoluzione sociale raccogliendo e organizzando quei lavoratori 
                  catturati con l’offerta di servizi migliori e diversi 
                  dei sindacati concertativi? Oppure queste attività di 
                  protezione giustificano l’esistenza di un gruppo stabile 
                  di attivisti sindacali che ad esse si alimentano? In questa 
                  società che si va americanizzando, i singoli lavoratori 
                  sanno già che devono andare dall’avvocato.
 Perché dovrebbero andare dal sindacato? Per avere un 
                  avvocato a miglior prezzo o addirittura gratis? Non dovrebbe 
                  essere così, non auspico che sia così.
 Se i sindacati concertativi sono erogatori di servizi e cogestori 
                  della attuale gigantesca ridistribuzione del reddito sociale 
                  a favore del capitale, che li salva solo perché interlocutori 
                  utili a questa operazione, val la pena che il sindacalismo alternativo 
                  stia dentro queste dinamiche come paladino dello stato sociale 
                  che fu o si rimetta sulla vecchia e ardua strada dell’organizzazione 
                  dei lavoratori fuori dal sistema democratico rappresentativo 
                  e come mero soggetto di potere che si scontra con altri 
                  poteri (capitale e stato) senza mediazioni?
 Con affetto
  Simone Bisacca
 
 Straordinaria
 occasione
 di Cosimo Scarinzi
 Caro Simone, la tua lettera pone questioni radicali in una maniera talmente 
                  stringente che, dopo averla letta, la prima domanda che mi sono 
                  posta è stata “Non è che, negli ultimi quindici 
                  anni abbiamo sbagliato tutto o quasi?”.
 Mi riferisco alla scelta mia e di altri compagni di assumere 
                  il terreno sindacale come quello che – non penso, va da 
                  sé, sia l’unico ma certo non lo ritengo l’ultimo 
                  – da alla progettualità anarchica una dimensione 
                  concreto/sensibile. E, quando parliamo di scelta sindacale non 
                  parliamo dei sindacati che vorremmo ma dei sindacati che riusciamo, 
                  fra mille difficoltà e contraddizioni, ad animare.
 Tu sai che ritengo la radicalità nella discussione un 
                  bene e non voglio sottrarmi alle questioni che poni.
 Vorrei però farlo spostando l’asse della discussione 
                  perché temo che, in altro modo, non mi riuscirebbe di 
                  risponderti adeguatamente ammesso che, in questo modo e considerando 
                  che avremo tempo per tornare più approfonditamente sull’argomento, 
                  mi riesca di farlo.
 Il dubbio che mi è sorto leggendo, in particolare, la 
                  tua lettera ma tenendo conto di altre lettere e discussioni, 
                  che la questione del nesso fra necessità di tutela dal 
                  punto di vista legale e della consulenza e derive burocratiche 
                  attuali e potenziali del sindacalismo alternativo abbia assunto 
                  una preminenza rispetto ad altri e pur interessanti elementi 
                  di valutazione che, se tenuti nel debito, almeno a mio avviso, 
                  conto potrebbero servire a ricollocare la questione in una dimensione 
                  più comprensiva dell’assieme dei problemi.
 Mi riferisco, assai poveramente:
 
                  Io credo che su queste tre questioni si debba ragionare e, soprattutto, 
                  lavorare. Tenendomi, per ora, a quella del riformismo al contrario, 
                  io credo che, agli inizi degli anni ‘90, anche sulla spinta 
                  delle mobilitazioni contro la politica sociale della sinistra 
                  – quanto è lontana, ahimé, la settimana 
                  dei bulloni – abbiamo forse troppo sperato ma anche, Melfi 
                  per fare un solo esempio, qualcosa vorrà dire che il 
                  processo allora delineato si stia, sia pure secondo tempi meno 
                  rapidi del previsto, o sperato, realizzando. E, se è 
                  così, si tratta di concentrare le energie nella prospettiva 
                  individuata assumendosi anche le inevitabili contraddizioni.alle culture politiche di riferimento dei militanti 
                  sindacali alternativi e al ruolo che si può giocare da 
                  questo punto di vista sia mediante la produzione propriamente 
                  teorica che mediante la pratica sindacale quotidiana che non 
                  può essere ridotta, ma su questo credo siamo d’accordo, 
                  all’attività di tutela; 
                  al fatto che la militanza sindacale libertaria è 
                  una straordinaria occasione di costruzione di relazioni con 
                  settori, anche se limitati, di lavoratori combattivi che altre 
                  modalità di militanza, pur utili e rispettabili, non 
                  ci permetterebbero di raggiungere; 
                  alla stessa ipotesi di fondo che ha mosso me, ma non 
                  solo, un quindicennio addietro e cioè il convincimento 
                  che il riformismo al contrario e la distruzione del precedente 
                  compromesso sociale avrebbero poste le condizioni per lo sviluppo 
                  di un movimento radicale dei lavoratori. 
                   Per venire al merito specifico della tua lettera, credo che 
                  dobbiamo tenere presenti alcuni fatti:
 
				  Detto ciò, non solo ritengo che si debba riconoscere 
                  che la pratica sindacale libertaria ha degli aspetti contraddittori 
                  e, in particolare, che il mio articolo può apparire, 
                  o essere, per certi versi, troppo interno di queste contraddizioni 
                  ma anche e soprattutto che si debba ragionare collettivamente 
                  sul come affrontarli. In particolare, credo che la tua lettera 
                  segnali la necessità di superare la divisione specialistica 
                  del lavoro che rischiamo di assumere acriticamente ma, e rigiro 
                  fraternamente la frittata, come farlo senza cadere in forme 
                  di pasticcioneria che, e lo so bene, tu sei il primo a considerare 
                  improponibili?nella società attuale si è determinato 
                  un modello di relazioni sociali fondato sullo scambio, dal punto 
                  di vista economico, e sulla normazione burocratica della vita 
                  quotidiana, dal punto di vista politico. Questo modello di relazioni, 
                  la cosa va da sé, è proprio quello che combattiamo 
                  ma è anche un fatto che è la situazione dentro 
                  e contro (e noi valorizziamo ovviamente il contro) noi agiamo, 
                  non è ininfluente, per quel che riguarda le modalità 
                  di azione politica e sindacale che pratichiamo e le stesse forme 
                  organizzative che ci diamo; 
                  questo sistema di relazioni si manifesta, inoltre, come 
                  complessificazione dei problemi e come conseguente crescita 
                  della specializzazione dal punto di vista dell’organizzazione 
                  del lavoro. Evito di tediarti con considerazioni ulteriori sul 
                  ruolo del sapere tecnico e scientifico nel processo di produzione 
                  e di riproduzione sociale ma è evidente che, nella pratica 
                  sindacale, qualcosa contano il diritto e la medicina del lavoro, 
                  la conoscenza dei contratti e dell’organizzazione del 
                  lavoro, la rete di relazioni che si è in grado di mettere 
                  in campo; 
                  se assumiamo, ed è ragionevole farlo, che l’attività 
                  di un sindacato è, propriamente parlando, un lavoro, 
                  ne consegue che questo lavoro tenderà a seguire le “regole 
                  del gioco” pena l’inefficienza e la marginalizzazione. 
                  Quando parlo di lavoro mi riferisco sia alla massa di saperi 
                  che sono utilizzati secondo una qualche forma di piano che a 
                  una serie di attività sia contingenti che continuative 
                  che vanno garantite. 
                  d’altro canto, un aspetto particolare ma tutt’altro 
                  che secondario del lavoro sindacale è la necessità 
                  di essere punto di riferimento per le persone che si trovano, 
                  per qualche ragione, in particolare difficoltà sul lavoro, 
                  in particolare, ma non solo. Un lavoratore licenziato, sospeso 
                  o sanzionato, ad esempio, ha, di norma, assoluto bisogno di 
                  una tutela legale se, come capita sin troppo spesso, a livello 
                  aziendale non si danno le condizioni per mettere in atto un’efficace 
                  difesa collettiva; 
                  se consideri, poi, che la frantumazione delle grandi 
                  aggregazioni di forza lavoro, la riduzione della dimensione 
                  media delle imprese, la precarizzazione, la presenza di una 
                  robusta quota di lavoratori immigrati aumentano massicciamente 
                  la quota di lavoratori isolati rispetto a tradizionali collettivi 
                  aziendali, mi riconoscerai che l’esigenza di questo tipo 
                  di tutela, che è un segno di debolezza collettiva, pare 
                  difficilmente eludibile per un soggetto sindacale. Per fare 
                  un solo esempio, non ritengo casuale che i lavoratori immigrati 
                  tendano a iscriversi a un sindacato, quando se ne danno le condizioni, 
                  più dei lavoratori italiani. 
                   Con altrettanto affetto
  Cosimo Scarinzi
 
 
                  
                    | Indubbio 
                        valore simbolico  Per 
                        ragioni contingenti che non hanno, di per sé, un 
                        particolare interesse, mi è capitato questo Primo 
                        Maggio di partecipare, al mattino a Torino, alla manifestazione, 
                        diciamo così, tradizionale e, nel pomeriggio, a 
                        Milano, alla May Day Parade. Si è, trattato di un’esperienza, per certi 
                        versi, faticosa che ha, però, avuto il pregio di 
                        permettermi di porre a confronto in maniera diretta due 
                        modi diversi di vivere una scadenza che ha un indubbio 
                        valore simbolico.
 A Torino, si è svolta la tradizionale manifestazione 
                        che vede la sinistra non istituzionale – e anche 
                        quella semi istituzionale, per dirlo con più franchezza 
                        che discrezione – sfilare alla fine del tradizionale 
                        corteo dopo la sinistra – e il centro che guarda 
                        a sinistra – parlamentare e CGIL-CISL-UIL ed avendo 
                        alle spalle solo i quadrati battaglioni di Lotta Comunista.
 Un occasione per diffondere del materiale critico verso 
                        il governo, i padroni e la sinistra istituzionale, per 
                        vedere degli amici, per affermare, in qualche modo, le 
                        proprie posizioni e, in conclusione, per ritrovarsi nelle 
                        piole che abbondano nei dintorni della città a 
                        fare dei pranzi gradevoli che si concludono con faticose 
                        digestioni.
 Per evitare equivoci, una pratica sociale che può 
                        essere soddisfacente e persino utile a fini politici ma 
                        che sconta, sarebbe sbagliato nasconderlo, una certa ritualità. 
                        È, infatti, evidente ai più che c’è 
                        una sinistra istituzionale ed una radicale, una autoritaria 
                        ed una libertaria e le stesse divergenze che le caratterizzano 
                        non sono certo una novità e che il ribadirle il 
                        Primo Maggio non è certo sbagliato ma non è 
                        particolarmente efficace.
 A Milano, c’è stata la quarta edizione della 
                        May Day Parade, organizzata come una scadenza esplicitamente 
                        alternativa al Primo Maggio di CGIL-CISL-UIL come momento 
                        di aggregazione e mobilitazione dei lavoratori precari 
                        dal sindacalismo alternativo, CUB, Sin Cobas, Confederazione 
                        Cobas, USI ecc.) e da una rete di collettivi e raggruppamenti 
                        di precari fra i quali i più noti sono i Chainworker.
 Successo 
                        crescente Si tratta di un’iniziativa nata nel 2001 sulla base 
                        di un accordo fra CUB e Chainworker e che ha visto un 
                        successo crescente nonostante i dubbi iniziali sulla possibilità 
                        di costruire una scadenza seccamente alternativa a quelle 
                        tradizionali anche nell’orario (le tre del pomeriggio) 
                        e che, dopo il notevolissimo successo del 2003, ha visto 
                        aderire sia i sindacati di base precedentemente assenti 
                        come il Sin Cobas e la Confederazione Cobas che crescere 
                        l’interesse da parte di forze politiche (PRC, Verdi, 
                        Sinistra DS ecc.) e sindacali (in particolare la FIOM 
                        che non ha formalmente aderito perché il documento 
                        di indizione era decisamente critico verso la politica 
                        concertativa della CGIL ma è stata presente con 
                        un suo spezzone in coda al corteo) precedentemente non 
                        interessate all’iniziativa.
 Si potrebbe, un po’ maliziosamente, dire “piatto 
                        ricco, mi ci ficco” o, all’americana “niente 
                        ha successo come il successo!”.
 Una valutazione del corteo è, allo stesso tempo, 
                        facile e difficile. La partecipazione in primo luogo, 
                        io non sono molto abile nel fare i conti ma i compagni 
                        più pessimisti valutavano che vi fossero dalle 
                        40.000 alle 50.000 persone, i più ottimisti oltre 
                        100.000.
 Al di là dei numeri, il dato politico, quello che 
                        ritengo sia più interessante è che è 
                        stato uno straordinario successo sia per il sindacalismo 
                        alternativo, in primo luogo la CUB ma anche altre organizzazioni, 
                        che per il movimento dei precari.
 La scenografia garantita da una serie di carri variamente 
                        decorati, la vivacità della partecipazione, le 
                        musiche, la massa di giovani presenti hanno garantito 
                        un’allegria, una capacità di comunicazione 
                        e di coinvolgimento dei partecipanti che alle tradizionali 
                        manifestazioni del Primo maggio mancano ormai da molto 
                        tempo.
 Nei fatti, la May Day Parade oramai funziona nel senso 
                        che ha realizzato il suo primo obiettivo e cioè 
                        porre al centro del dibattito politico e sindacale la 
                        questione della precarizzazione del lavoro, della distruzione 
                        dei diritti, dello svilupparsi di un robusto segmento 
                        della working class si inizia a mobilitare per il diritto 
                        al salario al reddito, alla casa, ai trasporti, alla formazione.
 E lo fa con modalità comunicative sostanzialmente 
                        diverse non solo rispetto a quelle che caratterizzano 
                        i sindacati di stato – e in questo caso vi è 
                        un, evidente problema di contenuti politici visto che 
                        la sinistra parlamentare e sindacale ha precise responsabilità 
                        nella distruzione dei diritti – ma anche rispetto 
                        al sindacalismo alternativo il cui tessuto militante, 
                        per ragioni di età e di pratica quotidiana, deve 
                        misurarsi con pratiche, linguaggi, modalità relazionali 
                        ai quali non sempre è abituato.
 Nella May Day Parade, in altri termini, si incontrano 
                        due generazioni politiche: quella dei militanti sindacali 
                        formatisi nelle lotte aziendali, nell’esperienza 
                        della nuova sinistra degli anni ‘70, nella capacità 
                        di tenere negli anni dell’offensiva padronale e 
                        quella dei giovani lavoratori che nascono già precarizzati, 
                        che hanno una memoria assai frammentaria delle lotte passate, 
                        che sovente hanno difficoltà e, magari, scarsa 
                        disponibilità a organizzarsi sul posto ci lavoro 
                        ma che si aggregano nei centri sociali e, comunque, sul 
                        territorio.
 Superare 
                        i limiti categoriali Si tratta, a mio avviso, di un incontro importante non 
                        perché sia facile, al contrario, ma perché 
                        è necessario se vogliamo, contemporaneamente porre 
                        il sindacalismo alternativo di fronte alla necessità 
                        di superare i suoi limiti categoriali ed aziendali e il 
                        movimento dei precari di fronte a quella di costruire 
                        rapporti di forza sui posti di lavoro per piegare l’attuale 
                        strapotere padronale.
 In questa prospettiva, la differenza di stile fra militanti 
                        sindacali e giovani precari nel modo di porsi nel corteo 
                        appare appieno come una pluralità che non significa, 
                        necessariamente, separatezza ed, anzi, mi scuso per la 
                        banalità, può essere una ricchezza per il 
                        movimento.
 Naturalmente molti nodi politici sono tutti da sciogliere, 
                        come si è già detto, settori della sinistra 
                        istituzionale alla ricerca di voti e di radicamento operano 
                        già per riportare all’ovile le pecorelle 
                        smarrite, la rivendicazione del salario garantito può 
                        facilmente ridare spazio a pratiche lobbystiche assolutamente 
                        negative (la presenza, ai margini del corteo – è 
                        vero – ingombrante di Salvi del correntone DS, di 
                        Cento dei Verdi, di spezzoni del PRC qualcosa vuole ben 
                        dire), c’è il rischio di un eccesso di spettacolarità 
                        incapace di tradursi in azione quotidiana sui posti di 
                        lavoro e nelle singole località (ed è quello 
                        che temo di più).
 D’altro canto, un movimento sociale reale non può 
                        che essere attraversato da diverse posizioni e da diverse 
                        proposte e quella che valorizza l’autorganizzazione 
                        sociale e l’azione diretta è, a mio avviso, 
                        molto vicina alla sensibilità diffusa delle donne 
                        e degli uomini che hanno dato vita alla scadenza della 
                        May Day Parade.
 È, in sintesi, un problema dei movimenti degli 
                        ultimi anni lo scarto fra alcuni momenti di mobilitazione 
                        e di aggregazione anche straordinari e la frantumazione 
                        individuale e di gruppo, al di fuori delle giornate campali, 
                        delle persone che li animano.
 È, però, anche importante considerare che 
                        l’immaginario sociale non è affatto irrilevante 
                        anche per lo sviluppo delle singole lotte e che l’affermarsi 
                        forte di un’identità dei precari è 
                        una precondizione favorevole anche per le singole vertenze 
                        non fosse altro che perché favorisce il formarsi 
                        di una nuova generazione di militanti sociali.
 
  Cosimo Scarinzi
 |    
                  
                    |  Per 
                        saperne di più sul sindacalismo di base  
					  
                        CUB (Confederazione Unitaria di Base) 
                        Il più consistente, dal punto di vista associativo, 
                          dei sindacati alternativi. È presente in tutti 
                          i comparti, in misura maggiore o minore. È organizzata per sindacati di comparto, ne ricordiamo 
                          alcuni:
 CUB Trasporti (ferrovie, autoferrotranvieri, aeroportuali 
                          ecc)
 CUB Scuola
 CUB Pensionati
 FLMUniti Metalmeccanici
 Flaica Terziario privato
 RdB Pubblico Impiego, cooperative e servizi
 Sallca Bancari
 Le RdB, per la loro storia, hanno un loro assetto semiconfederale. 
                          Vi sono diverse sovrapposizione derivanti dalla storia 
                          della CUB, sia la Flaica che le RdB organizzano i lavoratori 
                          dei servizi, nei trasporti gli ambiti di intervento 
                          dei sindacati di settore sono definiti in maniera provvisoria 
                          ecc.
 
						Confederazione Cobas 
                        Presente soprattutto nella scuola nella quale è 
                          il principale sindacato alternativo ma con insediamenti 
                          in altri comparti 
						   
                        Sin Cobas 
                        Presente soprattutto nel comparto industriale. È, 
                          fra i sindacati alternativi, il più vicino alla 
                          FIOM 
						   
                        Slai Cobas 
                        Presente soprattutto nel settore privato. Ha un punto 
                          di forza all’ATM di Milano. Tende a porsi come soggetto politico/sindacale.
 
						Unicobas 
                        Presente soprattutto nella scuola ma con insediamenti 
                          in altri comparti 
						   
                        USI AIT (Unione Sindacale Italiana – 
                          Association Internationale des Travailleurs) 
                        Il tradizionale sindacato di orientamento libertario. 
                          Ha una consistente presenza nel settore della sanità 
                          a Milano. 
                       |  |