| Parecchie decine di 
                  migliaia di prigionieri, accusati di aver partecipato al genocidio 
                  del 1994, marciscono nelle carceri ruandesi. Il caso del Ruanda 
                  è unico al mondo a causa della natura dell’accusa, 
                  del numero dei detenuti in rapporto alla popolazione – 
                  il Ruanda detiene il rapporto percentuale più elevato 
                  del mondo – e alla capienza del sistema penitenziario, 
                  e della quasi totale distruzione dell’apparato giudiziario 
                  dovuta al genocidio e alla guerra che ne è seguita. Quattro 
                  anni dopo il genocidio, c’erano ancora 130.000 detenuti. 
                  Un certo numero è stato liberato, naturalmente, ma pochi, 
                  e si continua ad arrestarne altri. Nel 2002 la situazione carceraria 
                  in Ruanda era praticamente identica a quella della fine del 
                  1994 ed è destinata a durare. Le autorità, nell’intento di trovare una soluzione 
                  a questo rompicapo, hanno inviato la direttrice dell’amministrazione 
                  penitenziaria dell’epoca a rappresentare il Ruanda al 
                  seminario panafricano di Kampala sulle condizioni di detenzione 
                  in Africa, organizzato da Penal Reform International 
                  nel settembre 1996. Ma il primo contatto diretto tra la PRI 
                  e lo Stato ruandese si è verificato soltanto nell’aprile 
                  1997, dopo che la Commissione europea ci aveva chiesto di inviare 
                  una missione sul posto, al fine di studiare la possibilità 
                  di dare un contributo all’amministrazione penitenziaria 
                  nella gestione del sistema carcerario del Paese. Tale missione 
                  ha consentito alla PRI di constatare l’esistenza di un’autentica 
                  volontà politica delle autorità ruandesi ad affrontare 
                  la questione, cosa che l’ha convinta a intervenire, tanto 
                  più che l’Unione europea, cui si sono ben presto 
                  aggiunti britannici, olandesi, svizzeri e svedesi, ha fornito 
                  i mezzi per farlo.
 
                  
                    |  |   Situazione abnorme
 Questa missione ha portato alla luce un’abnorme situazione 
                  carceraria. In Ruanda ci sono diciannove centri di detenzione 
                  ufficiali, più una moltitudine di altri definiti “galere”. 
                  I diciannove centri, distribuiti su tutto il territorio, funzionano 
                  come prigioni centrali e sono posti sotto la sorveglianza di 
                  militari smobilitati con la sovrintendenza dei servizi di sicurezza 
                  militare; per questi motivi l’amministrazione penitenziaria 
                  non ha avuto accesso a tali strutture, almeno nei primi anni. 
                  Gli altri luoghi di detenzione, organizzati in edifici di fortuna 
                  nel periodo dell’emergenza, sono totalmente sprovvisti 
                  di infrastrutture adeguate. Inizialmente si prevedeva che queste 
                  sarebbero state strutture provvisorie, ma con il passare degli 
                  anni si sono trasformati in carceri permanenti. Poiché 
                  ospitano migliaia di persone (vi risiede metà della popolazione 
                  carceraria), sono diventati immondezzai a cielo aperto e una 
                  autentica catastrofe per l’ambiente. A causa delle tonnellate 
                  di rifiuti accumulati, da quelle zone si sprigiona un odore 
                  pestilenziale che si avverte a chilometri di distanza. A ciò 
                  bisogna aggiungere che il personale penitenziario, composto 
                  perlopiù da militari smobilitati, ignora pressoché 
                  tutto delle mansioni cui dovrebbe ottemperare, rivelandosi del 
                  tutto incompetente. Nessuna prigione dispone di personale qualificato, e il poco 
                  disponibile è del tutto insufficiente: solo 300 guardie 
                  adibite alla sorveglianza di più di 100.000 detenuti! 
                  Il carcere di Nsinda, per esempio, che da solo rinchiude 12.000 
                  persone, è sorvegliato e gestito solo da 40 persone, 
                  dal direttore al piantone! Per rendere la propria quotidianità 
                  meno insopportabile, i detenuti si sono dedicati di propria 
                  iniziativa all’agricoltura, coltivando i campi fino a 
                  40 chilometri attorno alla prigione e vendendo i prodotti nel 
                  mercato più vicino. Con il ricavato delle vendite hanno 
                  persino acquistato un camion. La prigione è in effetti 
                  organizzata come una vera e propria autogestione e, malgrado 
                  la scarsezza di guardie, sono state registrate pochissime evasioni. 
                  Dal che si deduce che la maggior parte dei detenuti non è 
                  composta da individui da tenere per forza di cose sotto chiave.
 Inizialmente l’amministrazione penitenziaria era ridotta 
                  all’osso: la direttrice disponeva soltanto di tre collaboratori. 
                  I mezzi sono sempre stati drammaticamente esigui. All’epoca 
                  della mia prima visita, i detenuti non ricevevano i pasti. Quelli 
                  delle prigioni ufficiali erano totalmente a carico del CICR 
                  (Comitato Internazionale della Croce Rossa, N.d.R.). 
                  Ancora nel 2001 quest’ultimo forniva la metà del 
                  vitto delle diciannove carceri centrali, mentre gli altri detenuti 
                  erano nutriti totalmente dalle famiglie. Infatti, all’epoca, 
                  il CICR aveva rifiutato di farsene carico per non incoraggiare 
                  il mantenimento di quelle strutture.
 La situazione è leggermente migliorata dal periodo della 
                  prima missione, ma è ancora lungi dall’essere normalizzata. 
                  Le cose tuttavia si muovono, nonostante il fatto che nel 1999 
                  le carceri siano passate sotto la tutela del ministero dell’Interno, 
                  mentre prima dipendevano dal ministero della Giustizia. Con 
                  l’aiuto internazionale il sistema giudiziario ha cominciato 
                  a ricostituirsi, come la professione di avvocato. Nel 1995 in 
                  Ruanda erano rimasti soltanto venticinque avvocati, dei quali 
                  uno solo era hutu; per questo l’associazione Avocats 
                  sans frontières si è fatta carico di una 
                  parte della difesa degli accusati e delle vittime. Oggi gli 
                  avvocati ruandesi sono più di sessanta.
   Condizioni deplorevoli Ma, per il momento, soltanto 2.500 imputati sono stati processati, 
                  una goccia d’acqua nell’oceano dei detenuti! La 
                  lentezza è il problema più grave che la giustizia 
                  ruandese deve affrontare. Nel frattempo centinaia di detenuti 
                  muoiono ogni anno in prigione a causa delle condizioni di vita 
                  deplorevoli, segnate principalmente dalla fame e dalle malattie 
                  contagiose. Secondo fonti ufficiali, nelle carceri ruandesi 
                  si registra ogni anno un totale di decessi stupefacente. E ci 
                  sono poche speranze che il numero dei prigionieri diminuisca 
                  in maniera significativa a breve termine. La situazione è ancor più preoccupante in quanto, 
                  dal 1994, il Ruanda non costruisce più alcun nuovo penitenziario. 
                  Uno solo è stato ricostruito e altri sono stati ristrutturati 
                  grazie all’aiuto internazionale, in particolare un carcere 
                  femminile che si trovava in uno stato particolarmente deplorevole. 
                  È in corso, con il finanziamento dei Paesi Bassi, la 
                  costruzione di un grande complesso carcerario, destinato ad 
                  accogliere i detenuti processati e condannati a pene di lunga 
                  durata.
 A partire dal gennaio 1998, la PRI ha cominciato a intervenire 
                  concretamente per migliorare la situazione carceraria. La nostra 
                  associazione ha prima di tutto provveduto a una formazione sistematica 
                  del personale penitenziario, dalle guardie ai direttori. Grazie 
                  allo smobilizzo di contributi finanziari, abbiamo consentito 
                  all’amministrazione penitenziaria di assumere nuovo personale 
                  specializzato, formato da noi. In questo modo tutte le carceri 
                  hanno potuto disporre di cancellieri e contabili.
 Poi abbiamo incoraggiato lo sviluppo di attività produttive 
                  nelle carceri. In parecchie tali attività erano cominciate 
                  prima del nostro arrivo, per iniziativa degli stessi detenuti, 
                  intenzionati a mettere a frutto le proprie competenze e migliorare 
                  il magro rancio. In tal modo, alcuni agronomi incarcerati hanno 
                  cominciato a organizzare colture e allevamenti attorno ai centri 
                  di detenzione. In altri luoghi, grazie all’esistenza di 
                  specchi d’acqua, è stata privilegiata la piscicoltura. 
                  Abbiamo anche contribuito allo sviluppo della produzione artigianale 
                  in carcere, organizzando laboratori di falegnameria, sartoria, 
                  autoriparazioni e dando ai prigionieri la relativa formazione 
                  professionale.
 Il nostro primo obiettivo è stato quello di professionalizzare 
                  l’amministrazione e il personale penitenziario e di promuovere 
                  lo sviluppo di attività produttive. Attualmente, la nostra 
                  azione è entrata in una seconda fase, nel corso della 
                  quale riduciamo il sostegno alle microattività produttive 
                  per investire in progetti più importanti.
   Alternative 
                  al carcere Dal 2000 il governo ci ha interpellati per organizzare soluzioni 
                  alternative al carcere. Infatti le autorità ruandesi 
                  si sono rese conto che, se si lascia che le cose procedano senza 
                  intervenire, il passaggio in giudizio di tutti gli imputati 
                  occuperebbe parecchi decenni. Per questo stanno riportando in 
                  auge procedimenti giudiziari tradizionali, chiamati gaccaca, 
                  che consentiranno di accelerare i processi e di comminare pene 
                  alternative al carcere. Con questo intento è stata votata 
                  una legge, i cui decreti applicativi sono stati promulgati nell’agosto 
                  2001. Tra le altre cose, la legge precisa che le persone che 
                  confessano potranno godere di circostanze attenuanti e si vedranno 
                  dimezzare la pena da scontare in carcere, mentre l’altra 
                  metà sarà trasformata nell’obbligo a un 
                  lavoro di pubblica utilità. Per la prima volta nella 
                  storia, persone accusate di crimini contro l’umanità 
                  saranno semplicemente condannate a pene sostitutive. La PRI 
                  ha contribuito a concepire tale legge organizzando in Ruanda 
                  un seminario con esperti provenienti da parecchi Paesi e partecipando 
                  alla stesura del decreto applicativo sul lavoro di pubblica 
                  utilità. Il nostro intervento in Ruanda ha dunque cambiato natura, in 
                  ragione dell’evoluzione delle necessità e delle 
                  richieste delle autorità. C’è da sperare 
                  che il ricorso a questa forma modernizzata di giustizia tradizionale 
                  permetterà di chiudere le carceri di fortuna, liberando 
                  gli imputati la cui colpevolezza non si è riusciti ad 
                  accertare e trasferendo i condannati nelle prigioni normali.
  Ahmed Othmani (tratto dal volume La pena disumana)
 
                  
                    | 
 Ahmed 
                        Othmani | Elèuthera 
                         Ahmed 
                        Othmani con Sophie Bessis  LA 
                        PENA DISUMANA esperienze e proposte radicali di riforma penale
 Prefazione di Giuliano Pisapia
 Presentazione di Mary Robinson
 144 pp. / euro 12,00
 Ahmed 
                        Othmani, tunisino, è stato torturato e incarcerato 
                        (dal 1968 al 1979) per le sue idee politiche di sinistra. 
                        Uscito di prigione si trasferisce a Parigi, dove segue 
                        corsi universitari di Economia. Dal 1984 al 1989 è 
                        il responsabile di Amnesty International per i Paesi arabi 
                        e, dal 1991 al 1993, membro del Comitato esecutivo internazionale. 
                        Nel 1989 partecipa alla fondazione della ong Penal Reform 
                        International e ne diviene dapprima tesoriere e poi, dal 
                        1994, presidente. È autore di varie pubblicazioni 
                        sul tema dei diritti umani. Sophie Bessis, storica e giornalista francese, è 
                        autrice di vari libri, tra cui La Dernière 
                        Frontière (Parigi, 1983) e L’Occident 
                        et les autres (Parigi, 2001).
 |  
                  
                    | Ruanda: 
                        L’eredità del genocidio e della guerra del 
                        1994 ancora tutta da affrontare, denuncia Amnesty International. 
                         A 
                        dieci anni dai fatti del 1994, il genocidio, la guerra 
                        e l’Hiv/Aids hanno prodotto una generazione di bambini 
                        orfani che vivono in condizioni disperate e sono soggetti 
                        ad abusi e sfruttamento. Amnesty International ha diffuso oggi un rapporto (“Marchiate 
                        per morire: le sopravvissute allo stupro con l’Hiv/Aids 
                        in Ruanda”) in cui denuncia come gli scampati al 
                        genocidio del 1994 rimangano terrorizzati e traumatizzati, 
                        spesso ridotti ai margini della società e con scarso 
                        accesso ai servizi medici.
 “Le premesse per un ulteriore conflitto e per 
                        l’insicurezza resteranno in piedi fino a quando 
                        il governo del Ruanda non onorerà il suo proclamato 
                        impegno a rispettare i diritti umani” – 
                        ha affermato Amnesty International.
 L’organizzazione per i diritti umani chiede al governo 
                        ruandese e alla comunità internazionale di risarcire 
                        e ricompensare le vittime del genocidio e di prendere 
                        dovutamente in considerazione le richieste di giustizia 
                        provenienti dal Ruanda. La comunità internazionale, 
                        in particolare, dovrà dedicare risorse finanziarie, 
                        tecniche e politiche alla protezione dei diritti umani 
                        nel paese.
 Nel 1994, la popolazione ruandese assistette a una delle 
                        più orribili manifestazioni di violenza dello scorso 
                        secolo. Fino a un milione di persone vennero uccise nel 
                        corso del genocidio portato avanti dalle milizie interahamwe 
                        e delle rappresaglie del Fronte patriottico ruandese.
 Le sopravvissute allo stupro sono tra i gruppi più 
                        colpiti dal genocidio. Secondo stime delle Nazioni Unite, 
                        nel 1994 vennero perpetrati da 250.000 a 500.000 stupri. 
                        Molte delle vittime soffrono oggi di malattie a trasmissione 
                        sessuale, come il virus dell’Hiv/Aids, e nutrono 
                        ben poca speranza di ricevere cure mediche o un risarcimento. 
                        L’80% delle sopravvissute allo stupro è ancora 
                        fortemente traumatizzata.
 Sebbene l’accesso ai trattamenti medici sia migliorato 
                        rispetto al passato, la grande maggioranza di queste donne 
                        possono solo sperare che, una volta decedute, qualcuno 
                        riesca a occuparsi dei loro figli. Amnesty International 
                        chiede al governo del Ruanda di garantire, con l’aiuto 
                        dei paesi donatori, la fornitura di cure mediche a tutte 
                        le sopravvissute alla violenza sessuale.
 È emblematica una delle storie raccolte da Amnesty 
                        International nel corso delle sue missioni in Ruanda: 
                        “Il mio primo marito venne ucciso nel corso del 
                        genocidio, quando mio figlio aveva tre mesi. I miliziani 
                        mi stuprarono. Quando seppi che avevo contratto il virus 
                        dell’Hiv/Aids, il mio secondo marito divorziò 
                        lasciandomi sola con tre figli. Ora non so dove trovare 
                        i soldi per il cibo, l’affitto, la scuola. La mia 
                        più grande preoccupazione è che cosa accadrà 
                        ai miei figli se morirò”.
 “Il Ruanda si trova di fronte a sfide enormi 
                        nell’amministrazione della giustizia. Ciò 
                        nonostante, senza indagare e punire le violazioni commesse 
                        tanto dal governo genocida quanto da quello in carica 
                        del Fronte patriottico ruandese, i diritti dei ruandesi 
                        continueranno a essere violati e si creeranno le condizioni 
                        per una instabilità e una impunità durature”.
 Roma, 
                        6 aprile 2004  Il 
                        rapporto “Marchiate per morire: le sopravvissute 
                        allo stupro con l’Hiv/Aids in Ruanda” è 
                        disponibile presso il sito www.amnesty.org 
                        e l’Ufficio stampa di Amnesty International Italia. 
                         Per 
                        ulteriori informazioni, approfondimenti e interviste: 
                        Amnesty International Italia – Ufficio stampa Tel. 06 4490224 - cell. 348-6974361 - email: press@amnesty.it
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