| L’azione e il 
                  pensiero di Errico Malatesta, la sua opera di instancabile rivoluzionario 
                  partecipe per sessant’anni allo sviluppo storico dell’anarchismo, 
                  non sono ancora oggi conosciuti e studiati in modo approfondito 
                  e sistematico. Un tale studio implica necessariamente una ricerca 
                  storica che abbracci oltre mezzo secolo di attività rivoluzionaria 
                  internazionale. Inoltre, per avere una visione d’insieme, 
                  si dovrebbe rapportare tale attività nel contesto più 
                  ampio e sfumato delle lotte sociali e progressiste del tempo. 
                  Perché Malatesta fu di queste lotte uno dei massimi protagonisti, 
                  sia per l’attività prodigiosa che seppe profondere 
                  in tali lotte, sia perché di queste lotte, egli fu a 
                  volte l’ispiratore e da esse seppe trarre un’esperienza 
                  ricchissima di cui i suoi innumerevoli scritti sono testimonianza 
                  teorica di altissimo valore. Infatti tutta la sua produzione 
                  teorica non è mai stata disgiunta dal rapporto diretto 
                  con l’esperienza concreta, tanto che essa si presenta 
                  proprio come una continua riflessione sul processo reale e storico 
                  dell’anarchismo. In Malatesta teoria e pratica sono tutt’uno: l’una 
                  è il riflesso dell’altra e viceversa. In tutto 
                  l’arco della sua attività rivoluzionaria egli mantenne 
                  in un raro equilibrio queste due componenti, fino a farne, come 
                  abbiamo detto, una cosa sola. Malatesta inoltre essendo stato 
                  partecipe alla fondazione “ufficiale” del movimento 
                  anarchico italiano ed internazionale, vide, vivendo e partecipando 
                  alle sue lotte, la teoria farsi storia nel corso progressivo 
                  di innumerevoli e diversissime esperienze, in un arco di tempo 
                  che va dal 1872 al 1932: un’esperienza rara, forse unica.
 Per tutto questo, tracciare, seppure a grandi linee, un profilo 
                  del suo pensiero, significherebbe porsi in una prospettiva storica 
                  che esula dagli intendimenti di questa lettura e che fra l’altro 
                  vorrebbe ben altro spazio. Noi vogliamo perciò solo presentare 
                  il pensiero di Malatesta rispetto alla sua validità attuale 
                  soprattutto dal punto di vista del metodo, come approccio anarchico 
                  ai problemi e alle soluzioni.
 Il pensiero di Malatesta si presenta come una “sintesi” 
                  dei diversi indirizzi teorici sviluppatisi nel movimento anarchico 
                  in tutto l’arco temporale dell’attività sopra 
                  accennata. Tale “sintesi” non risente di nessuna 
                  impostazione dottrinaria perché essa è costruita 
                  sull’esperienza pratica del movimento anarchico internazionale 
                  e non si può comprendere il significato di essa se non 
                  si tiene presente che questa “sintesi” non è 
                  una semplice somma di molteplici e diversi indirizzi dell’anarchismo.
  
  Pluralismo e relativismo Abbiamo detto che ci interessa mettere in risalto, in questa 
                  introduzione al pensiero malatestiano, soprattutto la sua attualità 
                  dal punto di vista del metodo anarchico, come “modo generale” 
                  di affrontare i problemi e risolverli.
 Noi pensiamo che questo “modo generale” sia consistito 
                  per Malatesta in un atteggiamento intellettuale proteso verso 
                  la continua ricerca teorica aliena da sistemazioni definitive, 
                  da apriorismi dogmatici, da sterili formazioni “scientifiche” 
                  unidimensionali.
 In tutti i suoi scritti si può facilmente riscontrare 
                  questa “impostazione aperta” verso ogni prospettiva 
                  operativa nel senso che essa viene “armonizzata” 
                  con altre di diverso orientamento. In questo modo Malatesta 
                  si pone in un piano critico capace di “depurare” 
                  ogni atteggiamento intellettuale estremistico e settario.
 Pur conservando rigorosamente alcune posizioni proprie che non 
                  muterà mai, egli era profondamente convinto che ognuna 
                  di esse fosse suscettibile di ulteriori modificazioni secondo 
                  i tempi, i modi e i luoghi della loro applicazione. Ovviamente 
                  tale metodologia doveva venire estesa, secondo Malatesta, a 
                  tutti gli indirizzi teorico-pratici dell’anarchismo.
 In questo modo la “sintesi” malatestiana approdava 
                  ad alcune considerazioni teoriche di importanza fondamentale 
                  per lo sviluppo del pensiero anarchico: presa singolarmente 
                  ogni sentenza risultava insufficiente ad esprimere la ricchezza 
                  dell’universo sociale e della problematica rivoluzionaria. 
                  Per cogliere sempre più compiutamente questa inesauribile 
                  complessità occorreva evidentemente sviluppare contemporaneamente 
                  più indirizzi e tendenze, secondo la pratica storica 
                  dell’anarchismo.
 Dall’impossibilità, da parte di ogni indirizzo 
                  preso singolarmente, di rappresentare questa complessità, 
                  Malatesta deduceva un’altra considerazione teorica di 
                  grande valore: quando qualsiasi tendenza si fosse “cristallizzata”, 
                  “istituzionalizzata” avrebbe perso anche la capacità 
                  di esprimere quella parte o aspetto della realtà sociale 
                  che prima rappresentava. Un esempio, Malatesta, fu tra i primi 
                  in Italia ad operare affinché il movimento anarchico 
                  organizzasse le “leghe di resistenza” o sindacati 
                  all’interno della classe operaia e bracciantile. Quando 
                  però la tendenza anarcosindacalista ebbe la pretesa di 
                  risolvere ogni problema rivoluzionario e sociale fino a volersi 
                  sostituire al movimento anarchico (pretendendo che quest’ultimo 
                  si “confondesse” con la classe operaia) Malatesta 
                  anticipò la sua futura “cristallizzazione” 
                  e “istituzionalizzazione” nel senso che abbiamo 
                  spiegato sopra. Il “sindacalismo puro” si dimostrò 
                  un’illusione non solo in Francia ma anche in Italia ed 
                  i suoi esponenti finirono quasi tutti nelle file nazionaliste 
                  e fasciste. La straordinaria funzione rivoluzionaria esercitata 
                  in Italia dall’anarcosindacalismo dal 1912 al 1921, fu 
                  dovuta al fatto che all’interno dell’USI operavano 
                  anarchici in stretto collegamento con il movimento specifico. 
                  Dell’istituzionalizzazione dei sindacati riformisti, poi 
                  è oggi superfluo parlare.
 Se dunque Malatesta fu in grado di anticipare tanti errori, 
                  sia tattici sia strategici, per la sua eccezionale esperienza, 
                  è proprio a quest’ultima che dobbiamo risalire 
                  se vogliamo comprendere il significato del pluralismo presente 
                  nel suo pensiero. Attraverso la pratica storica dell’anarchismo 
                  e del movimento operaio socialista, Malatesta poté verificare 
                  la validità e l’insufficienza di ogni proposta 
                  operativa, formulando così compiutamente la teorizzazione 
                  della dipendenza dei mezzi rispetto al fine.
 Questa considerazione ampiamente presente nel pensiero anarchico, 
                  trovò nel pluralismo e relativismo malatestiano la sua 
                  verifica sperimentale. Malatesta infatti poté verificare 
                  il grado di efficacia dei mezzi rispetto al fine proprio alla 
                  luce di una gamma di esperienze socialiste e popolari diversissime: 
                  dall’insurrezionalismo al parlamentarismo, dall’individualismo 
                  al comunismo, dall’educazionismo all’anarcosindacalismo, 
                  dall’antimilitarismo alla non violenza, ecc.
 Questa continua e progressiva ricerca dell’identità 
                  tra principio proclamato e pratica storica, identità 
                  che solo il movimento anarchico, a nostro avviso, ha volutamente 
                  cercato e sviluppato, è stata completamente recepita 
                  ed espressa da Malatesta. Ed è proprio qui che nasce 
                  la considerazione relativistica del pensiero malatestiano, nel 
                  senso che egli vedeva ogni tendenza o indirizzo sempre legati 
                  a precisi momenti storici o a determinati aspetti della lotta 
                  sociale. Vediamo comunque ora, sempre dal punto di vista metodologico, 
                  le posizioni qualificanti del pensiero malatestiano, dal momento 
                  che alcune di esse furono immutabilmente presenti per tutto 
                  l’arco della sua attività rivoluzionaria.e diversi 
                  indirizzi dell’anarchismo.
 Comunismo ed organizzazione Malatesta fu tra i primi esponenti dell’anarchismo a passare 
                  dal collettivismo bakuniniano al comunismo; secondo il Nettlau 
                  già nell’agosto-settembre del 1876, Malatesta era 
                  per il comunismo.
 Comunismo, per Malatesta, significa la massima libertà 
                  individuale integrata con la massima solidarietà sociale: 
                  la realizzazione di queste due proposizioni sta nel non svilupparne 
                  una a detrimento dell’altra. La pratica del comunismo 
                  viene quindi ad essere, secondo Malatesta, la pratica della 
                  libertà. Questa comporta la massima eguaglianza possibile 
                  per tutti di fronte alle condizioni materiali ed ambientali 
                  di vita e di lavoro che solo il comunismo, a parere di Malatesta, 
                  può realizzare.
 La liberazione dell’individuo è dunque prima di 
                  tutto una liberazione sociale, nel senso che solo nello sviluppo 
                  della libertà di tutti è possibile realizzare 
                  la propria. Questo classico schema socialista-anarchico era 
                  stato da Bakunin formulato già ampiamente; Malatesta 
                  lo crederà realizzabile integralmente soltanto col comunismo, 
                  sebbene egli ammettesse la possibile coesistenza di diversi 
                  sistemi economici secondo le diverse condizioni ambientali. 
                  Per Malatesta comunque il problema fondamentale restava quello 
                  della libertà: il comunismo era solo il mezzo più 
                  efficace per realizzarla integralmente per tutti. In questo 
                  modo libertà e comunismo diventano, nel pensiero malatestiano, 
                  sinonimi.
 La progressiva libertà dell’individuo rispetto 
                  a tutti i condizionamenti materiali ed ambientali trova però 
                  la sua realizzazione pratica soltanto attraverso l’organizzazione 
                  libertaria della società. Organizzazione significa prima 
                  di tutto capacità di operare sul massimo piano possibile 
                  della libertà collettiva, nel senso che solo l’organizzazione 
                  può estendere i benefici del lavoro sociale ad ogni singolo 
                  individuo. Solo essa, insomma, è capace di utilizzare 
                  al massimo la “forza collettiva” del lavoro sociale. 
                  Intendiamoci, essa non è, per Malatesta, che un mezzo 
                  per realizzare il comunismo libertario. Malatesta era profondamente 
                  convinto che senza l’organizzazione nulla sarebbe stato 
                  possibile, ma parimenti sosteneva che essa andava modificata 
                  e modellata in rapporto alle esigenze libertarie ed egualitarie.
 Dal punto di vista metodologico il comunismo era il mezzo per 
                  realizzare la libertà, l’organizzazione il mezzo 
                  per realizzare il comunismo libertario. Ovviamente sul piano 
                  operativo libertà, comunismo ed organizzazione diventano, 
                  per Malatesta, quasi la stessa cosa.
 
 La volontà rivoluzionaria La posizione più qualificante che caratterizzò 
                  Malatesta rimase comunque quella della volontà rivoluzionaria. 
                  Nel pensiero malatestiano la rivoluzione anarchica non poteva 
                  che essere un progetto cosciente scaturito da una precisa volontà 
                  e posto artificialmente nel processo storico. Ammesse alcune 
                  condizioni favorevoli, il fattore determinante e decisivo dello 
                  scoppio e della riuscita della liberazione popolare rimaneva 
                  sempre quello della volontà rivoluzionaria.
 Volontà di preparare la rivoluzione, volontà di 
                  fare la rivoluzione, volontà di essere rivoluzionari. 
                  Questa volontà rivoluzionaria era per Malatesta, ovviamente, 
                  la volontà di fare la rivoluzione libertaria e egualitaria.
 Diversamente dagli individualisti e da altri anarchici stirneriani, 
                  la volontà malatestiana era guidata da un sentimento 
                  fondamentalmente solidaristico e societario: essa non poteva 
                  altro che essere un’espressione collettiva per il bene 
                  collettivo.
 A differenza di altri teorici anarchici, Malatesta sosteneva 
                  che l’opposizione tra il marxismo e l’anarchismo 
                  era dovuta appunto alla diversità tra il “determinismo” 
                  e il “volontarismo”. Il “determinismo” 
                  marxista, secondo Malatesta, finiva col paralizzare le forze 
                  rivoluzionarie mettendole in un’aspettativa senza sbocchi 
                  operativi; oppure, con la scusa di favorire lo sviluppo del 
                  sistema capitalistico-borghese e portarlo più rapidamente 
                  alla sua fine, inseriva il movimento socialista nell’area 
                  legale e parlamentare. In nome del “determinismo scientificista” 
                  il marxismo consumava in realtà il tradimento e il sabotaggio.
 Malatesta lungi dal porsi contro la scienza, si poneva in realtà 
                  contro la sua volgare strumentalizzazione, contro cioè 
                  la pseudoscienza del marxismo. Malatesta, in polemica anche 
                  contro Kropotkin, sosteneva che la scienza era di per sé 
                  “neutrale” nel senso che essa poteva servire alla 
                  rivoluzione libertaria come a qualsiasi sistema di dominio e 
                  sfruttamento. Solo la volontà di utilizzarla in un modo 
                  o nell’altro la qualificava diversamente: la scienza era 
                  sempre in subordine rispetto alla volontà rivoluzionaria. 
                  Comportava una prospettiva teorica completamente nuova, sia 
                  per il pensiero anarchico che per il pensiero socialista in 
                  genere. Malatesta infatti sviluppò nel suo pensiero soprattutto 
                  il punto di vista ideologico dell’anarchismo, nel senso 
                  che la realtà “oggettiva” acquista significato 
                  solo alla luce dei principi anarchici. In altri termini dal 
                  momento che per Malatesta non esisteva una scienza sociale “oggettiva”, 
                  era evidente che l’unico modo per interpretare la realtà 
                  risultava essere quello “soggettivistico” o, nel 
                  linguaggio malatestiano, quello della volontà rivoluzionaria.
 La conseguenza di tale impostazione fu che per sessant’anni 
                  Malatesta si trovò ad elaborare sotto ogni punto di vista, 
                  sia teorico che pratico, il pensiero anarchico rispetto ad ogni 
                  problema di qualsiasi natura: sociale, economico, politico, 
                  religioso, filosofico, ecc. L’opera teorica malatestiana 
                  viene a configurarsi, se ci è permesso usare questa espressione, 
                  quasi come un “manuale dell’anarchismo”.
 L’analisi della realtà sociale, nella prospettiva 
                  malatestiana, è quindi un’analisi indiretta, alla 
                  rovescia: per risalire ad essa ed alla sua comprensione bisogna 
                  porsi completamente nella dimensione libertaria. Mentre la realtà 
                  storico-sociale muta, il progetto rivoluzionario rimane identico 
                  nella sua sostanza e dipende da essa solo per quel tanto che 
                  lo riguarda dal punto di vista di un aggiornamento “tecnico”.
 In questo modo dai moti internazionalisti al tradimento del 
                  socialismo parlamentare, dalla “settimana rossa” 
                  alla occupazione delle fabbriche, dalla politica crispina all’avvento 
                  del fascismo, la storia sociale d’Italia è filtrata 
                  attraverso il prisma magistrale della comprensione chiara, semplice 
                  e materialistica del pensiero malatestiano (e così in 
                  parte la storia del movimento socialista europeo).
 L’attualità di questa prospettiva è stupefacente 
                  dal punto di vista metodologico: le pretese “condizioni 
                  obbiettive” favorevoli alla rivoluzione sono risultate 
                  un’invenzione dei “cattedratici” di fronte 
                  all’esperienza storica. Non solo la costruzione del socialismo 
                  e della libertà attraverso l’esperienza fallimentare 
                  del marxismo, è risultata possibile a diversi livelli 
                  delle forze produttive.
 La prospettiva volontaristica malatestiana e il progetto che 
                  l’ha sottintesa rimangono ancora un patrimonio teorico 
                  tutto da realizzare.
 In altri termini Malatesta ha dimostrato, con la sua lotta ultraciquantenaria, 
                  che la costruzione della libertà e dell’eguaglianza 
                  non dipende che dalla volontà rivoluzionaria di chi vuole 
                  realizzare tale progetto (soprattutto, la dimostrazione l’ha 
                  data la storia).
 Le masse sfruttate, infatti, sono per la loro stessa posizione 
                  obiettiva e materiale sempre potenzialmente rivoluzionarie, 
                  ma sono anche, contemporaneamente in una condizione altrettanto 
                  obiettiva di sottomissione e di paralisi.
 Il compito dei rivoluzionari è dunque nel senso malatestiano 
                  trasmettere questa volontà cosciente e generalizzarla, 
                  resistendo alle prevedibili sconfitte, abituandosi a respiri 
                  lunghi, e non brevi ed affannosi. Il compito dei rivoluzionari 
                  è ancora, nel senso malatestiano, mantenere intatta, 
                  pura e integrale la prospettiva libertaria ed egualitaria, nel 
                  senso che i rivoluzionari devono essere al fianco delle masse 
                  oppresse quando queste sono all’attacco, ma non seguirle 
                  quando queste si paralizzano dopo le sconfitte.
 Il compito degli anarchici infine, è quello di restare 
                  tali qualsiasi cosa avvenga, qualsiasi cosa possa avvenire, 
                  qualsiasi cosa sia avvenuta.
 La dimensione etica dell’insegnamento malatestiano risiede 
                  nella affermazione che la volontà rivoluzionaria, per 
                  essere anarchica, deve essere cosciente e tale deve rimanere 
                  in qualsiasi circostanza. Diceva Malatesta, nel 1922 dopo oltre 
                  cinquanta anni di lotte perdute: “Anarchici noi restiamo 
                  anarchici malgrado tutto e malgrado tutti. Noi siamo stati vinti… 
                  Ma non sarà una sconfitta, del resto prevedibile, che 
                  ci farà rinunziare alla lotta… Non vi rinunzieremo 
                  nemmeno per cento, per mille sconfitte, poiché sappiamo 
                  che nei progressi umani è stato sempre a forza di perdere 
                  che s’è finito col vincere.”.
 Linguaggio malatestiano Se osserviamo tutta la produzione teorica malatestiana constatiamo 
                  innanzi tutto che la sua forma espositiva è inscindibile 
                  dallo scopo stesso della produzione medesima: universalizzare 
                  al massimo il pensiero anarchico e rivoluzionario.
 In questa prospettiva esso è molto di più della 
                  connessione tra linguaggio semplice e chiaro e scopo della propaganda: 
                  la chiarezza e la semplicità del linguaggio malatestiano 
                  stanno ad indicare, nei suoi intendimenti, che il pensiero anarchico 
                  non può che esprimersi nel modo più universale 
                  possibile.
 Se anarchia è massima libertà nella massima eguaglianza 
                  e specificatamente, nel pensiero malatestiano, la massima socializzazione 
                  possibile (comunismo), allora si comprende che il pensiero anarchico 
                  è tale nella misura della sua socializzazione. In altri 
                  termini il valore pratico di esso dipende dal grado di estensione 
                  raggiungibile. Non deve essere possibile alcuna sfasatura tra 
                  contenuto ed espressione; la conoscenza intellettuale dell’alternativa 
                  libertaria ed egualitaria non può essere, per sua natura, 
                  monopolio di nessuno.
 Nei suoi opuscoli e nei giornali da lui diretti, vengono propagandati 
                  attraverso tale linguaggio sorretto da una logica lucida e da 
                  un “buon senso” difficilmente ripetibile: Malatesta 
                  riesce a dire le cose più complesse nel modo più 
                  semplice e chiaro possibile. A nostro avviso esso ha rappresentato 
                  la massima espressione non solo nel campo anarchico ma anche 
                  nel campo rivoluzionario in genere. Alcuni opuscoli, come il 
                  dialogo Fra contadini, hanno avuto una tale diffusione 
                  e penetrazione nelle masse popolari difficilmente oggi concepibile 
                  (nel 1920, ad esempio, la Federazione Anarchica Ligure ne stampò 
                  e diffuse centomila copie).
 Non solo, essi hanno educato generazioni intere di rivoluzionari 
                  e di progressisti.
 In un arco di tempo in cui il linguaggio socialista e marxista 
                  è venuto via via ad essere monopolio esclusivo di una 
                  minoranza intellettuale di iniziati raccolti intorno alle varie 
                  chiese-partito, fino a costituire un corpus dottrinario e teologico 
                  con i suoi “segni” e i suoi “significati”, 
                  il pensiero e il linguaggio malatestiano rimangono un faro di 
                  luce che ancora oggi annichilisce i moccoli accademici di tutti 
                  i dottrinari e i presuntuosi di questo mondo.
 Giampietro “Nico” Berti 
 Comunismo
 e individualismo
 Ma 
                  per essere anarchici non basta volere l’emancipazione 
                  del proprio individuo, ma bisogna volere l’emancipazione 
                  di tutti; non basta ribellarsi all’oppressione, ma bisogna 
                  rifiutarsi ad essere oppressori; bisogna comprendere i vincoli 
                  di solidarietà, naturale o voluta, che legano gli uomini 
                  tra di loro, bisogna amare i propri simili, soffrire dei mali 
                  altrui, non sentirsi felici se si sa che altri sono infelici. 
                  E questa non è questione di assetti economici: è 
                  questione di sentimenti, o, come si dice teoricamente, questione 
                  di etica. Da tali principi e tali sentimenti, comuni malgrado il diverso 
                  linguaggio, a tutti gli anarchici, si tratta di trovare ai problemi 
                  pratici della vita le soluzioni che meglio rispettano la libertà 
                  e meglio soddisfano i sentimenti di amore e di solidarietà.
 Quegli anarchici che si dicono comunisti (ed io mi metto tra 
                  essi) sono tali non perché vogliano imporre il loro speciale 
                  modo di vedere o credano che fuori di esso non vi sia salvezza, 
                  ma perché sono convinti, fino a prova in contrario, che 
                  più gli uomini sono affratellati e più intima 
                  è la cooperazione dei loro sforzi a favore di tutti quegli 
                  associati, più grande è il benessere e la libertà 
                  di cui ciascuno può godere. L’uomo, essi pensano, 
                  se anche è liberato dall’oppressione dell’uomo, 
                  resta sempre esposto alle forze ostili della natura, ch’egli 
                  non può vincere da solo, ma può col concorso degli 
                  altri uomini dominare e trasformare in mezzi del proprio benessere. 
                  Un uomo che volesse provvedere ai suoi bisogni materiali lavorando 
                  da solo, sarebbe lo schiavo del suo lavoro. Un contadino, per 
                  esempio, che volesse coltivare da solo il suo pezzo di terra, 
                  rinuncerebbe a tutti i vantaggi della cooperazione e si condannerebbe 
                  ad una vita miserabile: non potrebbe concedersi periodi di riposo, 
                  viaggi, studi, contatti colla vita molteplice dei vasti aggruppamenti 
                  umani… e non riuscirebbe sempre a sfamarsi.
 È grottesco pensare che degli anarchici, per quanto si 
                  dicano e siano comunisti, vogliano vivere come in un convento, 
                  sottoposti alla regola comune, al pasto ed al vestito uniformi, 
                  ecc.; ma sarebbe egualmente assurdo il pensare ch’essi 
                  vogliano fare quello che loro piace senza tener conto dei bisogni 
                  degli altri, del diritto di tutti ad una eguale libertà. 
                  Tutti sanno che Kropotkin, per esempio, il quale fu tra gli 
                  anarchici uno dei più appassionati ed il più eloquente 
                  propagatore della concezione comunista, fu nello stesso tempo 
                  grande apostolo dell’indipendenza individuale e voleva 
                  con passione che tutti potessero sviluppare e soddisfare liberamente 
                  i loro gusti artistici, dedicarsi alle ricerche scientifiche, 
                  unire armoniosamente il lavoro manuale a quello intellettuale 
                  per diventare uomini nel senso più elevato della parola.
 Di più, i comunisti (anarchici, s’intende) credono 
                  che a causa delle differenze naturali di fertilità, salubrità 
                  e posizione del suolo, sarebbe impossibile assicurare individualmente 
                  a ciascuno eguali condizioni di lavoro e realizzare, se non 
                  la solidarietà, almeno la giustizia. Ma nello stesso 
                  tempo essi si rendono conto delle immense difficoltà 
                  per praticare, prima di un lungo periodo di libera evoluzione, 
                  quel volontario comunismo universale che essi considerano quale 
                  l’ideale supremo dell’umanità emancipata 
                  ed affratellata. Ed arrivan quindi ad una conclusione che potrebbe 
                  esprimersi colla formula: quanto più comunismo è 
                  possibile per realizzare il più possibile di individualismo, 
                  vale a dire il massimo di solidarietà per godere il massimo 
                  di libertà.
 D’altra parte gl’individualisti (parlo, s’intende, 
                  sempre degli anarchici) per reazione contro il comunismo autoritario 
                  – che è stato nella storia la prima concezione 
                  che si è presentata alla mente umana di una forma di 
                  società razionale e giusta e che ha influenzato più 
                  o meno tutte le utopie e tutti i tentativi di realizzazione 
                  – per reazione, dico, contro il comunismo autoritario 
                  che in nome dell’eguaglianza inceppa e quasi distrugge 
                  la personalità umana, hanno dato la maggiore importanza 
                  al concetto astratto di libertà e non si sono accorti 
                  o non vi hanno insistito, che la libertà concreta, la 
                  libertà reale è condizionata dalla solidarietà, 
                  dalla fratellanza e dalla cooperazione volontaria. Sarebbe nullameno 
                  ingiusto il pensare che essi vogliono privarsi dei benefizi 
                  della cooperazione e condannarsi ad un impossibile isolamento. 
                  Essi comprendono certamente che il lavoro isolato è impotente 
                  e che l’uomo, per assicurarsi una vita umana e godere 
                  materialmente di tutte le conquiste della civiltà, o 
                  deve sfruttare direttamente o indirettamente il lavoro altrui 
                  e prosperare sulla miseria dei lavoratori, o associarsi coi 
                  suoi simili e dividere con essi i pesi e le gioie della vita. 
                  E siccome essendo anarchici non possono ammettere lo sfruttamento 
                  dell’uomo sull’uomo, debbono necessariamente convenire 
                  che per esser liberi e vivere da uomini bisogna accettare un 
                  grado ed una forma qualsiasi di comunismo volontario.
 (“Pensiero 
                  e Volontà”, 1 Aprile 1926)  
   Sulla 
                  violenza  Gli 
                  anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea 
                  centrale dell’anarchismo è l’eliminazione 
                  della violenza dalla vita sociale; è l’organizzazione 
                  dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei 
                  singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò 
                  siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla 
                  protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare 
                  dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi 
                  ed a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli. 
                  Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione 
                  coercitiva, cioè violenta, della società. La violenza è giustificabile solo quando è necessaria 
                  per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove 
                  cessa la necessità comincia il delitto… Lo schiavo 
                  è sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua 
                  violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è 
                  sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata solo 
                  dal criterio dell’utilità e dell’economia 
                  dello sforzo umano e delle sofferenze umane.
 (“Umanità 
                  Nova”, 25 agosto 1921)  La 
                  violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, 
                  la sola che non sia criminale. Parlo naturalmente della violenza che ha davvero i caratteri 
                  anarchici, e non di questo o quel fatto di violenza cieca ed 
                  irragionevole che è stato attribuito agli anarchici, 
                  o che magari è stato commesso da veri anarchici spinti 
                  al furore da infami persecuzioni, o acciecati, per eccesso di 
                  sensibilità non temperato dalla ragione, dallo spettacolo 
                  delle ingiustizie sociali, dal dolore per il dolore altrui.
 La vera violenza anarchica è quella che cessa dove cessa 
                  la necessità della difesa e della liberazione. Essa è 
                  temperata dalla coscienza che gl’individui presi isolatamente 
                  sono poco o punto responsabili della posizione che ha fatto 
                  loro l’eredità e l’ambiente; essa non è 
                  ispirata dall’odio ma dall’amore; ed è santa 
                  perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione 
                  del proprio dominio a quello degli altri
 (“Pensiero 
                  e Volontà”, 1 settembre 1924)   
                  Vi possono essere dei casi in cui la resistenza passiva è 
                  un’arma efficace, ed allora sarebbe certamente la migliore 
                  delle armi, poiché sarebbe la più economica di 
                  sofferenze umane. Ma, il più delle volte, professare 
                  la resistenza passiva significa rassicurare gli oppressori contro 
                  la paura delle ribellione, e quindi tradire la causa degli oppressi. 
                  È curioso osservare come i terroristi ed i tolstoisti, 
                  appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici, 
                  arrivano a conseguenze pratiche pressoché uguali. Quelli 
                  non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far 
                  trionfare l’idea; questi lascerebbero che tutta l’umanità 
                  restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto 
                  che violare un principio.
 (“Anarchia”, 
                  Londra, agosto 1896)  
   Pluralismo 
                  anarchico  Tra 
                  gli anarchici vi sono i rivoluzionari, i quali credono che bisogna 
                  colla forza abbattere la forza che mantiene l’ordine presente 
                  per creare un ambiente in cui sia possibile la libera evoluzione 
                  degl’individui e delle collettività – e vi 
                  sono gli educazionisti i quali pensano che si possa arrivare 
                  alla trasformazione sociale solamente trasformando prima gl’individui 
                  per mezzo dell’educazione e della propaganda. Vi sono 
                  i partigiani della non-resistenza, o della resistenza passiva 
                  che rifuggono dalla violenza anche quando serva a respingere 
                  la violenza, e vi sono quelli che ammettono la necessità 
                  della violenza, i quali sono poi a loro volta divisi in quanto 
                  alla natura, alla portata ed ai limiti della violenza lecita. 
                  Vi sono dissensi riguardanti l’attitudine degli anarchici 
                  di fronte al movimento sindacale; dissensi sull’organizzazione, 
                  o non organizzazione, propria degli anarchici; dissensi permanenti, 
                  o occasionali, sui rapporti tra gli anarchici e gli altri partiti 
                  sovversivi. È su queste ed altre questioni del genere che bisogna 
                  cercare d’intenderci, o se, come pare, l’intesa 
                  non è possibile, bisogna sapersi tollerare: lavorare 
                  insieme quando si è d’accordo, e quando no, lasciare 
                  che ognuno faccia come crede senza ostacolarsi l’un l’altro.
 Poiché, tutto ben considerato, nessuno può essere 
                  assolutamente sicuro di avere ragione, e nessuno ha sempre ragione.
 (“Pensiero 
                  e Volontà”, 1 aprile 1926)   
                      L’organizzazione 
                   Un’organizzazione 
                  anarchica deve essere fondata secondo me… (sulle seguenti 
                  basi). Piena autonomia, piena indipendenza, e quindi piena responsabilità, 
                  degli individui e dei gruppi; accordo libero tra quelli che 
                  credono utile unirsi per cooperare ad uno scopo comune; dovere 
                  morale di mantenere gl’impegni presi e di non far nulla 
                  che contraddica al programma accettato. Su queste basi si adottano 
                  poi le forme pratiche, gli strumenti adatti per dar vita reale 
                  all’organizzazione. Quindi i gruppi, le federazioni di 
                  gruppi, le federazioni di federazioni, le riunioni, i congressi, 
                  i comitati incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto 
                  questo deve esser fatto liberamente, in modo da non inceppare 
                  il pensiero e l’iniziativa dei singoli, e solo per dare 
                  maggiore portata agli sforzi che, isolati, sarebbero impossibili 
                  o di poca efficacia.
 Così i congressi in un’organizzazione anarchica, 
                  pur soffrendo come corpi rappresentativi di tutte le imperfezioni 
                  che ho fatto notare, sono esenti da ogni autoritarismo perché 
                  non fanno la legge, non impongono agli altri le proprie deliberazioni. 
                  Essi servono a mantenere ed aumentare i rapporti personali fra 
                  i compagni più attivi, a riassumere e fomentare gli studi 
                  programmatici sulle vie o sui mezzi di azione, a far conoscere 
                  a tutti le situazioni delle diverse regioni e l’azione 
                  che più urge in ciascuna di esse, a formulare le varie 
                  opinioni correnti tra gli anarchici e farne una specie di statistica 
                  – e le loro decisioni non sono regole obbligatorie, ma 
                  suggerimenti, consigli, proposte da sottoporre a tutti gli interessati, 
                  e non diventando impegnative ed esecutive se non per quelli 
                  che le accettano e finché le accettano. Gli organi amministrativi 
                  che essi nominano – Commissione di corrispondenza, ecc. 
                  – non hanno nessun potere direttivo, non prendono iniziative 
                  se non per conto di chi quelle iniziative sollecita ed approva 
                  e non hanno nessuna autorità per imporre le proprie vedute, 
                  che essi possono certamente sostenere e propagare come gruppi 
                  di compagni, ma non possono presentare come opinione ufficiale 
                  dell’organizzazione. Essi pubblicano le risoluzioni dei 
                  congressi e le proposte che gruppi e individui comunicano loro; 
                  e servono, per chi se ne vuol servire, a facilitare le relazioni 
                  fra i gruppi e la cooperazione tra quelli che son d’accordo 
                  sulle varie iniziative: libero chi crede di corrispondere direttamente 
                  con chi vuole, o di servirsi di altri comitati nominati da speciali 
                  aggruppamenti.
 In un’organizzazione anarchica i singoli membri possono 
                  professare tutte le opinioni e usare tutte le tattiche che non 
                  sono in contraddizione coi principi accettati e non nuocciono 
                  all’attività degli altri. In tutti casi una data 
                  organizzazione dura fino a che le ragioni di unione sono superiori 
                  alle ragioni di dissenso: altrimenti si scioglie e lascia luogo 
                  ad altri aggruppamenti più omogenei.
 Certo la durata, la permanenza di una organizzazione è 
                  condizione di successo nella lunga lotta che dobbiamo combattere 
                  e d’altronde è naturale che qualunque istituzione 
                  aspira, per istinto, a durare indefinitivamente. Ma la durata 
                  di una organizzazione libertaria deve essere la conseguenza 
                  dell’affinità spirituale dei suoi componenti e 
                  dell’adattabilità della sua costituzione ai continui 
                  cambiamenti delle circostanze: quando non è più 
                  capace di compiere una missione utile meglio che muoia.
 (“Il 
                  Risveglio”, 1-15 ottobre 1927)   
 Sindacalismo 
                   Oggi 
                  la più grande forza di trasformazione sociale è 
                  il movimento operaio (movimento sindacale), e dal suo indirizzo 
                  dipende in gran parte il corso che prenderanno gli avvenimenti 
                  e la meta a cui arriverà la prossima rivoluzione. Per 
                  mezzo delle organizzazioni, fondate per la difesa dei loro interessi, 
                  i lavoratori acquistano la coscienza dell’oppressione 
                  in cui giacciono e dell’antagonismo che li divide dai 
                  loro padroni, incominciano ad aspirare ad una vita superiore, 
                  si abituano alla lotta collettiva ed alla solidarietà, 
                  e possono riuscire a conquistare quei miglioramenti che sono 
                  compatibili con la persistenza del regime capitalistico e statale. 
                  Dopo, quando il conflitto diventa insanabile, viene o la rivoluzione, 
                  o la reazione. Gli anarchici debbono riconoscere l’utilità 
                  e l’importanza del movimento sindacale, debbono favorirne 
                  lo sviluppo, e farne una delle leve della loro azione, facendo 
                  tutto quello che possono perché esso, in cooperazione 
                  colle altre forze di progresso esistenti, sbocchi in una rivoluzione 
                  sociale che porti alla soppressione delle classi, alla libertà 
                  totale, all’eguaglianza, alla pace ed alla solidarietà 
                  fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una grande e letale illusione 
                  il credere, come fanno molti, che il movimento operaio possa 
                  e debba da se stesso in conseguenza della sua stessa natura, 
                  menare ad una tale rivoluzione. Al contrario, tutti i movimenti 
                  fondati sugl’interessi materiali ed immediati (e non si 
                  può fondare su altre basi un vasto movimento operaio), 
                  se manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli 
                  uomini d’idee, che combattono e si sacrificano in vista 
                  di un ideale avvenire, tendono fatalmente ad adattarsi alle 
                  circostanze, fomentano lo spirito di conservazione e la paura 
                  di cambiamenti in quelli che riescono ad ottenere condizioni 
                  migliori, e finiscono spesso col creare nuove classi privilegiate 
                  e servire a far sopportare e consolidare il sistema che si vorrebbe 
                  abbattere. Di qui la necessità impellente di organizzazioni prettamente 
                  anarchiche che dentro, come fuori dei sindacati, lottino per 
                  la realizzazione integrale dell’anarchismo e cerchino 
                  di sterilizzare tutti i germi di degenerazione e di reazione.
 (“Il 
                  Risveglio”, 1-15 ottobre 1927)  Compito degli anarchici, è quello di lavorare e rafforzare 
                  le coscienze rivoluzionarie tra gli organizzati e rimanere nei 
                  sindacati sempre come anarchici.
 Vero che in molti casi i sindacati, per esigenze immediate, 
                  sono costretti a delle transazioni, a dei compromessi. Io non 
                  li critico per questo, ma è proprio per questa ragione 
                  che io devo riconoscere ai sindacati un’essenza riformista.
 I sindacati fanno opera di affratellamento tra le masse proletarie 
                  ed eliminano i conflitti che altrimenti potrebbero prodursi 
                  tra lavoratori e lavoratori.
 Mentre i sindacati debbono fare la lotta per la conquista dei 
                  benefici immediati, e del resto è giusto ed umano che 
                  i lavoratori domandino dei miglioramenti, i rivoluzionari sorpassano 
                  anche questo. Essi lottano per la rivoluzione espropriatrice 
                  del capitale e l’abbattimento dello Stato, di ogni Stato, 
                  comunque si chiami.
 Poiché la schiavitù economica è frutto 
                  di quella politica, per eliminare l’una, bisogna abbattere 
                  l’altra, anche se Marx diceva l’opposto.
 Perché il contadino porta il grano al padrone?
 Perché vi è il gendarme ad obbligarvelo.
 Quindi il sindacalismo non può essere fine a se stesso, 
                  poiché la lotta deve essere anche combattuta sul terreno 
                  politico per estinguere lo Stato.
 Gli anarchici non vogliono dominare l’USI. (Unione Sindacale 
                  Italiana, organizzazione anarcosindacalista, N.d.R.); non lo 
                  vorrebbero neppure se tutti gli operai ad essa aderenti fossero 
                  anarchici, né essi intendono assumere la responsabilità 
                  delle transazioni. Noi che non vogliamo il potere, desideriamo 
                  le coscienze soltanto; sono coloro i quali desiderano dominare 
                  che preferiscono avere delle pecore per meglio guidarle.
 Preferiamo degli operai intelligenti, fossero anche nostri avversari, 
                  a degli anarchici che siano tali solo per seguirci pecorilmente.
 Vogliamo per tutti la libertà; vogliamo che la rivoluzione 
                  la faccia la massa per la massa.
 L’uomo che pensa col proprio cervello è preferibile 
                  a quello che ciecamente approva tutto. Per questo, come anarchici, 
                  siamo per l’USI perché questa sviluppa le coscienze 
                  nella massa. Vale meglio un errore commesso con coscienza, credendo 
                  di fare bene, che una cosa buona fatta servilmente.
 (“Umanità 
                  Nova”, 14 marzo 1922)  In una parola, il sindacato operaio è, per sua natura 
                  riformista e non già rivoluzionario. Il rivoluzionarismo 
                  vi deve essere immesso, sviluppato e mantenuto per l’opera 
                  costante dei rivoluzionari che agiscono fuori e dentro del suo 
                  seno, ma non può essere l’esplicazione naturale 
                  e normale della sua funzione. Al contrario, gl’interessi 
                  attuali ed immediati degli operai associati, che il sindacato 
                  ha missione di difendere, son molto spesso in opposizione colle 
                  aspirazioni ideali ed avveniristiche; ed il sindacato può 
                  fare opera rivoluzionaria solo se è pervaso dallo spirito 
                  di sacrificio e nella proporzione che l’ideale è 
                  messo al di sopra dell’interesse, cioè solo se 
                  e nella proporzione che cessa di essere sindacato economico 
                  e diventa gruppo politico e idealistico, il che non è 
                  possibile nelle grandi organizzazioni che per agire han bisogno 
                  del consentimento della massa sempre più o meno egoista, 
                  paurosa e retriva.
 (“Umanità 
                  Nova”, 13 aprile 1922)  
 Divisione del lavoro
 Noi 
                  ammettiamo certamente la divisione del lavoro e ne apprezziamo 
                  i vantaggi; ma ne conosciamo pure i danni ed i pericoli. La 
                  divisione del lavoro è stata una fra le cause dell’assoggettamento 
                  delle masse al dominio delle caste privilegiate. E col principio 
                  della divisione del lavoro si può tentare la giustificazione 
                  di tutte le mostruosità sociali: divisione tra lavoro 
                  mentale e lavoro manuale, divisione tra il lavoro di direzione 
                  e quello di esecuzione, divisione tra il lavoro di produzione 
                  e quello di difesa dei produttori… che poi si riassumono 
                  e si concretano nella divisione tra il lavoro di mangiare e 
                  quello di produrre, tra il lavoro di bastonare e quello di farsi 
                  bastonare. Menenio Agrippa conosceva già quest’argomento. 
                  Noi crediamo che carattere essenziale, non solo dell’anarchismo 
                  ma del socialismo in genere, sia il volere che certe funzioni 
                  debbano appartenere indistintamente a tutti i membri della società, 
                  malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero essere nell’affidarle 
                  ad una classe speciale. Si divida pure il lavoro fino a che 
                  si può, per aumentare la produzione e facilitare il funzionamento 
                  della vita sociale: ma sian salvi innanzi tutto l’integrale 
                  sviluppo e l’eguale libertà di tutti gl’individui.
 (“Agitazione”, 
                  1897)  
 L’uomo della strada
 Non 
                  bisogna trascurare “l’uomo della strada”, 
                  che è poi in tutti i paesi la grande maggioranza della 
                  popolazione; ma non bisogna neppure fare troppo affidamento 
                  sulla sua intelligenza e sulla sua capacità d’iniziativa. 
                  L’uomo ordinario, “l’uomo della strada”, 
                  ha molte ottime qualità, ha immense potenzialità 
                  che danno sicura speranza ch’esso potrà un giorno 
                  formare l’umanità ideale che noi vagheggiamo; ma 
                  esso ha intanto un grave difetto che spiega in gran parte il 
                  sorgere ed il persistere delle tirannie: esso non ama pensare, 
                  ed anche nei suoi conati di emancipazione segue sempre più 
                  volentieri chi gli risparmia la fatica di pensare e prende su 
                  di sé la responsabilità di organizzare, dirigere… 
                  e comandare. Esso, purché non lo si disturbi troppo nelle 
                  sue abitudini, è soddisfatto se altri pensa per lui e 
                  gli dice quello che deve fare, anche se a lui non resta che 
                  il dovere di lavorare e di ubbidire.
 Questa debolezza, questa tendenza della folla ad aspettare e 
                  seguire gli ordini di chi si mette alla sua testa, ha mandato 
                  a male tante rivoluzioni e continua ad essere il pericolo che 
                  minaccia le rivoluzioni prossime future.
 Se la folla non fa da sé e subito, bisogna bene che provvedano 
                  al necessario uomini di buona volontà, capaci di iniziativa 
                  e di decisione. Ed è in questo, cioè nel modo 
                  di provvedere alle necessità urgenti, che dobbiamo distinguerci 
                  nettamente dai partiti autoritari.
 Gli autoritari intendono risolvere la questione costituendosi 
                  in governo ed imponendo colla forza il loro programma. Essi 
                  possono anche essere in buona fede e credere sinceramente di 
                  fare il bene di tutti, ma in realtà, ostacolando la libera 
                  azione popolare, non riuscirebbero ad altro che a creare una 
                  nuova classe privilegiata interessata a sostenere il nuovo governo, 
                  ed in sostanza a sostituire una tirannia con un’altra.
 Gli anarchici devono bensì sforzarsi di rendere il meno 
                  faticoso possibile il passaggio dallo stato di servitù 
                  a quello di libertà, fornendo al pubblico il più 
                  possibile di idee pratiche ed immediatamente applicabili, ma 
                  debbono guardarsi bene dall’incoraggiare quell’inerzia 
                  intellettuale e quella tendenza a lasciare fare agli altri ed 
                  ubbidire, che abbiamo lamentate.
 La rivoluzione, per riuscire veramente emancipatrice, dovrà 
                  svolgersi liberamente in mille modi diversi, corrispondenti 
                  alle mille diverse condizioni morali e materiali degli uomini 
                  d’oggi, per la libera iniziativa di tutti e di ciascuno. 
                  E noi dovremo suggerire e realizzare il più possibile 
                  quei modi di vita che meglio corrispondono ai nostri ideali, 
                  ma soprattutto dobbiamo sforzarci di suscitare nelle masse lo 
                  spirito di iniziativa e l’abitudine di fare da sé.
 Noi dobbiamo evitare anche le apparenze del comando, ed agire 
                  colla parola e con l’esempio come compagni tra compagni; 
                  e ricordarci che a voler troppo forzare le cose nel senso nostro 
                  e far trionfare i nostri piani; correremmo il rischio di tarpare 
                  le ali alla rivoluzione ed assumere noi stessi, più o 
                  meno inconsciamente, quella funzione di governo, che tanto deprechiamo 
                  negli altri.
 E come governo noi non varremmo certamente meglio degli altri. 
                  Forse anche saremmo più pericolosi per la libertà, 
                  perché convinti fortemente di aver ragione e di fare 
                  il bene, saremmo inclinati, da veri fanatici, a considerare 
                  quali controrivoluzionari e nemici del bene tutti quelli che 
                  non pensassero ed agissero come noi.
 Ché se poi quello che gli altri fanno non fosse quello 
                  che vorremmo noi, la cosa non avrebbe importanza, sempreché 
                  fosse salvaguardata la libertà di tutti.
 Ciò che veramente importa è che la gente faccia 
                  come vuole, perché non vi sono conquiste assicurate se 
                  non quelle che il popolo fa coi propri sforzi, non vi sono riforme 
                  definitive se non quelle reclamate ed imposte dalla coscienza 
                  popolare.
 (“Almanacco 
                  libertario”, Ginevra, 1931)  
 La tattica elettorale
 Il 
                  terreno comune su cui si incontrarono i borghesi, che cercavano 
                  di corrompere, e quei socialisti, che cercavano di essere corrotti, 
                  fu l’urna elettorale. Né il danno sarebbe stato 
                  grande. Ma i traditori, gli ambiziosi e gli stanchi riuscirono 
                  purtroppo a trascinare all’urna molti buoni, che credevano 
                  sinceramente di acquistare una nuova arma di lotta contro la 
                  borghesia, e di avvicinare con quel mezzo l’avvenimento 
                  della rivoluzione. Naturalmente per mascherare la manovra il passaggio si fece 
                  a gradi.
 Al principio non si infirmò nessuna delle conclusioni 
                  acquisite al programma socialista. L’espropriazione per 
                  mezzo della rivoluzione, si andava ripetendo, è l’unico 
                  mezzo per emanciparsi: il suffragio universale, la repubblica 
                  e tutte quante le riforme politiche lasciano il tempo che trovano 
                  e non sono che tranelli tesi all’ingenuità popolare. 
                  Però, s’insinuava dolcemente, qualche bene se ne 
                  può cavare: profittiamo di tutto, serviamoci come armi 
                  delle concessioni che possiamo strappare, al nemico, allarghiamo 
                  il nostro campo di azione, cessiamo dal roderci nella nostra 
                  impotenza, siamo pratici. E tosto si mise avanti il progetto 
                  di andare all’urna, scopo a cui tendeva ed in cui si riduceva 
                  tutto quel preteso allargamento di tattica. Ma siccome non s’osava 
                  ancora rinnegare tutto il detto sulla inutilità della 
                  lotta elettorale e sull’azione corruttrice dell’ambiente 
                  parlamentare, si disse che bisognava votare semplicemente per 
                  contarsi, quasi che fosse necessario andare all’urna e 
                  farsi contare dal nemico per giudicare dei progressi del partito. 
                  E per affettare scrupolosità si parlò di votare 
                  un bollettino in bianco, o per dei morti o per degli ineleggibili. 
                  Poi, senza aver l’aria di nulla, i morti diventarono vivi 
                  e gl’ineleggibili si trasformarono in persone che al parlamento 
                  potevano e volevano andarci e restarci. Ma non si osava confessarlo: 
                  si trattava sempre di candidature di protesta: gli eletti non 
                  entrerebbero in parlamento, rifiuterebbero il giuramento là 
                  dove era richiesto, o c’entrerebbero per sputare in faccia 
                  alla borghesia la infamia sua, e farsi scacciare come nemico 
                  che non transige. Poi nemmeno più questo. In parlamento 
                  bisognava andarci per profittare della tribuna parlamentare, 
                  per iscoprire e denunciare al popolo i dietro scena della politica, 
                  per avere dei posti avanzati nel campo nemico, dei posti presi 
                  nella cittadella borghese.
 Il deputato socialista non doveva essere legislatore, non doveva 
                  aver nessun legame coi deputati della borghesia, ma stare in 
                  parlamento come spettro minaccioso della rivoluzione sociale 
                  in mezzo a coloro che vivono dei sudori e del sangue del popolo.
 Ma che!… oramai si stava sulla china e bisognava andare 
                  fino in fondo. Il partito rivoluzionario, che entrava in parlamento, 
                  doveva diventar riformista, e lo diventò.
 L’emancipazione integrale, cominciarono a dire, è 
                  una bella cosa, ma è come il paradiso: una cosa lontana 
                  lontana e che nessuno ha mai visto. Il popolo ha bisogno di 
                  miglioramenti immediati. Meglio poco che nulla. La rivoluzione 
                  sarà tanto più facile quanto più concessioni 
                  ci saranno strappate alla borghesia. Senza contar quelli, pochi, 
                  del resto, che hanno saltato il fosso affermando che si può 
                  raggiungere lo scopo per evoluzione pacifica.
 E s’invocò la scienza, quella povera scienza che 
                  s’accomoda a tutte le salse, per sofisticare all’infinito 
                  sul tema evoluzione e rivoluzione; quasiché vi fosse 
                  alcuno che neghi l’evoluzione, e la questione non fosse 
                  piuttosto sulla specie di evoluzione, che più corrisponde 
                  al fine socialista – e che quindi i socialisti devono 
                  propugnare.
 (1890-91) 
                   Masse e rivoluzione
 È 
                  completamente erroneo che per abbattere il capitalismo bisogna 
                  aspettare che i milioni di cattolici siano diventati liberi 
                  pensatori, e che gli operai siano tutti (o in maggioranza) organizzati 
                  per la lotta di classe. Non equivochiamo. È una verità assiomatica, lapalissiana, 
                  che la rivoluzione non si può fare se non quando vi sono 
                  forze sufficienti per farla. Ma è una verità storica 
                  che le forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni 
                  sociali non si calcolano coi bollettini del censimento.
 I cattolici resteranno numerosi come sono, e magari aumenteranno, 
                  fino a quando vi sarà una classe, potente di ricchezza 
                  e di scienza, interessata a tenere la massa nella schiavitù 
                  intellettuale per potere meglio dominarla. Gli operai non saranno 
                  mai tutti organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre 
                  soggette a disfarsi o a degenerare fino a quando la miseria, 
                  la disoccupazione, la paura di perdere il posto, il desiderio 
                  di migliorare di condizioni alimenteranno la rivalità 
                  tra operai e daranno modo ai padroni di profittare di tutte 
                  le circostanze, di tutte le crisi per mettere gli operai in 
                  concorrenza gli uni contro gli altri. E gli elettori resteranno 
                  sempre montoni per definizione anche se qualche volta accade 
                  loro di tirar delle cornate.
 È cosa provata che date certe condizioni economiche, 
                  dato un certo ambiente sociale, le condizioni intellettuali 
                  e morali della massa restano sostanzialmente le stesse e, fino 
                  a quando un fatto esterno, un fatto idealmente o materialmente 
                  violento non viene a modificare quell’ambiente, la propaganda, 
                  l’educazione, l’istruzione restano impotenti e non 
                  riescono ad agire che sopra quel numero d’individui che, 
                  in forza di privilegi naturali o sociali, possono vincere l’ambiente 
                  in cui sono costretti a vivere. Ma quel piccolo numero, quella 
                  minoranza cosciente e ribelle che ogni ordine sociale partorisce 
                  in conseguenza delle stesse ingiustizie a cui la massa è 
                  soggetta, agisce come fermento storico e basta, è sempre 
                  bastato, a far progredire il mondo.
 Ogni nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni 
                  rivoluzione è stata sempre l’opera di minoranze. 
                  È nostra aspirazione, è nostro scopo quello di 
                  far assurgere tutti quanti gli uomini a fattori effettivi, a 
                  forze coscienti della vita sociale; ma per riuscire a questo 
                  scopo occorre dare a tutti i mezzi di vita e di sviluppo, e 
                  perciò bisogna abbattere, con la violenza poiché 
                  non si può fare altrimenti, la violenza che questi mezzi 
                  nega ai lavoratori.
 Naturalmente il “piccolo numero”, la minoranza, 
                  deve essere sufficiente, e ci giudica male chi pensa che noi 
                  vorremmo fare un’insurrezione al giorno senza tener conto 
                  delle forze in contrasto e delle circostanze favorevoli o meno.
 Noi abbiamo potuto fare, abbiamo fatto realmente, in tempi oramai 
                  remoti dei minuscoli moti insurrezionali che non avevano alcuna 
                  probabilità di successo. Ma allora eravamo davvero in 
                  quattro gatti, volevamo obbligare il pubblico a discuterci ed 
                  i nostri tentativi erano semplicemente dei mezzi di propaganda.
 Ora non si tratta più d’insorgere per far propaganda: 
                  ora possiamo vincere, quindi vogliamo vincere, e non facciamo 
                  tentativi se non quando ci pare di poter vincere. Naturalmente 
                  possiamo ingannarci e, per ragione di temperamento, possiamo 
                  credere il frutto maturo quando ancora è acerbo; ma confessiamo 
                  la nostra preferenza per coloro che vogliono fare troppo presto 
                  contro quegli altri che vogliono sempre aspettare, che lasciano 
                  di proposito passare le migliori occasioni e, per paura di cogliere 
                  un frutto acerbo lasciano tutto marcire.
 Insomma noi siamo perfettamente d’accordo con “La 
                  Giustizia” quando insiste sulla necessità di fare 
                  molta propaganda e di sviluppare il più possibile le 
                  organizzazioni proletarie di lotta; ma ci stacchiamo recisamente 
                  da essa quando pretende che per agire bisogna aspettare di avere 
                  attirato a noi la maggioranza di quella massa inerte che non 
                  sarà convertita se non dai fatti, che non accetterà 
                  la rivoluzione se non dopo che la rivoluzione sarà iniziata.
  
                  (“Umanità Nova”, 6 ottobre 1921)   Per informazioni sulle altre Letture (Bakunin, Kropotkin, Proudhon), 
                  sulla rivista anarchica “A”, sui numerosi nostri 
                  altri prodotti collaterali 
                  (compresi i Cd e il 
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