| Asce di guerra 
                   Sarà pur vero che “le storie non sono che asce 
                  di guerra da disseppellire” (Vitaliano Ravagli, Wu Ming, 
                  Asce di guerra. In cerca del vietcong romagnolo, 
                  Marco Tropea Editore, Milano 2000, pp. 384, € 14,98); pure 
                  quelle che hanno il filo per tagliare sono ben poche. Nemmeno 
                  in grado di scalfire, figuriamoci recidere. Capita, però 
                  a volte di ascoltarne, leggerne, alcune. Purtroppo, o non si 
                  ha tempo per prestar loro un’adeguata attenzione, o ci 
                  si accorge che chi ci sta raccontando una storia – una 
                  storia vera – fa tante storie, usando imbrogliare, imbrogliandosi. 
                  Sì, la storia di Vitaliano Ravagli, il “vietcong 
                  romagnolo”, è una storia da disseppellire, che 
                  è bene disseppellire, perché ci aiuta a comprendere 
                  molti aspetti di un passato prossimo in procinto di esser riscritto, 
                  affogandolo nel buonismo/perdonismo caratteristico del pensiero 
                  politically-correct contemporaneo. Ciò che non funziona 
                  – l’imbroglio – è l’utilizzo 
                  pro domo mea, il voler ascrivere a tutti i costi l’esperienza 
                  di una vita (che raggruma, ovviamente, più esperienze 
                  e più vite) nell’alveo di un presente percorso 
                  politico italiano (il PRC), sottolineandone la sola, unica, 
                  veridicità rispetto al passato.
  Perché, altrimenti, il sapore che permane in bocca al 
                  termine di una lettura che si è sciorinata in oltre 380 
                  pagine (alcune piacevoli ed anche emozionanti, altre stucchevoli 
                  per il loro puerile tecnicismo da “scuola di scrittura”), 
                  è soltanto quello di aver letto un libro di propaganda 
                  politica, il cui impegno nell’aver ripreso l’ascia 
                  di guerra – raccontando vere storie di partigiani romagnoli 
                  – è stato volto unicamente al fine di far brillare 
                  di luce impropria Rifondazione Comunista, le Tute Bianche e 
                  tutti i sinceri democratici di sinistra.
 Sia chiaro: se questo era il preciso intento degli scrittori, 
                  esso è stato pienamente raggiunto. Ma si sarebbe potuto 
                  raggiungerlo con meno sforzo, meno impegno, ma soprattutto meno 
                  supponenza. Forse perché non è più il tempo 
                  dei compendi di storia, atti a spiegare, indottrinando, le lotte 
                  di liberazione nel Terzo Mondo, che la ricostruzione della guerra 
                  in Indocina (fra Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam) più 
                  che far da sfondo alle motivazioni politiche di Vitaliano Ravagli 
                  – militante comunista, renitente alla leva e volontario 
                  nella guerra in Laos nella seconda metà degli anni cinquanta 
                  – appare un pretesto per “spiegare” l’importanza 
                  dell’internazionalismo comunista di matrice staliniana.
 Certo: quando gli statunitensi hanno voluto raccontare la guerra 
                  del Vietnam, hanno raccontato il loro Vietnam, anche quando 
                  – sotto un attento e critico sguardo – hanno voluto 
                  descrivere le miserie, le paure, le atrocità. Ma erano 
                  le loro miserie, le loro paure, le loro (subite) atrocità. 
                  Del Vietnam e dei vietnamiti, niente o poco più che un 
                  nome: Charlie. Però, raccontando la verità, stando 
                  “dalla parte di…”, per giustificare tutto 
                  e tutti, volutamente si commette il medesimo errore e si finisce 
                  per glorificare le gesta di un Ho Chi Minh, di un Giap, come 
                  un tempo si glorificava l’aiuto di uno Stalin nella Spagna 
                  del ’36.
 Che poi la guerra partigiana e gli espatri clandestini nell’Est 
                  Europa siano ben altra cosa, gli stessi autori/Wu Ming paiono 
                  esserne consapevoli. Non per nulla la parte più riuscita 
                  del libro risulta essere quella riguardante il secondo dopoguerra 
                  in Italia, quando la vittoria sul fascismo si trasformò 
                  – dovette trasformarsi – in una resa nei confronti 
                  delle truppe nord-americane e l’appena conquistata libertà 
                  di un popolo fu consegnata nelle mani dei suoi liberatori a 
                  stelle e strisce.
 Sono queste le pagine del libro in cui si respira a pieni polmoni 
                  la polvere della storia; quella polvere che ricopre l’edulcorata 
                  Italia povera, ma bella, da sempre tradotta nella farsesca e 
                  nauseabonda “dolce vita” di felliniana memoria, 
                  che si compiace dell’ingegno e della produttività 
                  degli italiani, sempre pronti ad appassionarsi agli eroi del 
                  pallone e a dividersi in due “partiti” – chi 
                  con il laico Coppi, chi invece con il cattolicissimo Bartali 
                  –, ma uniti nell’evitare che l’attentato a 
                  Togliatti possa guastare la festa per la vittoria del Tour de 
                  France del 1948. È questa una polvere che viene scossa 
                  dagli avvenimenti internazionali (la “guerra fredda”) 
                  e offusca con il suo pulviscolo un paesaggio che pur avendo 
                  i contorni e gli idiomi di Brescello – il paese di Peppone 
                  e Don Camillo – mantiene invece nitide e chiare le differenze 
                  fra gli aguzzini, i torturatori, e i partigiani; quei partigiani 
                  che anche dopo la festa della Liberazione hanno continuato a 
                  far la festa ai fascisti, strafottendosi dell’ordine di 
                  consegnare le armi, dell’amnistia togliattiana, del non 
                  dover rispondere colpo su colpo al “nuovo regime” 
                  nato dalla Resistenza.
 Così la storia dei combattenti partigiani “Mirko”, 
                  “Drago”, “Sole”, “E Fator” 
                  e di tanti altri che hanno fatto la Resistenza ad Imola e nella 
                  Romagna sono asce di guerra che ci consentono di comprendere 
                  perché a quelle latitudini l’antifascismo non è 
                  mai morto e molti partigiani “Soviet” hanno continuato 
                  a farsi giustizia nel cosiddetto Triangolo della Morte. Ma per 
                  cortesia, signori Wu Ming, non confondiamo il diavolo con l’acquasanta: 
                  se proprio vogliamo attribuire ai Casarini, ai Caruso, un ruolo 
                  nella storia contemporanea diamogli perlomeno quello che a loro 
                  spetta. E siamo poi così sicuri che sia quello dei “nuovi 
                  partigiani”?
 Suvvia, se “scavare nel cuore oscuro di vicende dimenticate 
                  o mai raccontate è un oltraggio al presente”, non 
                  vi sembra – signori Wu Ming – che il nostro presente 
                  non necessiti altri oltraggi che non riportare alla memoria 
                  uomini e donne dimenticati perché hanno sempre preferito 
                  vivere la loro storia, senza mai raccontarsi “storie”?
  Benjamin Atman
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