|  Il “giardiniere della lingua” 
                  Julos Beaucarne
 Julos 
                  Beaucarne   la poesia non è solo bella lei è ribelle
 ci sono fontane di silenzio che assassinano per secoli e secoli
 le nostre orecchie sono i testimoni che devono tenerci svegli.
  In Italia sarebbe davvero impensabile per la sua totale inclassificabilità. 
                  Un filosofo. Un poeta. Uno scultore. Un militante dell’ecologia 
                  e della pace.
 Un agitatore di mille movimenti, spesso inventati con la complicità 
                  di un pugno d’amici: il “Fronte di liberazione degli 
                  alberi da frutto”, il “Fronte di liberazione dell’orecchio”, 
                  ecc….
 Per quel che ci interessa specificamente, un giardiniere che 
                  coltiva con strumenti musicali le sue piantagioni di linguaggio.
 Julos è un fantasista dell’anima, non banalmente 
                  un artista eclettico, come ce ne sono tanti, più o meno 
                  bravi a fare una o più cose, piuttosto il paziente elaboratore 
                  di un progetto dai confini incerti ma dal sapore chiarissimo: 
                  rifondare il cuore umano in armonia con la natura interna ed 
                  esterna, cogliere l’indefinibilità delle evoluzioni 
                  dello stare con gli altri e dello stare con sé, dello 
                  stare col mondo tutt’assieme e dell’ascoltare i 
                  movimenti del proprio cuore, i voli della propria fantasia.
 Di tutto ciò Julos ha fatto dei bei libri, che non si 
                  capisce se siano in versi o in prosa, degli spettacoli, che 
                  non si capisce se siano teatrali o musicali, se siano d’avanguardia 
                  o se ripercorrono i moduli dei trovieri medievali, delle animazioni 
                  radiofoniche e televisive, sempre occupando canali autonomi 
                  e autogestiti fuori dallo show-business, delle opere plastiche 
                  partendo da materiali abbandonati, come la famose e gigantesche 
                  pagode postindustriali.
 Soprattutto però Julos ha fatto dei dischi, dei dischi 
                  superbi, tanti e tutti legati fra di loro.
 Nessuno di questi dischi si configura come una raccolta di canzoni, 
                  ma su ognuno di essi si alternano con maggiore o minore frequenza 
                  canzoni propriamente dette, brani solo musicali, poesie musicate, 
                  monologhi, aforismi di gusto surreale, in un’alternanza 
                  che costruisce sempre delle opere di circa mezz’ora che 
                  non trovano possibili definizioni precostituite. E non solo… 
                  di disco in disco egli riprende forme e temi, mescolandoli continuamente: 
                  non è raro trovare un testo in prosa che vent’anni 
                  dopo è incredibilmente divenuto una canzone, brani musicali 
                  che, l’anno successivo alla loro prima uscita, calzano 
                  come guanti a poesie di cent’anni fa. Quest’uomo 
                  insomma, continuamente attraversato da mille stimoli, è 
                  plurale come un poeta e solo come una foresta.
 Ma forse la cosa straordinaria di questi dischi è che, 
                  presi tutti assieme, rappresentano un’“opera concept”, 
                  la riuscita fotografia di uno degli artisti più profondi 
                  partoriti negli ultimi cento anni da questo strano paese, questo 
                  piccolo regno inventato e messo lì come cuscinetto fra 
                  le grandi potenze, il Belgio, che nella sua artificiosa unione 
                  di caratteri opposti, valloni e fiamminghi, ha prodotto due 
                  temperamenti unici e, verrebbe da dire complementari, quali 
                  Jacques Brel e, appunto, Julos Beaucarne.
 La leggenda vuole che al tempo in cui era solo un professore 
                  di letteratura francese e un teatrante a tempo perso, Julos 
                  si trovasse, durante una vacanza in Francia, improvvisamente 
                  in panne con la sua auto in uno sperduto villaggio e senza un 
                  soldo per pagarsi le riparazioni necessarie; giocoforza si trasformò, 
                  per raggranellare qualche spicciolo, in giullare, in artista 
                  girovago: cominciò a cantare di piazza in piazza, torno 
                  torno dove si trovava, e davvero intorno a lui sentì 
                  svilupparsi l’attenzione che secoli prima era dedicata 
                  ai nostri antenati trovatori. Quest’episodio fu per lui 
                  la rivelazione di una vocazione, di un interesse, di una traiettoria.
  Julos 
                  Beaucarne
  Io canto per voi, non ve ne dispiaccia 
                  Malgrado l’imbrunare, le tempeste e le piogge
 Su tutte le strade, anche grandinanti
 Io porto il mio passo fino al fondo dei tempi.
 Per smettere il gioco bisogna che muoia
 Il filo è fragile, se un giorno si rompe
 Saprete allora che faccio sciopero
 Che si è chiuso il cerchio di tutti i miei amori
 Io canto per voi i canti più teneri
 Ragazzine dolci, dal collo di panna
 E anche per voi bimbi settembrini (…)
 Finché i poveri uomini avranno orecchie
 Esorcizzerò i fantasmi della notte
 Sulla strada, enunciata nella canzone qua sopra, Julos continua 
                  tutt’oggi a muoversi con un’opera ormai imponente 
                  che consta di 26 cd, una ventina di libri, e un’infinità 
                  di spettacoli. Ovviamente mi manca lo spazio, non solo per analizzarli 
                  compiutamente, ma anche per darne notizia; faccio quindi la 
                  più che arbitraria mossa di entrare nello specifico di 
                  uno dei suoi dischi più imprescindibili e struggenti. 
                  La vita e l’arte di Julos sono passate attraverso un’immensa 
                  tragedia, di cui non ha cessato di portare i segni.
 Nella notte fra il 2 e il 3 febbraio 1975 la sua compagna di 
                  vita e d’arte, la madre dei suoi due figli, viene assassinata 
                  a pugnalate da un folle. Con l’animo in fondo a un pozzo 
                  di carbone, Julos scrive uno dei grandi capolavori della storia 
                  della canzone di tutti i tempi, un disco straziante, di incontenibile 
                  tenerezza; un disco friabile e densissimo, un capolavoro in 
                  cui il dolore non ottunde la leggerezza di uno degli animi più 
                  belli che abbiano mai trovato la via del canto. Appunto: Candelora 
                  ’75.
 Tutto incentrato sull’immensa perdita, il disco è 
                  incorniciato da due canzoni sublimi. Eccone qualche verso:
 Si comincia sempre con: c’era una volta / La fata 
                  della tua vita se ne va / Senza guardarsi indietro Gli occhi blu hanno virato al nero / La terra si veste di lutto 
                  / Addio, mia bella
 e
 Di memoria di Rosa ho visto morire un giardiniere / Nient’altro 
                  che una pausa può bastare, signora, lascia
 Il vento distendersi e senza maledirlo, aspetta / Lasciati scivolare 
                  nel vento leggero, pazienza, pazienta…
 Se l’amore fugge, non ti flagellare / Hai marinato la 
                  scuola, per il letto del re
 Se la sua vela bianca ora è solo nebbia / Non t’impiccare 
                  al ramo quando farà scuro
 Fra queste due canzoni si avanza, per citazioni da Saint Exupéry, 
                  per frammenti poetici e musicali, per altre canzoni che compongono 
                  uno dei più onesti e al contempo pudichi poemi del dolore 
                  che mi sia capitato di conoscere. La sincerità di quest’album 
                  è abbacinante, la sua trasparenza quasi insostenibile; 
                  si tratta di un’opera preziosa, di un cristallo che si 
                  incide un percorso sideralmente profondo nell’animo dell’ascoltatore. 
                  Julos, dopo aver raggiunto l’apice del suo personalissimo 
                  lutto, con un guizzo poetico, sa riportare tutto a un discorso 
                  universale, le sue ferite diventano quelle stesse di un mondo 
                  senza pace, giustizia o libertà: “l’uomo 
                  e la donna sono capolavori in pericolo / in Belgio, in Cile, 
                  in Brasile / la legge del più forte è sempre la 
                  legge del minor sforzo…” dice, e a sostenerlo canta 
                  la sua  Lettera a Kissinger  Voglio raccontarti signor Kissinger la storia 
                  di un mio amico Il suo nome non ti dirà nulla, faceva il cantante in 
                  Cile.
 Tutto successe in un grande stadio dove c’era un tavolo
 Il mio amico si chiamava Jara e fu portato là.
 Gli fecero mettere la mano sul tavolo e un ufficiale
 Con un solo colpo d’ascia le dita della sinistra tagliò
 Con un altro colpo sezionò le dita della destra di Jara
 Il sangue è sgorgato, seimila prigionieri gridarono.
 L’ufficiale posò l’ascia (forse si chiamava 
                  Kissinger)
 Prese a calci Victor Jara “canta – gli disse – 
                  ora che sei meno orgoglioso”
 Alzando le mani senza dita, che ancora ieri carezzavano la chitarra,
 Jara si alzò lentamente per obbedire al comandante
 Ed intonò l’inno di lotta di Unidad Popular
 Col coro delle seimila voci dei prigionieri di quell’inferno.
 Una raffica di mitra abbatté allora il mio amico
 (Quello che puntò l’arma forse si chiamava Kissinger).
 Questa storia che ti ho raccontato, Kissinger, non è 
                  avvenuta
 Nel ’42, ma ieri nel settembre ’73.
 È un momento altissimo in cui personale e politico si 
                  fondono in un brivido che testimonia come un grande artista 
                  e una bella persona alla fine sappia sempre distillare gocce 
                  di luce dalla miseria dell’esistenza, senza retorica, 
                  senza voler insegnare niente a nessuno, ma con la semplice grandezza 
                  di chi può svolgere le pieghe nascoste del linguaggio 
                  di tutti i giorni e svelarcene la poesia.   Alessio Lega alessio.lega@fastwebnet.it
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