| a Didier Demorcy  Prima di tutto inquadriamo 
                  il contesto in cui Kropotkin interroga le teorie darwiniane. 
                  Nel suo libro del 1902, Il mutuo appoggio, l’autore 
                  racconta che cercando con entusiasmo, nel proprio campo, le 
                  prove dell’evoluzione e della selezione, si è stupito 
                  della differenza fra le sue osservazioni e quelle che fondano 
                  la teoria della selezione. Quando esplorai la regione del Vitim, in compagnia di quel compiuto 
                  zoologo che era il mio amico Poliakoff [...] cercammo invano 
                  delle prove dell’aspra concorrenza tra gli animali della 
                  stessa specie che la lettura dell’opera di Darwin ci aveva 
                  preparato a trovare [...]. Ma anche nelle regioni dell’Amúr 
                  e dell’Ussuri, ove pullula la vita animale, non potei 
                  che molto di rado, nonostante l’attenzione che vi prestavo, 
                  notare dei fatti di una reale concorrenza, di una vera lotta 
                  tra gli animali superiori di una stessa specie. La stessa impressione 
                  si ha dalle opere della maggior parte degli zoologi russi.
 Al contrario, scrive, ho visto soltanto prove di mutuo appoggio, 
                  di amicizia e di solidarietà: nutrire lo straniero, adottare 
                  l’orfano, aiutare l’altro in difficoltà talvolta 
                  a rischio della propria vita, ecco come si comportano gli animali. 
                  Non ho visto da nessuna parte quella lotta di tutti contro tutti, 
                  quella competizione feroce per le risorse. Gli animali non solo 
                  evitano la lotta, ma si aiutano a vicenda. Lo stesso problema 
                  della sovrappopolazione trova una soluzione originale, che non 
                  le fa affatto perdere la sua funzione di motore dell’evoluzione, 
                  perché in quelle condizioni gli animali alla lotta preferiscono 
                  il cambiamento di nicchia ecologica, sotto forma di migrazioni 
                  o di adattamenti diversi. Quando i castori sono troppo numerosi 
                  in un punto del fiume, il gruppo si divide: alcuni risalgono 
                  a monte, altri discendono a valle.
 
  Mutuo appoggio
 Se Rousseau ha commesso l’errore di sopprimere dalla 
                  sua concezione la lotta tutta «zanne e artigli», 
                  Huxley ha commesso l’errore opposto; ma né l’ottimismo 
                  di Rousseau, né il pessimismo di Huxley possono essere 
                  accettati come un’imparziale interpretazione della natura. 
                  Quando studiamo gli animali, non soltanto nei laboratori e nei 
                  musei, ma nelle foreste e nella prateria, nelle steppe e sulla 
                  montagna, ci accorgiamo subito che, benché vi sia nella 
                  natura una somma enorme di guerra fra le specie diverse, e soprattutto 
                  fra le differenti classi di animali, vi è altrettanto, 
                  o fors’anche più, del mutuo appoggio, dell’aiuto 
                  reciproco e della mutua difesa tra gli animali appartenenti 
                  alla medesima specie o, almeno, alla stessa società. 
                 I primati non smentiscono questo modello. Benché siano 
                  caratterizzati da una grandissima varietà di specie, 
                  si può affermare che la socievolezza, l’azione 
                  in comune, la protezione reciproca e l’alto sviluppo dei 
                  sentimenti, che sono un risultato naturale della vita sociale, 
                  sono propri alla maggioranza delle specie delle scimmie. La 
                  maggior parte di esse, spiega Kropotkin, diventano molto infelici 
                  quando sono in solitudine, e le grida di dolore di una di loro 
                  fanno immediatamente accorrere l’intero branco. Sempre 
                  in branchi saccheggiano i nostri campi, mentre le scimmie più 
                  anziane si prendono cura della sicurezza della comunità. 
                 Le piccole ti-tis, la dolce figura delle quali colpì 
                  tanto Humboldt, s’abbracciano e si proteggono vicendevolmente 
                  quando piove [...]. Parecchie specie mostrano la massima sollecitudine 
                  per i loro feriti, e non abbandonano una compagna ferita durante 
                  la ritirata, fino a che non si sono accertate che è morta 
                  e che sono impotenti a richiamarla in vita. James Forbes narra 
                  nelle sue Memorie d’Oriente che alcune di queste 
                  scimmie mostrarono una tale perseveranza nel reclamare dai suoi 
                  compagni cacciatori il cadavere d’una femmina, che si 
                  comprende bene perché “i testimoni di questa scena 
                  straordinaria risolvessero di mai più tirare sopra nessuna 
                  specie di scimmia”.  Le amadriadi fanno appostare delle sentinelle, e il loro coraggio 
                  è quasi leggendario, come testimoniano le spedizioni 
                  che si sono trovate ad affrontarlo. L’attaccamento reciproco 
                  che regna nelle famiglie degli scimpanzé, sostiene Kropotkin, 
                  è noto a tutti i lettori. Qui, accanto al vecchio babbuino eroico già messo in 
                  scena da Darwin, non compaiono né il padrone geloso né 
                  il concorrente battagliero che coesistevano nel sistema darwiniano. 
                  Al contrario, Kropotkin mette esplicitamente in discussione 
                  la loro esistenza: secondo lui, quelle scimmie non sono che 
                  rare eccezioni, e la loro testimonianza non vale, nella misura 
                  in cui “sono sottoposte a vincoli che sanciscono la loro 
                  degenerazione”. L’ipotesi che permetteva a Darwin 
                  di riportare il suo selvaggio nella continuità viene 
                  ora a escludere la sua scimmia originaria. Per Kropotkin, infatti, 
                  il selvaggio non ha alcun bisogno di essere oggetto di una costruzione 
                  tanto complicata. Al contrario, in un certo senso egli favorisce 
                  la scomparsa dalla scena del padrone geloso e battagliero – 
                  restituendogli del resto il complimento: il degenerato è 
                  lui.
 Tuttavia, i nostri due autori sono entrambi d’accordo 
                  su un punto: la nostra socialità e la nostra intelligenza 
                  sono un prodotto dell’evoluzione, ed è del tutto 
                  legittimo chiamare il selvaggio a testimoniare. Il loro accordo 
                  si limita a questo: tutti gli schemi esplicativi delle tracce 
                  dell’evoluzione, osserva Kropotkin, sono inficiati da 
                  un doppio errore. Il primo è dovuto ai modelli animali 
                  di cui si avvalgono, il secondo alla scarsa comprensione dei 
                  popoli primitivi. Cominciamo dal secondo, che permetterà 
                  di spiegare il primo.
 
                  
                    |  |    Informazioni da cestinare Secondo Kropotkin, se le osservazioni degli antropologi possono 
                  aiutarci a comprendere l’origine dell’uomo, soprattutto 
                  perché i primitivi hanno conservato tracce e vestigia 
                  delle istituzioni più antiche, le informazioni che la 
                  maggior parte di questi ricercatori ci ha riportato sono in 
                  genere da cestinare: sono stati totalmente incapaci di comprendere 
                  i primitivi. Infatti, questi ultimi sono quasi sempre descritti 
                  come selvaggi sanguinari. Tuttavia, continua Kropotkin, alcuni 
                  autori hanno creduto opportuno sostenere che i primitivi fossero 
                  esemplari degeneri di un’umanità che un tempo avrebbe 
                  conosciuto un più alto livello di civiltà. Ma 
                  tutte le osservazioni contraddicono la teoria della degenerazione. 
                  In realtà, questa teoria deve la sua esistenza a un’unica 
                  causa: la disastrosa qualità del lavoro degli antropologi 
                  che non hanno capito niente dei primitivi, e ancor meno degli 
                  animali. L’allusione è chiara, la critica senza 
                  appello. In primo luogo, osserva Kropotkin, queste osservazioni sono 
                  tutte inquadrate in schemi esplicativi che le falsano. È 
                  vero che “nel XVIII secolo il selvaggio e la sua vita 
                  ‘allo stato di natura’ furono idealizzati”. 
                  Ma oggi, “i dotti si sono portati all’estremo opposto, 
                  particolarmente dacché alcuni di essi, desiderosi di 
                  mostrare l’origine animale dell’uomo, ma non avendo 
                  familiari gli aspetti sociali della vita animale, si sono messi 
                  a caricare il selvaggio di tutti i caratteri ‘bestiali’ 
                  immaginabili”. Viene così chiaramente denunciata 
                  una duplice villania: quella che consiste nello screditare l’animale 
                  per meglio denigrare i selvaggi. Attribuire la bestialità 
                  ai primitivi dimostra unicamente la potenza strategica di quella 
                  che oggi potremmo chiamare una «ignoranza interessata», 
                  che autorizza la bestializzazione dell’altro. Si tratta 
                  appunto di una doppia ignoranza. Tutte le cose orribili riferite 
                  sui primitivi testimoniano soltanto dei pregiudizi degli osservatori, 
                  e in particolare delle condizioni in cui le osservazioni sono 
                  state effettuate.
 In effetti, la maggior parte di quelle che ci sono state riportate 
                  dai missionari e dai viaggiatori sono del tutto improbabili. 
                  I Boscimani, per esempio, sono stati descritti da quegli stessi 
                  che li hanno sterminati. Inoltre, quando gli europei incontrano 
                  un’etnia primitiva cominciano generalmente col fare una 
                  caricatura dei suoi costumi. Ci sono così pervenute una 
                  quantità di osservazioni assurde che del primitivo danno 
                  l’immagine più orribile e superficiale. Il problema 
                  nasce dalla nostra mancanza di interesse e soprattutto dalla 
                  nostra incapacità di comprenderli. Citando Rink, Kropotkin 
                  riassume con chiarezza le due fonti della difficoltà: 
                  i pregiudizi e l’etnocentrismo che guidano le osservazioni.
 Gli europei allevati nel rispetto del diritto romano sono raramente 
                  capaci di comprendere la forza dell’autorità della 
                  tribù. Infatti, non è affatto un’eccezione, 
                  bensì la regola, che gli uomini bianchi [...] se ne tornino 
                  a casa senz’aver niente appreso sulle idee tradizionali 
                  che formano la base dello stato sociale degli indigeni. L’uomo 
                  bianco, che sia missionario o commerciante, ha ben salda l’opinione 
                  dogmatica che il più volgare europeo sia superiore all’indigeno 
                  più distinto. Tuttavia, spiega Kropotkin, ci si accorge che se l’osservatore 
                  è intelligente, e soprattutto se resta più a lungo 
                  con i primitivi, allora li descrive «come la migliore 
                  o la più dolce razza della terra. Gli stessi termini 
                  sono stati applicati agli Ostiachi, ai Samoiedi, agli Esquimesi, 
                  ai Daiachi, agli Aleutini, ai Papuasi, ecc.». Così, 
                  gli Ottentotti sono stati descritti da Lubbock come «i 
                  più sudici animali», e infatti, riconosce Kropotkin, 
                  sono sudici; «tuttavia coloro che li hanno visti da vicino 
                  lodano grandemente la loro socievolezza e la loro premura nell’aiutarsi 
                  reciprocamente. Se si dà qualche cosa a un Ottentotto, 
                  egli lo divide immediatamente con tutti quelli che sono presenti». 
                  Gli stessi Fuegini, che avevano tanto colpito Darwin, nonostante 
                  “una reputazione così cattiva, appaiono sotto una 
                  luce molto migliore quando cominciano a essere conosciuti meglio”.
    
   Amore per i figli L’infanticidio e l’abbandono dei feriti che avevano 
                  urtato Darwin ricevono qui una spiegazione e permettono una 
                  critica sferzante del nostro sistema sociale. Anzitutto, osserva 
                  Kropotkin, tutte le testimonianze concordano nell’affermare 
                  in modo unanime l’incredibile amore che i genitori provano 
                  per i loro figli. E non si deve pensare che i selvaggi si moltiplichino 
                  senza alcuna restrizione: al contrario prendono ogni sorta di 
                  misure per diminuire le nascite. «Tutta una serie di restrizioni, 
                  che gli europei troveranno certamente stravaganti, sono imposte 
                  a tale effetto, e vi si ubbidisce strettamente ma, in onta a 
                  tutto, i primitivi non riescono ad allevare tutti i loro bambini». 
                  Tuttavia, continua Kropotkin, a dimostrazione che gli infanticidi 
                  non sono un semplice effetto di costumi selvaggi o insensati, 
                  si è notato che, se riescono a incrementare i loro mezzi 
                  di sussistenza, l’infanticidio cessa immediatamente. I 
                  missionari, che li subissano di sermoni per moralizzarli, farebbero 
                  meglio a seguire l’esempio di Veniaminoff: questo prete 
                  russo ortodosso (che, dopo la sua canonizzazione, conosciamo 
                  con il nome di Innocenzo III), missionario in Alaska all’inizio 
                  del XIX secolo, sfidava regolarmente tutti i pericoli del mare 
                  per rifornire gli indigeni di pane e strumenti da pesca, e in 
                  questo modo riusciva a sopprimere completamente l’infanticidio. 
                  Inoltre, non si può negare che per i primitivi l’infanticidio 
                  sia un atto grave, che essi compiono di malavoglia e che tentano 
                  sempre di evitare. La consuetudine di inventare i giorni di 
                  nascita felici e infelici, per risparmiare i bambini nati nei 
                  giorni felici, lo spiega in modo esemplare, come ha dimostrato 
                  Élie Reclus. In altre circostanze, i genitori cercano 
                  di differire la sentenza e finiscono così per non eseguirla, 
                  perché se il piccino ha vissuto un giorno, deve vivere 
                  tutta la sua vita naturale. Quanto all’abbandono dei feriti o dei vecchi, non deve 
                  essere interpretato come un abbandono da parte della tribù, 
                  spiega Kropotkin, ma va inteso nel senso proprio anche alle 
                  usanze praticate in Russia, dove i vecchi contadini dicono al 
                  tramonto della loro vita: «Vivo la vita degli altri, è 
                  tempo di ritirarmi». Il vecchio stesso chiede di morire, 
                  e insiste su quest’ultimo dovere verso la comunità. 
                  Ottenuto il consenso della tribù, organizza egli stesso 
                  la sua dipartita. Ma questo, continua l’autore, i nostri 
                  studiosi occidentali non possono capirlo, perché non 
                  riescono a immaginare la coesistenza della moralità con 
                  queste pratiche che sembrano loro del tutto estranee. Ma se 
                  dicessimo a un selvaggio che «delle genti estremamente 
                  amabili, teneramente affezionate ai loro figli, e così 
                  impressionabili che piangono quando vedono una disgrazia simulata 
                  sulla scena, vivono in Europa a qualche passo da tuguri dove 
                  i fanciulli muoiono letteralmente di fame, a sua volta il selvaggio 
                  non li comprenderebbe».
 A questa critica radicale dell’etnocentrismo e della singolare 
                  parzialità degli occidentali quando si tratta di morale, 
                  si aggiunge un’altra critica: queste storie dell’origine 
                  in cui coinvolgiamo gli animali e i selvaggi sono segnate dal 
                  modo in cui ricostruiamo la storia in generale. Si inquadrano 
                  per lo più negli schemi che privilegiamo quando scriviamo 
                  o pensiamo la storia: gli schemi della guerra e dei conflitti. 
                  Ma questo modo di fare storia, scrive Kropotkin, si interessa 
                  soltanto alle guerre e ai conflitti di alcuni, cancellando completamente 
                  dalla scena migliaia di persone che vivono relazioni di pace 
                  e di cooperazione. «Vi sono sempre stati scrittori che 
                  hanno giudicato con pessimismo il genere umano. Essi lo conoscono 
                  più o meno superficialmente nei limiti della loro esperienza; 
                  essi sanno della Storia ciò che dicono gli analisti. 
                  Sempre attenti alle guerre, alle crudeltà, all’oppressione, 
                  e a non altro, ne concludono [qui Kropotkin allude alla teoria 
                  del filosofo inglese Hobbes] che l’umano genere non è 
                  altro che una fluttuante aggregazione di individui, sempre pronti 
                  a battersi l’un contro l’altro e trattenuti dal 
                  far questo unicamente per l’intervento di qualche autorità».
   La scimmia bellicosa Di conseguenza, la storia dell’origine non sarà 
                  mai altro che un mito ricostruito a partire da qualche scritto 
                  di filosofi pessimisti: un mito in cui un selvaggio viene coinvolto 
                  da antropologi incapaci, e in cui è chiamato a testimoniare 
                  un animale degenerato, accuratamente selezionato, quasi sempre 
                  prodotto da studi nei musei o da opere di compilazione. È a questo punto che la scimmia bellicosa di Darwin, 
                  quella che diventerà il totem di Freud e dell’Occidente, 
                  riceve da Kropotkin le motivazioni della sua condanna. Il primo 
                  errore di Hobbes, spiega l’autore, fu di pensare che l’umanità 
                  sia cominciata sotto la forma di piccole famiglie isolate, un 
                  po’ simili alle famiglie limitate e temporanee dei grandi 
                  carnivori. Le osservazioni di alcune specie scelte di primati 
                  sembrano confermare questa ipotesi. In realtà, tutto 
                  questo si basa su una totale ignoranza dei primati. Poiché, 
                  a parte alcune specie di scimmie, «la decadenza delle 
                  quali è indubitabile» – decadenza che spiega 
                  l’organizzazione eccezionale che incontriamo presso l’orango 
                  e il gorilla – nessun gruppo di scimmie vive in piccole 
                  famiglie isolate erranti nei boschi. Al contrario, esse vivono 
                  in branchi molto socializzati. E la struttura stessa di tali 
                  branchi, dice Kropotkin, rende molto improbabile l’esistenza 
                  di un «maschio forte e geloso». In primo luogo, 
                  la logica ci indica che questi branchi non possono essere poligami, 
                  perché il numero dei maschi è troppo rilevante. 
                  Inoltre, possiamo seriamente dubitare della validità 
                  dell’estensione a tutte le scimmie delle osservazioni 
                  condotte su alcune specie selezionate.
 Certi antropologi che hanno tentato di trovarci un’origine 
                  nei primati, continua Kropotkin, ammettono un po’ troppo 
                  facilmente che le scimmie vivono in famiglie poligame, sotto 
                  la guida di un «maschio forte e geloso». Ma queste 
                  osservazioni non sono risolutive: la maggior parte di esse si 
                  fonda su uno stesso studio, quello di Brehm, La vita degli 
                  animali; anzi, su un solo brano di questo libro! Il brano 
                  al quale gli autori si riferiscono riguarda una descrizione 
                  generale delle scimmie, in un certo senso un modello, “ma 
                  le sue descrizioni più particolareggiate delle specie 
                  separate non lo confermano oppure lo contraddicono”. La 
                  dimostrazione è esemplare: fra tutte le scimmie possibili, 
                  per rispondere alle domande sull’origine sarà scelta 
                  quella che può raccontare una storia presente negli schemi 
                  disponibili per pensarla.
 Si potrebbe affermare che i termini essenziali del confronto 
                  che proponevo fra Darwin e Kropotkin in ultima analisi consistano 
                  in questo: entrambi hanno fatto appello ai primati in progetti 
                  tutto sommato abbastanza diversi. La rivalità che costituiva 
                  una soluzione per il primo si rivela, per il secondo, un semplice 
                  effetto di pregiudizi. In un caso come nell’altro, il 
                  primitivo è coinvolto. E questo cambia molte cose: i 
                  selvaggi che tanto hanno spaventato Darwin sono riusciti a mobilitare 
                  Kropotkin in un progetto del tutto diverso, quello di esigere 
                  un modo garbato di porsi nei loro confronti, di rivolgere loro 
                  le domande giuste, che non sono necessariamente le nostre.
 Tuttavia, la riuscita di questo coinvolgimento non compete soltanto 
                  a Kropotkin. Sono passati trent’anni, e questi trent’anni 
                  hanno la loro importanza: i selvaggi non sono più gli 
                  stessi. Le pratiche si sono modificate. Anche Kropotkin, che 
                  accompagna sempre la sua analisi con la questione delle condizioni 
                  che permettono di conoscere, dice che le ricerche degli ultimi 
                  quarant’anni hanno contribuito a cambiare l’idea 
                  che ci si faceva del mondo primitivo. Così, il lavoro 
                  del suo amico geografo, Élie Reclus (Les Primitifs, 
                  1885), esemplificativo di queste nuove pratiche, era a disposizione 
                  di Kropotkin, ma non poteva essere conosciuto da Darwin. Certo, 
                  Élie Reclus è amico di Kropotkin ed essendo entrambi 
                  anarchici condividono un ideale comune. Gli interrogativi di 
                  Kropotkin trovano dunque nel suo lavoro un’articolazione 
                  privilegiata. Ma il fatto che Kropotkin possa richiedere maniere 
                  diverse di interrogare gli autoctoni esula ampiamente dall’ambito 
                  dei suoi rapporti amicali o politici. Infatti, nello stesso 
                  periodo sono stati pubblicati altri studi che sviluppano una 
                  nuova prospettiva. Basta guardare i testi cui Kropotkin fa riferimento 
                  quando commenta le nuove osservazioni con un «ora che 
                  li conosciamo meglio»: il saggio di Rink del 1887, quello 
                  di Post del 1890 e quello di Lewis Morgan del 1877; tutte date 
                  posteriori alla pubblicazione degli studi di Darwin.
 
   Ostaggi delle nostre domande Per Kropotkin, non si tratta semplicemente di coinvolgere i 
                  primitivi nella dimostrazione di un «buon» racconto 
                  dell’origine, si tratta anche di trovare un racconto che 
                  non li insulti, che non li renda bestiali, e che non li trasformi 
                  in ostaggi delle nostre domande e dei nostri problemi. Quando 
                  analizza il modo in cui sono cambiati i popoli non occidentali, 
                  quando descrive la maniera in cui hanno coinvolto i loro antropologi 
                  in nuovi quesiti, e come tali quesiti a loro volta abbiano attivato 
                  nuove storie, Kropotkin dà prova di un vero talento scientifico: 
                  quello di accettare l’impegno a «parlare per», 
                  quello di tener conto delle esigenze del «fare conoscenza». 
                  Non si tratta soltanto di imparare a «parlare correttamente 
                  di», si tratta di sottoporsi ai vincoli del «parlare 
                  correttamente per». Ricordiamoci che uno dei rimproveri 
                  rivolti al lavoro degli antropologi riguardava il modo di intendere 
                  le pratiche: quando l’osservatore è intelligente, 
                  e soprattutto quando resta più a lungo con i primitivi, 
                  scrive, ci si accorge allora che li descrive «come la 
                  migliore o la più mansueta razza della terra». 
                  La critica è appena dissimulata: come si può pretendere 
                  di spiegare coloro che non ci si prende la briga di conoscere 
                  e di comprendere? Come possiamo pretendere di interessarci a 
                  coloro cui non diamo alcuna possibilità di coinvolgerci? 
                  Come sperare di costruire un sapere attendibile nei confronti 
                  di coloro cui non viene data alcuna possibilità di stupire, 
                  di sconcertare, di «decentrare» colui che si rivolge 
                  a loro, e di raccontare dunque una storia diversa? Significa allora che le scimmie dell’origine sono diverse 
                  da quelle di Darwin perché è diverso il modo in 
                  cui Kropotkin è stato coinvolto dai primitivi? Devo confessare 
                  che questa versione è abbastanza affascinante, ma temo 
                  che sia troppo semplice. Certo, Kropotkin rende possibile una 
                  nuova versione dell’origine, in cui i selvaggi hanno un 
                  ruolo completamente diverso da svolgere. Ma questi ultimi non 
                  sono l’unica parte in causa. Le scimmie cui Darwin chiedeva 
                  di fornire le prove dell’evoluzione e della selezione 
                  naturale in Kropotkin danno il proprio sostegno a un altro progetto: 
                  quello di dimostrare l’evoluzione della natura, ma questa 
                  volta rompendo con il sistema della competizione. Come, a seconda 
                  dei tempi e delle ricerche, i primitivi sembrano richiedere 
                  un diverso modo di conoscerli, così la natura coinvolge 
                  Kropotkin in una storia diversa.
 Certo, rileggendo le critiche che Kropotkin rivolge alla teoria 
                  della selezione, e in particolare la sua critica della competizione 
                  e della lotta tutta «zanne e artigli», potremmo 
                  ricollegare questa nuova versione della teoria dell’evoluzione 
                  al suo progetto politico: quello di creare piccole comunità 
                  anarchiche organizzate sui principi della solidarietà. 
                  In questa prospettiva, non sarebbe quindi strano che Kropotkin 
                  cercasse nella natura le prove dell’esistenza di quella 
                  solidarietà e le condizioni che la rendono possibile. 
                  Sottoporremo così Kropotkin alla stessa critica che Marx 
                  rivolgeva a Darwin: nella natura vede soltanto ciò che 
                  la sua società (in questo caso utopica) lo induce a vedere. 
                  Ma una tale critica sarebbe di nuovo troppo semplice, e soprattutto 
                  ingiusta: così come, per comprendere le scelte di Darwin, 
                  ho invitato a procedere più cautamente, a rendere le 
                  cose più complicate, a prendere in considerazione un 
                  maggior numero di fatti e di questioni tecniche, di selvaggi 
                  vittoriani e di pratiche antropologiche, di abitudini degli 
                  animali e di testimonianze di quanti se ne interessano, seguendo 
                  Kropotkin dobbiamo esplorare anche ciò che ha reso possibile 
                  la versione di una diversa «natura». E fra le cose 
                  che hanno reso possibile questa versione dobbiamo annoverare 
                  la natura stessa. Infatti, come il periodo degli antropologi 
                  ha permesso una diversa testimonianza nei confronti degli autoctoni, 
                  così gli spazi della terra russa hanno richiesto per 
                  la natura una storia diversa. I selvaggi non sono gli stessi, 
                  e neppure gli animali.
 
                  
                    |  |    Naturalisti da scrivania  Per capire bene come questi animali abbiano potuto condurre 
                  Kropotkin a proporre una nuova versione, dobbiamo innanzi tutto 
                  notare una coincidenza: le critiche che egli formula contro 
                  l’antropologia trovano un preciso equivalente in quelle 
                  che rivolge ai teorici della natura. Ricordiamoci che quando 
                  chiede alla natura di testimoniare, Kropotkin descrive delle 
                  spedizioni. E proprio quelle spedizioni sono alla base della 
                  sua critica contro i naturalisti da scrivania: soltanto «quando 
                  studiamo gli animali, non nei laboratori e nei musei, ma nelle 
                  foreste e nella prateria, nelle steppe e sulla montagna» 
                  possiamo avere la possibilità di vedere, nella natura, 
                  qualcosa di diverso da ciò che la teoria, la storia o 
                  la filosofia ci hanno insegnato a vedere. Soltanto in questa 
                  situazione potremo vedere qualcosa di diverso da combattimenti, 
                  rivalità e competizione. Kropotkin racconta la storia 
                  singolare dell’incontro con l’ambiente, l’impressione 
                  che gli suscita il mondo animale della regione del Vatim in 
                  Siberia, la specificità delle vallate dell’Amúr 
                  e dell’Ussuri, dove pullula la vita animale... Inoltre, 
                  al termine di quelle osservazioni che lo disorientano perché 
                  non trova l’aspra concorrenza cui la lettura di Darwin 
                  l’aveva preparato, precisa che la stessa impressione si 
                  coglie nella maggior parte delle opere degli zoologi russi. 
                  Bisogna forse essere russi per vedere nella natura modalità 
                  di selezione differenti? A questo punto, prima di rispondere, 
                  dobbiamo soffermarci su un particolare sufficientemente importante 
                  perché Kropotkin lo citi. Non soltanto fa delle spedizioni, 
                  ma indica anche il luogo di tali spedizioni. Ovviamente, come 
                  preannunciava la sua critica, non le fa nei musei o nei giardini 
                  zoologici, ma neanche in qualche isola, vero e proprio laboratorio 
                  circoscritto, o negli esuberanti Tropici, e neppure nei boschi 
                  dell’Inghilterra; le fa nelle immense pianure della Russia.
 Kropotkin sa che il terreno delle sue ricerche non è 
                  lo stesso di Darwin, perché a quell’epoca è 
                  la rarità della vita, lo spopolamento, e non l’eccessiva 
                  popolazione, il tratto caratteristico di quella immensa parte 
                  del globo che chiamiamo Asia settentrionale. Ne è tanto 
                  più consapevole in quanto il suo esilio gli offre tutti 
                  i termini di paragone: ha passato buona parte della sua vita 
                  in Russia, prima che le sue idee politiche lo costringessero 
                  a chiedere asilo all’Inghilterra. La terra di Russia non 
                  è per nulla simile a quella con cui si confronta Darwin, 
                  e di conseguenza coloro che la abitano non possono comportarsi 
                  come le persone di cui parla quest’ultimo. L’ethos 
                  degli organismi che vivono in pianure immense e ricche, i loro 
                  modi di essere e di vivere con gli altri non possono non essere 
                  profondamente diversi. Queste osservazioni inducono quindi Kropotkin 
                  a dubitare non della competizione, ma dell’importanza 
                  che le era stata attribuita. E se egli ha posto una domanda 
                  particolare al suo terreno di ricerca e ai suoi animali, è 
                  innanzi tutto perché la specificità stessa di 
                  quel terreno e dei suoi animali richiedeva quel genere di domande.
 Certo, bisognava essere russo per lasciarsi sollecitare da questi 
                  dubbi. A condizione di comprendere bene che cosa significhi 
                  il fatto di essere russo. Da una parte, Kropotkin può 
                  essere definito un naturalista russo nel senso che è 
                  stato sensibilizzato, da una tradizione politica e come buona 
                  parte dei suoi colleghi russi, alla pertinenza di certe domande 
                  o alla ridiscussione di alcuni modelli fondati sulla concorrenza. 
                  Dall’altra, Kropotkin è anche un naturalista russo 
                  nel senso che ha imparato a essere naturalista in una natura 
                  particolare, una natura la cui singolare manifestazione impone 
                  certe domande; una natura nella quale i percorsi intrapresi 
                  dall’evoluzione non sono gli stessi nelle pianure della 
                  Siberia o nelle valli dell’Amúr.
 Il fatto di appartenere a quella tradizione politica, di essersi 
                  sensibilizzato, con l’esilio, alla diversità delle 
                  nature, o ancora il fatto di essere diventato critico grazie 
                  ai più recenti studi di antropologia, costituiscono altrettanti 
                  motivi che hanno incoraggiato Kropotkin a dubitare, e più 
                  in specifico a dubitare delle generalizzazioni, che sono spesso 
                  infondate o poco plausibili. La natura dei musei, dei filosofi 
                  o delle teorie, la visione del selvaggio derivata da pratiche 
                  etnocentriche, proprio come la versione dei primati ereditata 
                  dagli antropologi che li conoscono soltanto attraverso libri 
                  e modelli, non dimostrano forse tutte che non abbiamo imparato 
                  a pensare le domande che quegli esseri e quelle nature richiedono? 
                  Infatti, queste «nature» dimostrano la pluralità 
                  delle modalità di riuscita: una è la cooperazione, 
                  un’altra è data dalle trasformazioni mediante gli 
                  effetti della competizione. Le condizioni di riuscita del ricercatore 
                  sono quindi subordinate al modo di trovare le domande giuste, 
                  gli accessi pertinenti per comprendere e celebrare la riuscita 
                  di ciò che interroga.
 
   Relegato nel dimenticatoio Tuttavia, che questo terreno singolare abbia potuto coinvolgere 
                  Kropotkin e pretendere nuove domande che testimoniano della 
                  sua riuscita non costituisce una garanzia della stabilità 
                  di queste ultime e delle risposte che suscitano. Ne è 
                  prova il fatto che egli fu a lungo relegato nel dimenticatoio 
                  della storia naturale. Eppure, sorprendentemente, tutti i dubbi 
                  di Kropotkin e le condizioni che li hanno provocati si ritroveranno 
                  presenti e articolati in modo molto simile circa settant’anni 
                  dopo, quando sarà contestato il ruolo che, nella storia 
                  della nostra origine, veniva attribuito a quel babbuino aggressivo 
                  e geloso: la critica dell’ideologia che impronta i miti 
                  dell’origine; il ruolo decisivo di una nuova antropologia 
                  nella modalità di interrogarne gli attori; la generalizzazione 
                  a partire da alcune specie selezionate di primati; l’esigenza 
                  di un modo diverso di porre le domande in una prospettiva caratterizzata 
                  dalla coscienza politica. Avrebbe potuto essere considerato 
                  un precursore. Ma non fu così. Kropotkin fu dimenticato. 
                  In genere è stato citato come il contrario dello scienziato, 
                  «uno di quei pensatori sciocchi e confusi, che lasciano 
                  entrare l’emotività e le speranze personali nel 
                  rigore dell’analisi», come spiega Stephen Jay Gould 
                  nella bella apologia che gli ha dedicato. Certo, Kropotkin era 
                  un anarchico che confidava nella realizzazione di un progetto 
                  di società secondo il quale delle piccole comunità 
                  avrebbero stabilito consensualmente le loro regole a beneficio 
                  di tutti, eliminando il bisogno di ricorrere a un governo centrale. 
                  Per i suoi contemporanei inglesi, che l’avevano accolto 
                  durante l’esilio, professava delle strane idee politiche 
                  derivate dal contesto della sua giovinezza. Ma la sua biologia 
                  assomigliava davvero troppo al suo progetto sociale, e sembrava 
                  chiedere esageratamente alla natura di fornire le condizioni 
                  di un’esistenza pacifica fondata sulla solidarietà. 
                  Fu quindi relegata nel novero delle invenzioni ideologiche fantasiose. 
                  La biologia di Kropotkin era troppo somigliante alle sue idee 
                  politiche ed entrambe, agli occhi dei suoi contemporanei inglesi, 
                  apparivano esotiche. Ma quello che, in una tradizione mononaturalistica come la nostra, 
                  doveva apparire ancora più esotico, era la strana idea 
                  secondo la quale potrebbe esserci una molteplicità di 
                  nature, senza che, per spiegarne la diversità, ci si 
                  debba rifare all’evidente molteplicità delle culture. 
                  Si dimenticava che se possiamo effettivamente mobilitare la 
                  natura nelle nostre storie, nei nostri progetti e nelle nostre 
                  domande, anche le nature e coloro che le abitano, appena gliene 
                  diamo la possibilità, possono coinvolgerci nelle loro 
                  storie e nelle loro domande, nelle loro abitudini e nei loro 
                  problemi.
 È evidente che la forza di questi coinvolgimenti non 
                  dipende né dalle sole nature né dagli umani che 
                  le interrogano. Ne è prova il relativo oblio nel quale 
                  furono a lungo lasciate le domande, i dubbi e le osservazioni 
                  di Kropotkin. Nonché l’oblio di tutte le scimmie 
                  candidate al ruolo di primate dell’origine, che ci proponevano 
                  un modo diverso di fare storia. Furono in molte a dover attendere 
                  dietro le quinte che qualcuno le evocasse di nuovo, peraltro 
                  spesso per motivi diversi da quelli di una candidatura un po’ 
                  ingombrante.
 
 Vinciane Despret   Pratica delle trasformazioni Eppure, poco prima della pubblicazione del primo lavoro di 
                  Darwin, e per tutt’altre ragioni, qualcuno si era già 
                  accinto a farle sussistere. Infatti, il naturalista creazionista 
                  inglese Edward Pett Thompson si era impegnato nel considerevole 
                  compito di far conoscere meglio gli animali ai suoi contemporanei. 
                  Nella sua terza e ultima opera, The Passion of Animals, pubblicata 
                  nel 1851, le scimmie ne saranno gli attori privilegiati. La 
                  loro presenza dimostra benissimo quanto fossero disponibili 
                  già all’epoca in cui Darwin decise la scelta del 
                  nostro progenitore. E tuttavia sono coinvolte in un progetto 
                  del tutto diverso.
 Il nome di Edward Pett Thompson è oggi completamente 
                  dimenticato, benché alcune delle sue osservazioni siano 
                  riscontrabili nei libri di Romanes, l’allievo di Darwin, 
                  e io abbia potuto trovare un riferimento a lui in Darwin stesso. 
                  Bisogna dire che fu sfortunato: essere creazionista e pubblicare 
                  proprio otto anni prima de L’origine dell’uomo 
                  di Darwin per un naturalista non costituiva sicuramente la migliore 
                  delle opportunità. Ma qui non si tratta di correggere 
                  un oblio della storia, bensì di imparare a pensare con 
                  lui delle inedite possibilità di cambiamento, con e nella 
                  pratica. Perché Thompson farà di quella che qualche 
                  tempo dopo diventerà l’etologia una pratica delle 
                  trasformazioni.
 Per certi aspetti, e malgrado l’abbandono delle teorie 
                  che orientano le sue interpretazioni, nel complesso Thompson 
                  mi pare molto vicino agli etologi contemporanei, e in particolare 
                  a quanti, negli ultimi anni, hanno attivamente integrato al 
                  loro lavoro la questione della responsabilità nei confronti 
                  delle trasformazioni che proponiamo agli animali, o di quelle 
                  che rifiutiamo loro. Il progetto di Thompson si riassume in 
                  poche parole: voleva trasformare gli animali. E per farlo, ha 
                  pensato che fosse meglio cominciare trasformando gli umani!
  Vinciane Despret
  
                  
                     
                      | Vinciane 
                          Despret  Quando 
                          il lupovivrà con l’agnello
 sguardo umano e comportamenti animali
 232 pp. / euro 18,00
 Vinciane 
                          Despret insegna Filosofia della psicologia nell’Università 
                          di Liegi ed Etologia delle società animali nell’Università 
                          di Bruxelles. Questo è il suo secondo libro che 
                          si rivolge anche a un pubblico di non-specialisti dopo 
                          Naissance d’une théorie éthologique, 
                          la danse du cratérope écaillé 
                          (Seuil 1996). Presso Elèuthera è già 
                          uscito il titolo Le emozioni, etnopsicologia dell’autenticità 
                          (2003) e presso Seuil sta per uscire Clever Hans: 
                          le cheval qui savait compter (2004). |  |