| Un anno fa iniziava 
                  la seconda guerra del Golfo. Un mare di fuoco si abbatté 
                  sulle città ed i villaggi iracheni già stremati 
                  da oltre un decennio di embargo e conflitto a «bassa intensità». 
                  Oggi sappiamo con certezza che le «armi di distruzione 
                  di massa», il cui presunto possesso è stato il 
                  pretesto per scatenare l’inferno sull’Iraq, non 
                  esistevano. Saddam Hussein, un tempo fedele alleato degli Stati 
                  Uniti nel confronto «freddo» con l’URSS e 
                  in quello «caldo» con l’Iran, è stato 
                  catturato e mostrato al mondo come un trofeo di guerra. Le condizioni 
                  della popolazione irachena sono anche peggiori di quelle in 
                  cui versava un anno fa: disoccupazione, salari da fame, repressione 
                  sanguinosa di ogni forma di protesta fanno da contrappunto ad 
                  una situazione disastrosa per la sanità, la scuola, le 
                  strade, la rete elettrica e quella idrica. E la guerra, quella 
                  combattuta con le armi, non è mai finita, perché 
                  quotidiani sono gli attacchi della guerriglia contro le forze 
                  di occupazione e contro tutti coloro che accettano per necessità 
                  o per convinzione di collaborare con l’amministrazione 
                  guidata dal governatore americano Paul Bremer. Gli italiani, 
                  per parte loro, si accingono ad incassare il premio fedeltà 
                  alla coalizione angloamericana: il governo della provincia meridionale 
                  di Dhi Qar verrà affidato a Barbara Contini, mentre i 
                  capitalisti nostrani cercano di raccogliere le briciole lasciate 
                  sul tavolo dal convitato di Oltreoceano.
      
  Pantomima parlamentare
 Nel nostro paese la primavera è iniziata all’insegna 
                  della pantomima parlamentare sul rifinanziamento delle «missioni» 
                  italiane all’estero. Con un termine preso a prestito dalla 
                  più bellicosa delle imprese del cattolicesimo d’assalto, 
                  la «missione» tra gli infedeli, al Senato ed alla 
                  Camera si è discusso e deliberato in merito allo stanziamento 
                  di fondi per i militari italiani presenti in varie aree «calde» 
                  del pianeta. In genere, tanto per intenderci, si tratta di quei 
                  posti dove in modo diretto o indiretto si era portata la guerra. 
                  Dalla Bosnia al Kossovo, dall’Afganistan all’Iraq. 
                  La sinistra in triciclo, e, qualche volta, anche in bicicletta 
                  ha scelto di non partecipare al voto. Un bell’Aventino 
                  pacifista? Nulla di tutto questo. Fassino, Rutelli e soci dividono 
                  le missioni in buone (quelle intraprese da loro) e cattive (quelle 
                  volute da Berlusconi). Un limpido esempio di coerenza, in un 
                  paese dove il gusto per i giochetti verbali, per le acrobazie 
                  dialettiche, per le metafore impossibili copre il vuoto politico 
                  di un ambito istituzionale, che a destra non meno che a sinistra, 
                  mira unicamente a disegnare per l’Italia un ruolo da comprimario 
                  nella politica imperialista del colosso statunitense.
 L’unica difficoltà consiste nel far digerire il 
                  boccone a gente abituata a considerare la guerra un male assoluto. 
                  In questi anni l’armamentario dell’inventiva italica 
                  ha tirato fuori dal cappello, l’operazione di polizia 
                  internazionale (prima guerra del Golfo), l’intervento 
                  umanitario (guerra per il Kossovo), la lotta contro il terrorismo 
                  (guerra afgana), la guerra preventiva (secondo conflitto nel 
                  Golfo). Il paradigma si è modificato a seconda delle 
                  esigenze del momento ma il risultato è stato sempre lo 
                  stesso: mascherare i bombardamenti, le uccisioni di massa, l’occupazione 
                  del territorio, la cancellazione di qualunque forma di diritto 
                  internazionale, dietro una cortina fumogena che nascondesse, 
                  distorcendole, le mostruosità intraprese dai democratici 
                  governi dell’occidente libero e capitalista.
 L’operazione mimetica, in parte riuscita con la guerra 
                  per il Kossovo e con quella afgana, è risultata più 
                  difficile da condurre in porto nel recente conflitto iracheno.
 Nel marzo dello scorso anno, allo scoppio della guerra, dopo 
                  mesi di opposizione preventiva, milioni e milioni di persone 
                  manifestarono in tutto il mondo. Contro la guerra. Senza se 
                  e senza ma. Poi, lentamente, la protesta rifluì: milioni 
                  di persone in piazza potevano poco o nulla contro la potenza 
                  dispiegata delle armi. Il rifiuto etico della guerra, non sapendosi 
                  tradurre in azione quotidiana contro le radici materiali del 
                  conflitto, è risultato ineffettuale nonostante la straordinaria 
                  mobilitazione emotiva che attraversò l’opinione 
                  pubblica dei paesi coinvolti nell’avventura militare di 
                  Bush II, l’erede stupido e feroce di una dinastia di petrolieri 
                  guerrafondai.
 Nel belpaese i bombardieri in salsa ulivista/prodiana un anno 
                  fa affiancarono la causa pacifista ma oggi, di fronte all’imminente 
                  scadenza elettorale, hanno bisogno di raccogliere consensi anche 
                  nelle aree moderate, intossicate di nazionalismo tricolore dopo 
                  i morti di Nassiriya.
 Così il paradosso del «non voto» sulle «missioni» 
                  militari all’estero si rivela per quello che è: 
                  il solito pasticcio all’italiana. Il centro sinistra cerca 
                  di accreditarsi presso i nazionalisti nostrani come opposizione 
                  responsabile e matura, disponibile alle avventure militari ma 
                  con prudenza; nel contempo strizza l’occhio ai pacifisti, 
                  avvolgendosi nelle bandiere arcobaleno.
 Ma le bandiere, come certe coperte, sono spesso troppo corte: 
                  se le si tira da una parte ne lasciano scoperta un’altra. 
                  Il gioco è sporco e sin troppo evidente. Un gioco che 
                  rivela come sempre più esili siano le differenze tra 
                  governo ed opposizione, un gioco che rimanda la palla nell’unico 
                  campo in cui può essere giocata: quello dell’azione 
                  diretta, dell’opposizione non ad un governo, ma a tutti 
                  i governi, non ad un esercito ma a tutti gli eserciti.
 Gli anarchici scesero in piazza un anno fa gridando uno slogan 
                  che si diffuse rapidamente: «sabbia e non olio nel motore 
                  del militarismo».
 L’auspicio è che le grandi manifestazioni, in occasione 
                  di questo primo anniversario di guerra, diano impulso ad un’opposizione 
                  al conflitto che sappia farsi pratica antimilitarista quotidiana.
  Maria Matteo
 
                   
                    | Desaparecidos 
                        made in USA Si chiama José Padilla. Di lui non si sa più 
                        nulla. È stato inghiottito da una prigione militare 
                        statunitense nella quale non gode neppure dell’assistenza 
                        di un avvocato. Padilla è cittadino statunitense: 
                        arrestato a Chicago perché sospettato dell’intenzione 
                        di colpire il territorio degli States con una 
                        bomba atomica «sporca», è stato imprigionato, 
                        dichiarato «nemico combattente» e privato 
                        di ogni diritto alla difesa. Nel suo caso – ma non 
                        è il solo – ad un cittadino americano viene 
                        tolta, nei fatti, la cittadinanza e l’accesso ad 
                        ogni forma di tutela.
 Conosciamo la storia di Padilla perché i famigliari 
                        hanno segnalato la sua vicenda e si battono per lui. Ma 
                        è difficile quantificare il numero esatto dei desaparecidos 
                        americani: migranti gettati in galera e poi espulsi verso 
                        paesi in cui la tortura è sport nazionale, oppure 
                        rinchiusi in località segrete senza alcun contatto 
                        con l’esterno.
 In nome della lotta al terrorismo l’amministrazione 
                        statunitense ha inventato una zona d’ombra del diritto, 
                        un non luogo in cui vengono ingoiate migliaia di persone. 
                        I combattenti afgani, deportati e detenuti a Guantanamo 
                        in condizioni disumane, non godono dello statuto di prigionieri 
                        di guerra e neppure di quello di detenuti in attesa di 
                        giudizio. Sono nemici assoluti, il cui destino è 
                        deciso dall’arbitrio del momento.
 Nella 
                        morsa dell’occupazione e della povertà Il mestiere meglio pagato e più odiato in Iraq 
                        è quello dell’informatore, della spia prezzolata 
                        per segnalare agli occupanti i membri della resistenza. 
                        Poco importa se l’informatore «sbaglia» 
                        o si lascia andare a vendette personali.
 Nel villaggio di Dhuluhwya, sulle rive del Tigri, una 
                        fiorente coltivazione di palme da dattero dava da vivere 
                        a circa 400 famiglie. In seguito alla spiata, rivelatasi 
                        poi falsa, della presenza di uomini in armi tra gli alberi, 
                        gli americani hanno sradicato tutte le piante. Constatato 
                        l’«errore» hanno promesso un risarcimento 
                        in denaro ovviamente mai arrivato. Ad un uomo, oppositore 
                        del regime di Saddam, uscito dal carcere dopo 11 anni 
                        di detenzione, è stata distrutta la casa dopo che 
                        uno dei tanti delatori l’aveva indicato agli americani.
 La vita quotidiana, segnata dalle perquisizioni continue 
                        delle case dove i militari entrano, distruggono e depredano, 
                        è stretta nella morsa della povertà e della 
                        malattia.
 A Baghdad migliaia di persone vivono nella discarica e 
                        «della» discarica: frugano nell’immondizia 
                        alla ricerca di qualcosa di commestibile o vendibile, 
                        i bambini non vanno né mai andranno in una delle 
                        scuole diroccate ancora funzionanti in alcune zone.
 Stupri 
                        in divisa Le cifre esatte non sono note. Sull’argomento l’amministrazione 
                        americana tace o minimizza. I casi sinora denunciati sarebbero 
                        circa 120 ma è probabile che siano molte di più 
                        le donne soldato americane vittime di stupri da parte 
                        di loro commilitoni.
 D. aveva appena terminato il proprio turno di guardia, 
                        quando nei pressi delle docce è stata aggredita 
                        alla spalle da un militare americano della sua stessa 
                        base, tramortita a pugni e poi violentata. Trovata insanguinata 
                        e lacera da un altro soldato, dopo una lunga degenza in 
                        ospedale, è stata rimpatriata. Nessuna vera indagine 
                        è mai stata compiuta da parte dell’US Army 
                        che, anzi, accusa la donna di simulare prostrazione psichica 
                        per sottrarsi al sevizio attivo in territorio di guerra.
 Un segno ulteriore, se mai ve ne fosse bisogno, della 
                        bestialità della guerra e di chi la fa, capace 
                        persino di investire i più deboli nel campo dei 
                        vincitori.
 Crimini 
                        di guerra In Italia non le avete viste e, forse, non le vedrete 
                        mai. Sono immagini trasmesse in prima serata dalla TV 
                        pubblica tedesca che mostrano, in due distinti episodi, 
                        soldati americani colpire a morte militari iracheni feriti 
                        ed ormai non più in grado di difendersi. La stampa 
                        di sinistra, che ha diffuso la notizia nel nostro Paese, 
                        ha parlato di crimini di guerra. I fatti diffusi dalla 
                        televisione tedesca sono indubbiamente efferati, tuttavia 
                        la denominazione «crimini di guerra» allude 
                        ad una dimensione etica del conflitto armato che ne occulta 
                        la natura intimamente feroce. Criminali non sono «alcuni» 
                        soldati ma tutti gli eserciti: non ci sono criminali di 
                        guerra perché le guerre sono sempre criminali.
 M.M. |  |