| «Non si vede niente, solo la bandiera» 
                 L. N. Tolstoj, I diari. Scelta dei testi, prefazione, 
                  traduzione e note di S. Bernardini, Garzanti, Milano 1997, p. 
                  551 (15 maggio 1908).   Lev Nikolaevic Tolstoj accennò allanarchismo 
                  nel proprio diario per la prima volta nel gennaio 1889: «Gli 
                  anarchici hanno ragione in tutto, solo non nella violenza» 
                  (1). Lo scrittore aveva sessantanni 
                  e, «deciso che scrivere capolavori narrativi è 
                  un peccato» (2), aveva lasciato 
                  da qualche anno alle spalle la letteratura per dedicarsi a temi 
                  politici e religiosi, spesso legati allattualità. 
                  Per quanto avvertisse una forte sintonia con lanarchismo, 
                  Tolstoj sentiva una distanza incolmabile sullatteggiamento 
                  nei confronti della violenza e nei confronti del Cristo dei 
                  Vangeli. Qualche mese dopo il primo accenno allanarchismo, 
                  Tolstoj scrisse nel diario che i suoi critici lo accusavano 
                  di «insegnamento distruttivo e anarchico che essi dicono 
                  di Tolstoj, e dovrebbero dire di Cristo» (3).
 Ritornò sul tema nel 1894, quando lanarchico italiano 
                  Sante Caserio uccise il presidente della repubblica francese 
                  Sadi Carnot. Ciò che gli anarchici fanno era «tutto 
                  giusto», scrisse. Le loro idee cominciavano a «conquistare 
                  gli uomini», i quali «cominciano a credere di essere 
                  fratelli, a capire che non si può asservire il fratello, 
                  che bisogna aiutare il progresso, sviluppare listruzione, 
                  lottare contro la superstizione». E allimprovviso, 
                  ecco assassinii come quello di Carnot, «e tutto il lavoro 
                  va a monte». È giusto, come fanno gli anarchici, 
                  diffondere «lidea dellinutilità, del 
                  male della violenza statale», ma lunica strada, 
                  annotò Tolstoj, è la «non partecipazione 
                  alle violenze e agli assassinii» (4).
 Tolstoj vedeva discusse nel campo della politica due sole «vie 
                  duscita». La prima, propria di nichilisti e anarchici, 
                  consisteva «nello spezzare la violenza con la violenza, 
                  con il terrore, con le bombe e la dinamite, con il pugnale», 
                  e in questo modo «sconfiggere, fuori di noi, questa congiura 
                  dei governi contro i popoli». Laltra soluzione era 
                  quella delle riforme: trovare cioè «un accordo 
                  con il governo facendogli delle concessioni e, partecipando 
                  a esso, pian piano sgrovigliare la rete che lega il popolo e 
                  liberarlo». Entrambe, scrive Tolstoj nel suo diario, «sono 
                  false». Nel primo caso, la violenza rende più forte 
                  la reazione perché si aliena lappoggio dellopinione 
                  pubblica, lunica forza su cui contare. Nellaltro, 
                  i governi «concedono solo ciò che non intacca la 
                  sostanza»: attirano «i dissidenti», li rendono 
                  inoffensivi, e alla fine li impiegano «al servizio degli 
                  obiettivi dei governi, cioè delloppressione e dello 
                  sfruttamento del popolo».
 La «via duscita» cui pensava Tolstoj era affidata 
                  alla coscienza dei singoli individui, e si basava sul rifiuto 
                  della violenza e della menzogna, sul pensiero indipendente e 
                  libero, e sulla non collaborazione con il governo. Si trattava 
                  di «combattere il governo con larma del pensiero, 
                  della parola, dellesempio di vita, senza fare concessioni 
                  al governo, senza entrare nelle sue file, senza contribuire 
                  allaumento della sua forza» (5). 
                  Se cè qualche possibilità di «sbrogliare 
                  questa situazione paurosa, lo è solo grazie agli sforzi 
                  dei singoli individui» (6).
  Non uccidere
 Il 29 luglio 1900 lanarchico Gaetano Bresci sparò 
                  tre colpi di rivoltella al re Umberto I e lo uccise. Un paio 
                  danni prima era stata uccisa limperatrice dAustria. 
                  Così erano morti lo zar Alessandro II, lo scià 
                  di Persia, il presidente francese. Invece di limitarsi a qualche 
                  riga nel diario, come aveva fatto dopo lassassinio di 
                  Sadi Carnot, Tolstoj pensò a uno scritto per la stampa. 
                  Tra le sue carte si contano sette stesure diverse dellarticolo, 
                  con vari titoli, tra cui Luccisione di Umberto, 
                  Lorribile equivoco, Di chi è la colpa? 
                  Il 31 luglio mandò larticolo al suo segretario 
                  Chertkòv, ma tornò ancora sul testo per alcune 
                  correzioni prima che andasse in stampa (7). 
                  Il 7 agosto scrive nel suo diario di aver finito (8). 
                  Per titolo, scelse uno dei comandamenti biblici, ma anche di 
                  Siddartha: Non uccidere (9). 
                  Tolstoj classificava lattentato di Monza come «uccisione 
                  di un re». Gaetano Bresci pensava la stessa cosa. Quando 
                  venne interrogato in carcere e gli fu chiesto «se riconosceva 
                  di aver ucciso Sua Maestà Umberto I», Bresci rispose: 
                  «Non ammazzai Umberto, ammazzai il Re». Di qui la 
                  risposta che diede quando gli fu chiesto «se si riconosceva 
                  autore di un delitto». «Dica fatto e non 
                  delitto», rispose Bresci (10). 
                  Neanche Tolstoj avrebbe parlato di «delitto», perché 
                  «delitto» è unazione in contrasto con 
                  le leggi dello Stato, e Tolstoj riteneva che lo Stato non avesse 
                  titoli per giudicare, perché tutti i governi si fondano 
                  sulla violenza.
 Era appena stato pubblicato, con molti tagli dovuti alla censura 
                  zarista, il romanzo Resurrezione, in cui Tolstoj affronta 
                  il tema della giustizia e del castigo, e fa vedere i tribunali 
                  come un mezzo per assicurare «il mantenimento degli interessi 
                  di classe»: «tutta lopera dei tribunali è 
                  fatta soltanto di azioni insensate e crudeli», dice a 
                  un certo punto il protagonista. In Resurrezione, i 
                  personaggi che fanno parte degli apparati statali ed ecclesiastici 
                   ministri, giudici, preti, poliziotti e carcerieri  
                  sono tutti come quel vecchio generale incaricato della sorveglianza 
                  dei detenuti della fortezza di Pietroburgo, il quale esegue 
                  gli ordini «in nome dellimperatore», «ritenendo 
                  che il suo dovere di soldato e di patriota fosse di non pensare 
                  affatto». Tolstoj racconta come il generale avesse fatto 
                  carriera: nel Caucaso, al comando di «un reparto di contadini 
                  russi coi capelli rasati, in uniforme militare, e armati di 
                  fucili con le baionette, aveva ucciso più di mille uomini 
                  che difendevano la loro libertà, le loro case e le loro 
                  famiglie»; più tardi aveva servito in Polonia, 
                  «dove aveva obbligato altri contadini russi a compiere 
                  le stesse imprese» (11).
 Le leggi cui essere fedeli sono altre. Come scopre un po 
                  alla volta il protagonista di Resurrezione, la vera legge «è 
                  eterna, immutabile, urgente, scritta da Dio stesso nel cuore 
                  degli uomini» (12). È proprio 
                  perché si deve obbedire alla legge divina che viene negata 
                  qualsiasi altra autorità  statale, politica, religiosa 
                  o di altra natura (13).
 Come epigrafi allarticolo, Tolstoj sceglie alcune citazioni 
                  tratte dalla Bibbia e dai Vangeli, e precisamente la proibizione 
                  di usare violenza («Non uccidere»; «Giacché 
                  tutti quelli che prenderanno la spada, periranno di spada»), 
                  e il comandamento dellamore («E dunque tutto quanto 
                  desiderate che gli uomini facciano per voi, fatelo voi pure 
                  per loro») (14). Poi comincia denunciando 
                  la doppia morale, e quindi lipocrisia, che episodi come 
                  quello di Monza mettevano in luce. Se viene ucciso un sovrano 
                  in seguito a una congiura di palazzo, tutti lo trovano un fatto 
                  normale. Al contrario, un individuo come Gaetano Bresci, «senza 
                  processo e senza insurrezioni di palazzo», ammazza un 
                  re, ed ecco levarsi meraviglia e indignazione, come se re e 
                  imperatori «non avessero mai preso parte a degli assassinii 
                  o non avessero mai fatto ricorso o ordinato degli assassinii».
 Riflettendo sulluccisione di Umberto I, Tolstoj prima 
                  di tutto nega ai difensori dei re il diritto di giudicare e 
                  di condannare lomicidio. Re, imperatori e presidenti di 
                  repubbliche, scrive, «da sempre si dedicano specificamente 
                  allassassinio, tanto daverne fatto ormai la loro 
                  professione»; non per nulla «han sempre indosso 
                  le uniformi militari e gli strumenti dellassassinio  
                  le spade al fianco». Tra guerre ed esecuzioni capitali, 
                  i sovrani fanno ammazzare decine di migliaia, centinaia di migliaia, 
                  milioni di vittime  e tutto ciò viene considerato 
                  eroico. La parola «re» richiamava in Tolstoj termini 
                  come «menzogna» e «violenza». Nei suoi 
                  scritti politici degli anni Novanta, aveva mostrato come re 
                  e imperatori ingannavano i loro popoli scambiandosi visite, 
                  promuovendo manovre o parate militari, pronunciando brindisi 
                  patriottici e invocando il benessere e la pace  e tutto 
                  ciò mentre organizzano «preparativi di assassinio» 
                  (15). Ma guai a uccidere uno di loro. 
                  Invece di riconoscere di avere essi stessi per primi insegnato 
                  a uccidere, e invece di meravigliarsi «del fatto che tali 
                  assassinii siano tanti rari», «sono proprio costoro 
                  a sgomentarsi e a indignarsi se uno di loro viene assassinato». 
                  Se lo zar Alessandro II e re Umberto I non meritavano la morte, 
                  commenta Tolstoj, «tanto meno di loro lavevano meritato 
                  le migliaia di russi che morirono a Plewna, o le migliaia di 
                  italiani periti in Abissinia».
 
 Leone 
                  Tolstoj   Uccidere i re è inutile
 Nella seconda parte dellarticolo, Tolstoj si rivolge 
                  agli anarchici. Non lo fa direttamente, ma discutendo la validità 
                  e la legittimità degli attentati ai sovrani, nella convinzione 
                  che il gesto di Bresci fosse opera di un complotto di anarchici 
                  che avrebbero colpito ancora. Uccidere i re «per migliorare la condizione della gente» 
                  è prima di tutto inutile: come tagliare la testa dellidra, 
                  sapendo che ne rinasce sempre una di nuova. Morto un re, se 
                  ne fa un altro. È superficiale, osserva Tolstoj, pensare 
                  che uccidere un re sia «una via di salvezza dalloppressione 
                  del popolo e dalle guerre che distruggono tante vite umane».
 Non è questione di caratteri o di temperamenti personali. 
                  Loppressione e le guerre non sono dovute alle scelte di 
                  un sovrano o di un capo di governo, ma dipendono «da un 
                  sistema sociale nel quale tutti gli uomini son legati in tal 
                  modo gli uni agli altri, da esser tutti quanti in balìa 
                  di pochi o, più spesso, duno solo». Qualsiasi 
                  persona al posto di un re, educato allo stesso modo a portare 
                  armi e organizzare parate, farebbe lo stesso. Del resto i sovrani 
                  non vedono alternative, dal momento che ogni volta che escono 
                  in pubblico sono accolti con entusiasmo. Limperatore Guglielmo 
                  potrebbe dire «che i soldati devono uccidere per sua volontà 
                  persino i loro padri  e tutti gli griderebbero urrà!», 
                  o dire «che il Vangelo bisogna imporlo con un pugno di 
                  ferro  e subito un altro urrà!»; e così 
                  lo zar Nicola II «propone un infantile, stupido e bugiardo 
                  progetto per una pace universale, e intanto dà disposizioni 
                  per un aumento degli eserciti, e tuttintorno a lui non 
                  vi è più limite alle celebrazioni della sua saggezza 
                  e della sua virtù».
 Tolstoj ribadisce qui le sue idee sul potere, il quale si basa 
                  sulla passività e sullobbedienza di quanti laccettano, 
                  si sottomettono, lo legittimano, lo celebrano. Già in 
                   Guerra e pace si era interrogato sui motivi che avevano 
                  spinto milioni di uomini a muoversi da occidente a oriente al 
                  comando di Napoleone. Gli storici dicevano che le cause «furono 
                  loffesa recata al duca di Oldemburgo, linosservanza 
                  del blocco continentale, lambizione di Napoleone, la fermezza 
                  di Alessandro, gli errori dei diplomatici, ecc. ecc.». 
                  Tali spiegazioni potevano sembrare convincenti ai contemporanei, 
                  ma a noi posteri, scrive Tolstoj, «è incomprensibile 
                  che milioni di cristiani si siano uccisi e torturati a vicenda 
                  perché Napoleone era ambizioso, Alessandro era fermo, 
                  la politica dellInghilterra era astuta e il duca di Oldemburgo 
                  era stato offeso». Anche ammettendo tra le cause della 
                  guerra il fatto che il duca si fosse sentito offeso, bisognava 
                  sempre spiegare perché migliaia di persone fossero venute 
                  «dallaltra estremità dellEuropa, abbiano 
                  ucciso o rovinato gli abitanti delle province di Smolènsk 
                  e di Mosca e siano state uccise da loro».
 Alla base dei fenomeni storici, Tolstoj trovava le scelte del 
                  singolo individuo, in altre parole «il desiderio o il 
                  mancato desiderio di un qualsiasi caporale francese di contrarre 
                  una seconda ferma; perché, se egli non avesse voluto 
                  riaprire servizio e così avessero fatto due, tre mille 
                  caporali e soldati, tanto meno uomini ci sarebbero stati nellesercito 
                  di Napoleone e la guerra non si sarebbe potuta fare» (16).
 Le cause degli avvenimenti, riflette Tolstoj in Guerra e 
                  pace, sono infinite, minute, legate luna allaltra, 
                  e ciascuna «influisce sulla massa restante dellinnumerevole 
                  totalità degli avvenimenti e delle cose» entro 
                  «un sistema, una rete fittamente intrecciata» (17). 
                  «Se Napoleone  insiste Tolstoj  non si fosse 
                  offeso dalla richiesta chegli si ritirasse dietro la Vistola 
                  e non avesse ordinato alle truppe di marciare innanzi, la guerra 
                  non ci sarebbe stata; ma se tutti i sergenti non avessero voluto 
                  contrarre una seconda ferma, anche allora la guerra non ci sarebbe 
                  stata». Gli atti di Napoleone o di Alessandro «erano 
                  così poco liberi quanto gli atti di un qualsiasi soldato 
                  che andasse alla guerra designato dalla sorte o reclutato». 
                  Perché si verificasse levento, era necessario che 
                  milioni di singoli individui, «nelle mani dei quali era 
                  la forza effettiva», seguissero i loro ordini (18).
 Come nella favola, venuta meno lobbedienza, il re sarebbe 
                  apparso nudo. Già negli anni Novanta, Tolstoj aveva mostrato 
                  i sovrani come gente che faceva cose stupide, le quali diventavano 
                  importanti e misteriose solo per lobbedienza del popolo. 
                  La folla vede «innalzare archi di trionfo», «passare 
                  della gente ornata di corone, di uniformi, di vesti sacerdotali», 
                  «accendere fuochi dartificio, sparare il cannone, 
                  suonar le campane e la gente correr dietro alle musiche dei 
                  reggimenti», e risponde «con degli evviva o con 
                  un silenzio rispettoso». Guglielmo II aveva ordinato «un 
                  nuovo trono ornato di ornamenti speciali»; poi, «vestito 
                  di ununiforme bianca, di una corazza, di calzoni attillati, 
                  di un berretto sormontato da un uccello, e portando sopra tutto 
                  ciò un mantello rosso», sedeva nel nuovo trono 
                  e i sudditi, invece di trovare la cosa ridicola, la ritenevano 
                  uno «spettacolo molto imponente» (19).
 Gli storici riportavano solo le azioni di uomini di Stato e 
                  di generali: per questo avevano una grande responsabilità 
                  nellesaltare e nel far ritenere normale la violenza dei 
                  governi e dei sovrani. In Guerra e pace ci sono molte 
                  osservazioni ironiche su come gli storici spiegano gli avvenimenti 
                  (20). Attribuendo gli eventi collettivi 
                  al potere di pochi, essi tolgono ai singoli ogni capacità 
                  di influenzare la storia e quindi li assolvono da ogni responsabilità 
                  morale nella partecipazione ai massacri e alle guerre. Se gli 
                  individui non contano, non sono nemmeno responsabili (21). 
                  Ciascuno invece avrebbe dovuto provare gli scrupoli morali e 
                  i dubbi in cui si dibatte il principe Andrej: «Lo scopo 
                  della guerra è la strage. [
] Ah anima mia, in questi 
                  ultimi tempi mi è diventato penoso vivere!» (22). 
                  Nel 1905 Tolstoj avrebbe scritto nel suo diario che la storia 
                  insegnata nelle scuole era «la descrizione delle vite 
                  schifose dei vari furfanteschi re, imperatori, dittatori, generali 
                   cioè travisamento della verità» (23).
 Non occorre uccidere i re, conclude Tolstoj nellarticolo 
                  sul gesto di Bresci, «ma smettere di sostenere quel sistema 
                  sociale che li ha prodotti». Si cominci a dire le cose 
                  come stanno. Si dica che lesercito è lo strumento 
                  dellomicidio in massa chiamata guerra; si dica che la 
                  leva militare è un modo per preparare lassassinio. 
                  Ci si rifiuti di pagare imposte destinate allesercito; 
                  ci si rifiuti di prestare il servizio militare: «e subito 
                  si vanificherebbe da sé tutto quel potere degli imperatori, 
                  dei presidenti e dei re che tanto ci indigna, e per il quale 
                  adesso si continua ad assassinarli».
 Come negli altri scritti politici di Tolstoj, la conclusione 
                  è un appello: da un lato dire ai re che sono essi stessi 
                  degli assassini (Tolstoj riteneva che spiegandoglielo si potesse 
                  convincerli), e dallaltro lato «rifiutarsi di assassinare 
                  su loro comando», impedendo loro di fare guerre e di uccidere.
  
 Errico 
                  Malatesta   Malatesta e Tolstoj
 Larticolo di Tolstoj uscì nel 1900 in una rivista 
                  russa pubblicata in Inghilterra (24). 
                  In quello stesso periodo alcuni anarchici italiani che risiedevano 
                  a Londra pubblicarono un numero unico sulluccisione di 
                  re Umberto, dal titolo Cause ed effetti. 1889-1900. 
                  Errico Malatesta vi contribuì con larticolo La 
                  tragedia di Monza (25). Alcuni passaggi 
                  fanno pensare che Malatesta conoscesse già larticolo 
                  di Tolstoj, forse per il tramite di alcuni esuli russi che allepoca 
                  frequentava. Tuttavia non è necessario pensare a una 
                  conoscenza diretta. Da alcuni anni sulla stampa anarchica italiana 
                  ed europea si discuteva di Tolstoj, del suo «anarchismo» 
                  e della sua dottrina della resistenza al male. Anche Malatesta 
                  era intervenuto in più di una occasione (26). 
                  Inoltre La tragedia di Monza si inseriva in una discussione 
                  molto aspra che aveva diviso gli anarchici italiani in esilio. 
                  La mattina in cui arrivò a Londra la notizia delluccisione 
                  di re Umberto, un anarchico piemontese invitò a casa 
                  sua due compagni con cui si trovava spesso a giocare a carte: 
                  il giovane pittore Carlo Carrà e Mario Tedeschi, scappato 
                  dallItalia dopo i moti del 1898 e proprietario della pensione 
                  presso cui erano soliti trovarsi. Lanarchico piemontese 
                   così racconta Carrà  «aveva 
                  attaccati con un filo di spago al soffitto tanti bustini di 
                  gesso raffiguranti i diversi capi di Stato dEuropa: e 
                  salito sul tavolo con un temperino tagliò la corda che 
                  sosteneva quello rappresentante il re dItalia. Il gesso 
                  cadde a terra spezzandosi ed egli come ebbro gridò: E 
                  uno!». Per segnalare il loro totale disaccordo, 
                  Tedeschi e Carrà scrissero un manifesto che «affermava 
                  linviolabilità della vita umana, di quella dei 
                  re non meno di quella di qualsiasi mortale» e lo distribuirono 
                  tra la comunità italiana a Londra, anche nel ristorante 
                  dove si doveva tenere la commemorazione ufficiale del re alla 
                  presenza dellambasciatore dItalia.
 Una sera in cui gli anarchici italiani si trovarono assieme, 
                  come spesso succedeva, in una birreria, Malatesta accusò 
                  Carrà e Tedeschi di aver tradito «la causa della 
                  libertà». Secondo Carrà, scoppiò 
                  «un putiferio indescrivibile che per un vero miracolo 
                  non degenerò in un tafferuglio». Malatesta conosceva 
                  Carrà perché lavoravano nello stesso ristorante: 
                  lui lavorava ad un impianto elettrico, mentre il giovane pittore 
                  faceva dei lavori di decorazione. In seguito, incontrandolo 
                  al lavoro, Malatesta si avvicinò e chiese scusa per il 
                  suo comportamento. Ma la divisione si approfondì. Carrà 
                  fece un ritratto di re Umberto e lo mise in palio come premio 
                  di una lotteria. Lepigrafe sotto il ritratto, dettata 
                  da Tedeschi, diceva: «ucciso per mano assassina». 
                  Il quadro fu vinto dal Circolo monarchico italiano. La pensione 
                  di Tedeschi fu presa a sassate (27).
 Lo scritto di Malatesta inizia affermando che il gesto di Gaetano 
                  Bresci esprimeva «lira popolare» provocata 
                  dallignoranza e dalla miseria in cui le istituzioni tengono 
                  le masse proletarie. Gli anarchici andavano ripetendo che solo 
                  la rivoluzione potrebbe rendere gli uomini «fratelli nel 
                  comune lavoro per il benessere di tutti», ma i potenti 
                  continuavano a rispondere con persecuzioni e con ferocia. Poi, 
                  «quando lira accumulata dai lunghi tormenti scoppia 
                  in tempesta, quando un uomo ridotto alla disperazione, o un 
                  generoso commosso dai dolori dei suoi fratelli ed impaziente 
                  di attendere una giustizia tarda a venire, alza il braccio vendicatore», 
                  allora «i colpevoli siamo noi». Come sempre, commenta 
                  Malatesta, la colpa viene addossata allagnello.
 Dopo aver stabilito «cause ed effetti» delluccisione 
                  di re Umberto, Malatesta usa lo stesso argomento di Tolstoj, 
                  paragonando lindignazione per la morte di un re allindifferenza 
                  per le innumerevoli uccisioni che accadono quotidianamente a 
                  causa di guerre o di incidenti sul lavoro, o nel corso di rivolte 
                  represse a fucilate. È giusto deplorare la morte di un 
                  uomo, e anche Umberto, oltre che re, era un uomo; la regina 
                  è rimasta vedova, «e poiché una regina è 
                  anchessa una donna, noi simpatizziamo col suo dolore». 
                  Ma perché «tanto sfoggio di sentimentalismo» 
                  per un re ucciso, «quando migliaia e milioni di esseri 
                  umani muoiono di fame e di malaria» nellindifferenza 
                  di chi potrebbe aiutarli? Tutte le sofferenze umane vanno deplorate, 
                  anche quelle di un re, ma «il nostro dolore», afferma 
                  Malatesta, è più sentito «quando si tratta 
                  di un minatore schiacciato da una frana mentre lavora, e di 
                  una vedova che resta a morir di fame coi suoi figlioletti».
 Malatesta dissente da Tolstoj sullatteggiamento nei confronti 
                  della violenza. Entrambi ritengono che il sistema sociale si 
                  fonda sulla violenza messa a servizio di una piccola minoranza. 
                  Il militare, omicida di professione, è onorato, e più 
                  di tutti  continua Malatesta  è onorato il 
                  re, capo dei soldati. Il governo britannico brucia le fattorie 
                  dei Boeri; il sultano fa assassinare gli Armeni; il governo 
                  degli Stati Uniti massacra i Filippini; i lavoratori muoiono 
                  nelle miniere e nelle ferrovie; i governi mandano i soldati 
                  a fucilare i lavoratori. «Lunga è la lista dei 
                  massacri», commenta Malatesta nominando i luoghi degli 
                  eccidi compiuti dalla forza pubblica in Italia.
 Detto questo però, Malatesta sembra rispondere a Tolstoj, 
                  e si chiede: «Chi fa apparire la violenza come la sola 
                  via duscita dallo stato di cose attuale, come il solo 
                  mezzo per non subire eternamente la violenza altrui?». 
                  La violenza  risponde  è la rivolta «che 
                  di tanto in tanto scoppia». Ma colpevole non è 
                  chi si ribella. Finché gli oppressori e gli sfruttatori 
                  «si ostinano a godere dellattuale ordine di cose 
                  ed a difenderlo colla forza», non cè alternativa: 
                  «noi siamo nella necessità, siamo nel dovere di 
                  opporre la forza alla forza».
 Nemmeno Malatesta avrebbe usato il termine «delitto» 
                  per qualificare il gesto di Bresci, ma non per i motivi indicati 
                  da Tolstoj. Mentre Tolstoj rifiuta le leggi dello Stato in ossequio 
                  allunica legge cui sottomettersi, quella divina, Malatesta 
                  le rifiuta perché  lo scriverà un anno dopo 
                  per commentare luccisione del presidente americano McKinley 
                   «il codice è fatto contro di noi, contro 
                  gli oppressi» (28). Malatesta non 
                  riconosceva leggi eterne, e forse si sarebbe trovato daccordo 
                  con lo scrittore russo Maksím Gorki che, dopo aver letto 
                  Non uccidere e altri opuscoli politici di Tolstoj, scrisse a 
                  Cechov che Tolstoj diceva di essere anarchico, e in parte lo 
                  era: «Ma distruggendo alcune regole egli ne erige altre, 
                  altrettanto dure per gli uomini, altrettanto gravose; questo 
                  non è anarchismo ma qualcosa che sa di governatore» 
                  (29).
 Nellultima parte de La tragedia di Monza, Malatesta, 
                  continuando la sua polemica contro quanti esaltavano gli attentati 
                  e il terrorismo, ribadiva che la violenza era una necessità 
                  e non un mezzo. Gli anarchici erano dei liberatori e non dei 
                  giustizieri. Sarebbero ricorsi «allultimo espediente 
                  della forza fisica» cui «lostinata resistenza 
                  della borghesia» costringeva gli oppressi, ma non avrebbero 
                  mai fatto «vittime inutili, nemmeno tra i nemici», 
                  rimanendo «buoni e umani anche nel furore della battaglia». 
                  Nessuna rivoluzione liberatrice, ripeteva, poteva nascere dai 
                  massacri e dal terrore, da cui escono i tiranni.
 Questo non significava accettare il tolstojsmo. Interpretando 
                  la dottrina della resistenza passiva come rifiuto della lotta 
                  e come accettazione dello stato di cose (ma altri anarchici 
                  la interpretavano come una forma di «resistenza a mezzo 
                  della disobbedienza») (30), Malatesta 
                  andava dicendo da anni che un uomo sarebbe «un terribile 
                  egoista, se lasciasse opprimere gli altri senza tentare di difenderli». 
                  Terroristi e tolstojani gli sembravano avere un punto in comune: 
                  «Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità 
                  pur di far trionfare lidea; questi lascerebbero che tutta 
                  la umanità restasse sotto il peso delle più grandi 
                  sofferenze piuttosto che violare un principio». Quanto 
                  a lui, «io violerei tutti i principi del mondo pur di 
                  salvare un uomo»; e questo sarebbe stato lunico 
                  modo per salvare i principi morali, che si riducono a questo: 
                  «il bene degli uomini, di tutti gli uomini» (31). 
                  Questi temi, che percorrono lattività di propaganda 
                  di Malatesta negli anni di fine secolo, tornano nella conclusione 
                  de La tragedia di Monza.
 Come Tolstoj, Malatesta ritiene che invece di uccidere un re, 
                  è essenziale uccidere tutti i re «nel cuore e nella 
                  mente della gente», sradicando «la fede nel principio 
                  di autorità a cui presta culto tanta parte del popolo»; 
                  così si acquista «quella forza morale e materiale 
                  che occorre per ridurre al minimo la violenza necessaria ad 
                  abbattere il regime di violenza a cui oggi lumanità 
                  soggiace». E ancora come Tolstoj, sa che la violenza provoca 
                  «reazioni a cui si è incapaci di resistere» 
                  ed è «sorgente di autorità». «Noi 
                   dichiara  aborriamo dalla violenza per sentimento 
                  e per principio, e facciamo sempre il possibile per evitarla». 
                  Tuttavia, Malatesta rivendicava il diritto di praticarla sulla 
                  base della «necessità di resistere al male con 
                  mezzi idonei ed efficaci».
 Infine, mentre Tolstoj si appella al rifiuto individuale della 
                  menzogna e della sottomissione, compreso il rifiuto di prestare 
                  servizio militare, Malatesta auspica «libertà di 
                  propaganda e di organizzazione». Solo così le classi 
                  popolari avrebbero potuto «conquistare, sia pur gradualmente, 
                  la propria emancipazione per vie incruenti». Il governo 
                  italiano continuerà tuttavia a reprimere, commentava 
                  con amarezza: «e continuerà a raccogliere quello 
                  che semina».
  Le traduzioni in italiano
 La prima traduzione in italiano dellarticolo di Tolstoj 
                  uscì nella rivista «La vita internazionale», 
                  organo della Società per la pace e la giustizia internazionale, 
                  diretto da Ernesto Teodoro Moneta, fondatore dellUnione 
                  lombarda per la pace e larbitrato internazionale. Larticolo 
                  uscì nel numero del 20 ottobre 1900 con il titolo Non 
                  uccidere! A proposito dellassassinio di Umberto I, 
                  «in versione molto ridotta» (32). 
                  La rivista aveva pubblicato due anni prima larticolo di 
                  Tolstoj Carthago delenda, ed era stata sequestrata dalla Procura 
                  di Milano per «eccitamento alla disobbedienza della legge», 
                  malgrado una nota redazionale avesse preso le distanze dallinvito 
                  di Tolstoj, «paradossale e anarchico», di rifiutare 
                  il servizio militare (33). La paura di 
                  un nuovo sequestro e la distanza della rivista dalle posizioni 
                  di Tolstoj, consigliarono la redazione a pubblicare Non 
                  uccidere! con molti tagli. La traduzione era condotta su 
                  due differenti versioni uscite in due riviste francesi: «qui 
                  e là  avvertiva una nota  fummo costretti 
                  ad attenuare» (per esempio Guglielmo II non veniva mai 
                  nominato), di disobbedienza non si parlava, e lappello 
                  finale si riduceva a questo auspicio: «Non bisogna in 
                  nessun caso uccidere né Alessandro né Carnot, 
                  né Umberto, né altri: ma unirsi per far condividere 
                  loro questopinione che nessuno ha diritto di uccidere 
                  facendo la guerra» (34).
 Nel 1905 Non uccidere! venne compreso nella raccolta 
                  di scritti Ai governanti. Ai preti, pubblicata da Sonzogno 
                  nella traduzione di Maria Salvi (35). 
                  Sonzogno era la casa editrice del quotidiano «Il secolo», 
                  del quale Teodoro Moneta era stato direttore per quasi trentanni 
                  (36). Anche in questo caso non si tratta 
                  di una versione integrale: viene attenuato il giudizio di Tolstoj 
                  secondo cui un regicidio non è unazione particolarmente 
                  crudele se paragonato a quelle «incomparabilmente più 
                  crudeli» commesse dai re, e soprattutto vengono omessi 
                  gli appelli finali al rifiuto di pagare le tasse e di prestarsi 
                  al servizio militare (37).
 Larticolo fu pubblicato in versione integrale per la prima 
                  volta nel 1908 dal quindicinale anarchico «Il pensiero», 
                  diretto da Pietro Gori e Luigi Fabbri (38), 
                  con il titolo A proposito delluccisione di re Umberto, 
                  sulla base del testo francese pubblicato nella raccolta Les 
                  Rayons de lAube nel 1901 (39), 
                  ben conosciuta negli ambienti anarchici (40). 
                  In una nota redazionale, inserita nel punto in cui Tolstoj presenta 
                  Bresci come un uomo armato da un gruppo di anarchici, i responsabili 
                  del periodico dichiarano di essere «antitolstoiani recisi» 
                  e di dissentire dallarticolo «in numerosi punti», 
                  ma di pubblicarlo comunque per la prima volta in italiano per 
                  le affermazioni coraggiose che vi si trovavano (41).
 Lunico taglio operato dalla rivista riguarda le citazioni 
                  bibliche ed evangeliche premesse allarticolo. In un punto 
                  poi è inserita unaggiunta: nelloriginale 
                  russo e nel testo francese si legge che i re e gli imperatori 
                  dovrebbero stupirsi della rarità di questi crimini, mentre 
                  in quello italiano si legge: «I re e gli imperatori, se 
                  fossero logici, quando lira popolare si abbatte su qualcuno 
                  di loro, dovrebbero meravigliarsi della rarità di questi 
                  delitti». Laggiunta dellespressione «ira 
                  popolare» sembra riprendere quello che aveva scritto Malatesta.
  
  Con la prefazione di Arturo Labriola
 La collana «Biblioteca rossa» della Casa Editrice 
                  Abruzzese inizia le pubblicazioni nel 1913 con lo scritto di 
                  Tolstoj, Non posso tacere. Nello stesso anno pubblica 
                  Per luccisione di re Umberto, riprendendo la 
                  traduzione de «Il pensiero», con una prefazione 
                  di Arturo Labriola, notoriamente lontano dal pensiero di Tolstoj. 
                  Arturo Labriola aveva quarantanni. Si era formato sulle 
                  opere di Marx alluniversità di Napoli, la sua città. 
                  Tra i principali esponenti delle teorie di Sorel in Italia, 
                  aveva propugnato la necessità di una rivoluzione violenta 
                  come mezzo di mutamento sociale. In polemica con Turati, aveva 
                  sostenuto lazione diretta e rivoluzionaria delle masse 
                  contrapposta allazione parlamentare, ed era uscito dal 
                  partito socialista assieme ai sindacalisti rivoluzionari. Due 
                  anni prima si era schierato a favore della guerra di Libia, 
                  dichiarandola «una esigenza storica ed etnica, connessa 
                  alla vita quasi esclusivamente mediterranea del paese», 
                  avvicinandosi in tal modo ai nazionalisti (42).
 La sua prefazione, intitolata La contraddizione di Tolstoj, 
                  inizia con lomaggio di rito cui pochi si sottraevano, 
                  dichiarando che la dottrina della non resistenza al male aveva 
                  i caratteri di «una grandezza morale senza confronti». 
                  Detto questo, Labriola mette in contraddizione lo scritto sulluccisione 
                  di re Umberto con i principi proclamati dallo scrittore russo. 
                  Tolstoj  fa notare  pone sopra ogni altra cosa la 
                  coscienza morale; in nome della propria coscienza Bresci spara 
                  al re, perché il suo senso della giustizia «è 
                  diventato così squisito che non può più 
                  tollerare una infamia trionfante o una sopraffazione infelice»; 
                  ma invece di giudicare il gesto di Bresci con il criterio della 
                  coscienza morale, Tolstoj lo giudica in base alla convenienza 
                  rispetto al fine.
 Ma lobiettivo polemico di Labriola è la dottrina 
                  tolstojana. La non resistenza al male  scrive  è 
                  una illusione che scambia per «atto di libertà» 
                  quello che è «un atto di necessità». 
                  Chi è più debole soccombe necessariamente al più 
                  forte, e ha solo due possibilità: subire o ribellarsi 
                  con la forza. Dichiarare, come Tolstoj, che «la vita umana 
                  è sacra», sembrava a Labriola tipico di chi non 
                  sapeva accettare che guerra e violenza fanno parte della storia. 
                  «La vita umana  commenta  non è affatto 
                  più sacra di quella di uno scarafaggio o di un leone, 
                  perché la natura sperpera allegramente e con la stessa 
                  indifferenza la vita di tutte le sue creature».
 Labriola assimila Tolstoj al buddismo e alle teorie dei quaccheri, 
                  dottrine che a suo parere impediscono «lazione» 
                  e per questo  aggiunge  sono molto apprezzate dal 
                  socialismo parlamentare. Riconosce che la non resistenza al 
                  male «è il più formidabile atto di accusa 
                  che si possa pronunziare contro liniquità in auge», 
                  ma ribadisce che è un modo per ritrarsi da una «reazione 
                  risoluta e consapevole», una «rinuncia alla resistenza». 
                  Nella rivoluzione russa del 1905 i seguaci di Tolstoj si erano 
                  trovati «accanto agli uomini della rivoluzione», 
                  ma, facendo questo, avevano rinnegato linsegnamento del 
                  maestro. Lideale poteva andare bene fin che duravano «lincapacità 
                  o il desiderio di agire», ma quando «il processo 
                  naturale delle forze rivoluzionarie» riprendeva il suo 
                  corso, allora diventava inutile, superato dai fatti.
 Si trattava di una tesi piuttosto diffusa negli ambienti rivoluzionari 
                  del socialismo europeo. Qualche anno prima, in uno scritto dedicato 
                  a spiegare perché Tolstoj si era tenuto lontano dalla 
                  rivoluzione del 1905, Lenin aveva parlato di «contraddizioni 
                  [
] stridenti». Da un lato le sue opere esprimevano 
                  «una critica implacabile dello sfruttamento capitalistico, 
                  la denuncia delle violenze governative, della farsa della giustizia 
                  e dellamministrazione statale»; dallaltro 
                  riflettevano «limmaturità del sognatore, 
                  linesperienza politica, la fiacchezza rivoluzionaria». 
                  Al realismo e alla «capacità di strappare tutte 
                  le maschere», si accompagnavano per contrasto «la 
                  predicazione di una delle cose più ignobili che possano 
                  esistere al mondo, la religione, e la volontà di sostituire 
                  ai preti funzionari statali i preti mossi da convincimenti morali, 
                  il culto cioè del pretismo più raffinato, e, quindi, 
                  anche più abietto». La dottrina della non resistenza 
                  al male, aveva concluso Lenin, era stata «una delle cause 
                  più profonde della disfatta della prima campagna rivoluzionaria» 
                  (43).
 A differenza di Lenin, Labriola dichiarava ammirazione per la 
                  dottrina morale di Tolstoj. Ma la storia e la politica  
                  ribadiva  si svolgevano su un altro piano, quello della 
                  realtà, e chi si appellava ai valori della morale dimostrava 
                  di non saper accettare la realtà. Allepoca della 
                  guerra di Libia, Labriola aveva parlato di «svolgimento 
                  normale dellevoluzione storica contemporanea» (44); 
                  un anno dopo, in un discorso alla Camera per sostenere lintervento 
                  dellItalia nella prima guerra mondiale, avrebbe dichiarato 
                  di porsi «sul terreno dei fatti» (45).
 Benché stesse per presentarsi candidato al parlamento 
                   sarebbe stato eletto deputato alle elezioni del 1913 
                  , Labriola continuava a sentirsi un rivoluzionario, tanto 
                  da esibire disprezzo per chi «fa professione e mestiere 
                  di socialismo parlamentare». Pensava che compito di un 
                  rivoluzionario fosse quello di capire il senso storico degli 
                  avvenimenti, di controllarli e di saperli dirigere  tutto 
                  quello cioè che Tolstoj trovava ridicolo e spregevole 
                  in uomini come Napoleone. Pochi anni prima, discutendo di pacifismo 
                  e di antimilitarismo, Labriola aveva dichiarato che la guerra 
                  era un mezzo al pari degli altri: dipendeva da come la si usava. 
                  Laveva paragonata a una macchina a vapore «che può 
                  condurci rapidamente a un porto, oppure precipitarci in un burrone», 
                  o a una lama affilata che «nelle mani del chirurgo dà 
                  la salute, nelle mani dellassassino spezza lesistenza» 
                  (46).
 La metafora medica riferita alla guerra ricorda lesaltazione 
                  futurista della guerra «sola igiene del mondo». 
                  Di lì a qualche anno la rivoluzione bolscevica, sprofondata 
                  in una guerra civile, sarebbe apparsa sotto la stessa luce. 
                  Quando lanarchico Armando Borghi incontrò a Mosca 
                  nel 1920 i capi bolscevichi, Lenin gli disse che la rivoluzione 
                  era «un atto chirurgico»: dopo un po, lammalato 
                  si sarebbe alzato dal letto, guarito. «Lammalato 
                  sì, ma il dottore?», ribatté Borghi (47).
  Piero Brunello Questo testo costituisce lintroduzione al volume di Leone 
                  Tolstoj Per luccisione di re Umberto, appena 
                  pubblicato (in prima edizione italiana) dalle Edizioni del Centro 
                  Studi Libertari Camillo Di Sciullo.
 
                   
                    | Note: 
                         * 
                        Ringrazio Filippo Benfante, Pietro Di Paola e Giannarosa 
                        Vivian per aver letto e discusso questo scritto. 1. L. N. Tolstoj, I diari. Scelta dei testi, 
                        prefazione, traduzione e note di S. Bernardini, Garzanti, 
                        Milano 1997, p. 279 (12 gennaio 1889).
 2. W. Nabokov, Lev Tolstoj (18281910), 
                        in Id., Lezioni di letteratura russa, Garzanti, 
                        Milano 1994, p. 272.
 3. Tolstoj, I diari cit., p. 294 (27 ottobre 
                        1889).
 4. Ibid., p. 365 (18 agosto 1894).
 5. Ibid., pp. 373-374 (7 febbraio 1895).
 6. Ibid., p. 445 (13 marzo 1900).
 7. L. Tolstoj, Perché la gente si droga? E 
                        altri saggi su società, politica, religione, 
                        a cura di I. Sibaldi, Oscar Mondadori, Milano 1988, p. 
                        247.
 8. Tolstoj, I diari cit., p. 448 (7 agosto 1900).
 9. Ne Le confessioni, scritte tra il 1879 e il 
                        1882, Tolstoj ricordò limportanza del Buddha 
                        nella propria esperienza interiore (L. Tolstoj, Le 
                        confessioni, a cura di M. B. Luporini, Rizzoli, Milano 
                        1979, pp. 8890); nel 1886 iniziò a scrivere 
                        un breve testo sulla vita del Buddha; negli ultimi anni 
                        di vita inserì nel Ciclo di lettura i 
                        dieci comandamenti delle osservanze etiche buddiste, il 
                        cui primo è «Non uccidere, rispetta la vita 
                        di ogni vivente». Cfr. P. C. Bori, Tolstoj oltre 
                        la letteratura (1875-1910). Antologia a cura di A. 
                        Cavazza, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di 
                        Fiesole (Firenze), 1991, pp. 19, 80.
 10. Le citazioni, dal «Corriere della sera», 
                        sono riportate, senza data, in A. Petacco, Lanarchico 
                        che venne dallAmerica. Storia di Gaetano Bresci 
                        e del complotto per uccidere Umberto I, Mondadori, 
                        Milano 2000, p. 196. Si veda anche G. Galzerano, Gaetano 
                        Bresci. La vita, lattentato, il processo e la 
                        morte del regicida anarchico, Galzerano, Casalvelino 
                        Scalo (Salerno) 1988.
 11. L. N. Tolstoj, Resurrezione. Introduzione 
                        di E. Bazzarelli. Traduzione di C. Terzi Pizzorno, Rizzoli, 
                        Milano 1992, pp. 362, 299.
 12. Ibid., p. 391.
 13. Cfr. T. Hopton, Tolstoy, God and Anarchism, 
                        «Anarchist Studies», vol. 8, 1 (marzo 2000), 
                        p. 48. Vladimir Nabokov fa la medesima osservazione a 
                        proposito del romanzo Anna Karenina, composto 
                        tra il 1873 e il 1877, prima degli scritti politici di 
                        Tolstoj: «Le leggi della società sono temporanee; 
                        quelle che interessano a Tolstoj sono le eterne esigenze 
                        della moralità» (Nabokov, Lev Tolstoj 
                        cit., in Id., Lezioni cit., p. 180). Sul percorso 
                        filosofico-religioso di Tolstoj, vedi Bori, Tolstoj 
                        cit.
 14. Le citazioni da Non uccidere sono secondo 
                        la traduzione di Sibaldi in Tolstoj, Perché 
                        la gente si droga cit., pp. 248-256.
 15. L. Tolstoi, Cristianesimo e patriottismo, 
                        Max Kantorowicz editore, Milano 1895 [la cit. a p. 61]. 
                        In questo, come in altri casi, mantengo «Tolstoi» 
                        in luogo di «Tolstoj», come nelloriginale.
 16. L. Tolstoj, Guerra e pace. Traduzione di 
                        E. Carrafa dAndria. Con un saggio di T. Mann. Prefazione 
                        di L. Ginzburg, III, Einaudi, Torino 1962, p. 708.
 17. I. Berlin, Il riccio e la volpe, in Id., 
                        Il riccio e la volpe, Adelphi, Milano 1998, pp. 
                        148-149.
 18. Tolstoj, Guerra e pace cit., III, pp. 708709.
 19. Tolstoi, Cristianesimo cit., pp. 59-62.
 20. «In quel tempo cera in Francia un uomo 
                        di genio: Napoleone. Egli vinse tutti dovunque, cioè 
                        uccise molta gente, poiché era molto geniale. E 
                        per una qualche sua ragione egli andò a uccidere 
                        gli africani, e li uccise così bene e fu così 
                        astuto e intelligente che, ritornato in Francia, ordinò 
                        che tutti gli obbedissero. E tutti gli obbedirono. Fattosi 
                        imperatore, di nuovo andò a uccidere gente in Italia, 
                        in Austria e in Prussia. E là pure ne uccise molti. 
                        In Russia però cera limperatore Alessandro, 
                        che decise di ristabilire lordine in Europa e perciò 
                        mosse guerra a Napoleone. Ma nel 1807 a un tratto egli 
                        si fece amico con lui, e nel 1811 leticò di nuovo, 
                        e di nuovo essi fecero morire molta gente. E Napoleone 
                        condusse seicentomila uomini in Russia e simpadronì 
                        di Mosca; ma poi improvvisamente fuggì via da Mosca, 
                        e allora limperatore Alessandro, aiutato dai consigli 
                        di Stein e di altri, coalizzò lEuropa per 
                        costituire una milizia comune contro il perturbatore della 
                        sua tranquillità» (Tolstoj, Guerra e 
                        pace cit., IV, pp. 1383-1384).
 21. Hopton, Tolstoy cit., p. 29.
 22. Il brano è citato da P. C. Bori, Introduzione, 
                        in L. Tolstoj, Guerra e pace. Prefazione di L. 
                        Ginzburg, I, Einaudi, Torino 1990, p. XLIX, per mostrare 
                        che la condanna della guerra e «la radicalità 
                        degli imperativi morali», che si trovano nellultimo 
                        Tolstoj, erano già presenti nel primo Tolstoj (ibid., 
                        pp. XLVIIIL).
 23. Tolstoj, I diari cit., p. 497 (6 marzo 1905).
 24. «La prima edizione fu quella dei Listkì 
                        svobodnago slova, n. 17, 1900. In Russia, Non 
                        uccidere venne pubblicato in brossura dalla casa 
                        editrice Obnovlenie, a Pietroburgo, nel 1906, con conseguente 
                        arresto del direttore editoriale N. E. Felten – 
                        scarcerato dopo pochi giorni, ma con la condanna a pagar 
                        la considerevole ammenda di 1.000 rublie. La pubblicazione 
                        dellarticolo nelle Opere complete del 1911 (12 ed.) 
                        venne vietata dalla Suprema Camera di giustizia di Mosca» 
                        (Tolstoj, Perché la gente si droga cit., 
                        p. 247).
 25. E. Malatesta, La tragedia di Monza, in «Cause 
                        ed effetti. 18981900», numero unico, Londra 
                        settembre 1900; lo scritto è anche in Id., Scritti 
                        scelti, a cura di G. Berneri e C. Zaccaria, Napoli 
                        1954, pp. 121125
 26. Tra gli scritti più recenti, rinvio a A. Salomoni, 
                        Il pensiero religioso e politico di Tolstoj in Italia 
                        (18861910), Olschki, Firenze 1996, in particolare 
                        pp. 175-223, e G. Berti, Il pensiero anarchico. Dal 
                        Settecento al Novecento, Lacaita, Manduria - Bari 
                         Roma 1998, pp. 667-691.
 27. C. Carrà, La mia vita. Presentazione 
                        di V. Fagone, Feltrinelli, Milano 1981 [1 ed. 1945], pp. 
                        26-30.
 28. E. Malatesta, Arrestiamoci sulla china, «Lagitazione», 
                        22 settembre 1901, cit. in P. C. Masini, Storia degli 
                        anarchici italiani nellepoca degli attentati, 
                        Rizzoli, Milano 1981, p. 181.
 29. Lettera di Maksím Gorki a Ànton Cechov, 
                        Novgorod, ottobre 1900, in M. Gorki - A. Cechov, Carteggio. 
                        Articoli e giudizi. Introduzione di V. Gerratana, 
                        Edizioni Rinascita 1951, Roma 1954, p. 71. Gli scritti 
                        La schiavitù del nostro tempo, Dovè 
                        la radice del male e Non uccidere produssero 
                        in Gorki «limpressione di compitini ingenui 
                        da studente di ginnasio» (ibid.)
 30. Così per esempio Max Nettlau, che nel 1897 
                        considera Tolstoj «parte integrante del movimento 
                        anarchico». Cfr. Salomoni, Il pensiero 
                        cit., pp. 177-178.
 31. E. Malatesta, Errori e rimedi. Schiarimenti, 
                        in «Lanarchia», numero unico, agosto 
                        1896, ripubblicato in Id., Scritti scelti, a 
                        cura di G. Berneri e C. Zaccaria, Edizioni RL, Napoli 
                        1954, pp. 21-25.
 32. Salomoni, Il pensiero cit., p. 72 (sullarticolo 
                        di Tolstoj, pp. 72-75).
 33. Sulla vicenda, ibid., pp. 62-67. Nella nota pubblicata 
                        da «La vita internazionale» si leggeva tra 
                        laltro: «La ribellione che consiglia Tolstoj 
                        condurrebbe a una reazione peggiore dogni male, 
                        perché appunto la coscienza universale, non essendo 
                        ancora abbastanza matura, finirebbe col perseguitare implacabilmente 
                        chi volesse farle compiere dei progressi troppo rapidi». 
                        Cfr. Claudio Ragaini, Un quasi-inedito di Tolstoi, 
                        «Nuova Antologia», CXV (1980), fasc. 2136 
                        (ottobre-dicembre), p. 206. LA. pubblica la traduzione 
                        dellarticolo originale di Tolstoj Carthago delenda, 
                        scrivendo che lo scritto non fu mai pubblicato in italiano 
                        «nella forma integrale», e che uno stralcio 
                        «ampiamente purgato e ridotto», venne compreso 
                        nella raccolta di scritti di L. Tolstoi, Ai soldati, 
                        agli operai, Sonzogno, Milano 1905, tradotti da Maria 
                        Salvi. In realtà nellopuscolo Sonzogno lo 
                        scritto Cartagine deve essere distrutta (ibid., 
                        pp. 49-58) parrebbe lo stesso riportato da Ragaini con 
                        diversa traduzione. Lo scritto è pubblicato anche 
                        in L. Tolstoj, Patriottismo e governo e altri scritti 
                        antimilitaristi, Edizioni senzapatria, Sondrio 1987, 
                        pp. 37-46, ripreso a sua volta da «Azione nonviolenta», 
                        Verona, gennaio 1985, pp. 6-8 con il titolo Lev Tolstoj 
                        e lobiezione di coscienza.
 34. L. Tolstoj, Non uccidere! A proposito dellassassinio 
                        di Umberto I, «La vita internazionale», 
                        III, 20 (20 ottobre 1900), pp. 609-610. Le riviste francesi 
                        da cui «La vita internazionale» dichiarava 
                        di tradurre erano la «Revue Blanche» e la 
                        «Revue et Revue des Revues».
 35. L. Tolstoj, Agli imperatori, ai re, ai presidenti, 
                        ecc. in Id., Ai governanti. Ai preti, tr. 
                        di M. Salvi, Sonzogno, Milano 1905, pp. 39-45.
 36. Ragaini, Un quasi-inedito cit., p. 206.
 37. Scrive Tolstoj: «Lassassinio dei re, come 
                        il recente assassinio di Umberto, è terribile, 
                        sì, ma non perché sia di per sé una 
                        cosa crudele. Quel che vien fatto per ordine re e degli 
                        imperatori [
], e i massacri che si compiono in guerra 
                         sono incomparabilmente più crudeli degli 
                        assassinii commessi dagli anarchici» (Tolstoj, Non 
                        uccidere, in Tolstoj, Perché la gente 
                        si droga cit., 250). Nellopuscolo Sonzogno 
                        viene omessa la precisazione «ma non perché 
                        sia di per sé una cosa crudele» riferita 
                        al regicidio, e si legge: «Lomicidio di un 
                        re  quello di Umberto, per esempio  è 
                        un atto di una crudeltà particolarmente nauseante, 
                        è vero. Ma delle misure ordinate dai re e dagli 
                        imperatori [
] sono incomparabilmente più 
                        crudeli degli assassini commessi dagli anarchici» 
                        (Tolstoi, Ai governanti cit., pp. 40-41). Inoltre 
                        nellopuscolo Sonzogno viene omesso il seguente brano: 
                        «Basterebbe [
] che ogni privato cittadino 
                        comprendesse che il pagamento delle tasse, con le quali 
                        si arruolano si armano e si armano i soldati, e a maggior 
                        ragione il servizio militare, non sono affatto azioni 
                        senza importanza, bensì azioni malvagie e vergognose. 
                        E costituiscono non soltanto una connivenza ma una vera 
                        e propria complicità ad un omicidio  e subito 
                        si vanificherebbe da sé tutto quel potere degli 
                        imperatori, dei presidenti e dei re che tanto ci indigna, 
                        e per il quale adesso si continua ad assassinarli» 
                        (Tolstoj, Non uccidere, in Id., Perché 
                        la gente si droga cit., pp. 255-256). Un brano, sempre 
                        alla fine dello scritto, viene mutilato nellopuscolo 
                        Sonzogno. Tolstoj scrive: «Per cui non occorre assassinare 
                        gli Alessandri, i Carnot, gli Umberti e gli altri, ma 
                        occorre spiegar loro che sono essi stessi degli assassini, 
                        e occorre soprattutto non permettere loro di assassinare 
                        altra gente, rifiutarsi di assassinare su loro comando» 
                        (Tolstoj, Non uccidere, in Tolstoj, Perché 
                        la gente si droga cit., 256). Nellopuscolo 
                        Sonzogno si legge: «Non bisogna, in alcun caso, 
                        uccidere né Alessandro, né Carnot, né 
                        Umberto, né gli altri, ma unirsi a loro per fare 
                        ad essi dividere questa opinione che hanno diritto di 
                        uccidere facendo la guerra» (p. 45). La traduttrice 
                        di Tolstoj, Maria Salvi, non precisa la fonte da cui traduce; 
                        molto probabilmente si tratta della raccolta di scritti 
                        di L. Tolstoj, Les rayons de LAube, pubblicata 
                        a Parigi nel 1901, su cui vedi la nota 39.
 38. L. Tolstoi, A proposito delluccisione di 
                        re Umberto, «Il pensiero. Rivista quindicinale 
                        di sociologia, arte e letteratura». Redattori Pietro 
                        Gori e Luigi Fabbri, Roma, VI, n. 15, 1 agosto 1908, pp. 
                        226-228.
 39. L. Tolstoi, A propos de lassassinat du roi 
                        Humbert, in Id., Les Rayons de lAube. Dernières 
                        études philosophiques. Traduit du russe par 
                        J. W. Bienstock, P. V. Stock, Paris 1901, pp. 241-252. 
                        La versione è la stessa, e così il titolo. 
                        La fonte viene inoltre dichiarata da «Lagitatore. 
                        Periodico settimanale di azione rivoluzionaria», 
                        Bologna, I, n. 14, 29 luglio 1910, che pubblica la prima 
                        parte dellarticolo, intitolandolo La parola 
                        di Leone Tolstoi, e rinviando a Les Rayons de 
                        LAube cit., pp. 241-245. Rispetto alla traduzione 
                        fedele de «Il pensiero», «LAgitatore» 
                        operava un taglio. Nel giornale di Pietro Gori e Luigi 
                        Fabbri si legge: «Se gli uccisori dei re hanno commesso 
                        il loro delitto sotto linfluenza sia di un sentimento 
                        personale di indignazione, provocato dalla miseria di 
                        un popolo oppresso  miseria di cui sembravano loro 
                        responsabili Alessandro, Carnot o Umberto  sia di 
                        un sentimento personale di vendetta, il loro atto per 
                        quanto sia immorale, è almeno spiegabile». 
                        «Lagitatore» invece omette linciso 
                        «per quanto sia immorale» riferito al regicidio: 
                        «Se gli uccisori dei re hanno commesso il loro delitto 
                        sotto linfluenza sia di un sentimento personale 
                        di indignazione, provocato dalla miseria di un popolo 
                        oppresso  miseria di cui sembravano loro responsabili 
                        Alessandro, Carnot e Umberto  sia di un sentimento 
                        personale di vendetta il loro atto è almeno spiegabile». 
                        Nel testo francese si legge: «leur acte, quelque 
                        immoral quil demeure, est au moins expicable».
 40. Quando morirà Tolstoj, il libro viene citato 
                        sia da L. Fabbri, Il pensiero anarchico in Leone Tolstoi, 
                        «Il pensiero», VIII, n. 24, 16 dicembre 1910, 
                        pp. 356-361, sia da L. Galleani, Leone Tolstoi 1828-1910, 
                        «Cronaca sovversiva», 2 dicembre 1910, in 
                        Id., Medaglioni. Figure e Figuri, Biblioteca 
                        de LAdunata dei Refrattari, Newark  New Jersey 
                        1930, pp. 90-94. Il sommario dellarticolo di Galleani 
                        diceva: «Tolstoi predicava la rassegnazione e il 
                        ritorno al cristianesimo primitivo. Era troppo cristiano 
                        per non essere un nemico della Chiesa. Non ha alzato la 
                        sua voce quando tutta la Russia era in fiamme e le strade 
                        di Pietroburgo e di Mosca si riempivano di barricate. 
                        Non labbiamo mai amato».
 41. «Tolstoi, vivendo in Russia, paese di sette 
                        in cui la cospirazione è la cosa più naturale, 
                        crede sul serio ai «complotti» che ad ogni 
                        attentato individuale le polizie di tutti i paesi, insieme 
                        ai giornali borghesi, inventano. Del resto non cè 
                        bisogno di notare (per coloro che ci conoscono) i numerosi 
                        punti in cui noi, antitolstoiani recisi, dissentiamo da 
                        questo articolo  che pure abbiamo creduto opportuno 
                        offrire per la prima volta ai lettori italiani, per le 
                        cose interessanti ed ardite che vi son dette, dopo 8 anni 
                        precisi dal fatto che lo motivò».
 42. A. Labriola, La guerra di Tripoli e lopinione 
                        socialista, Morano, Napoli 1912, p. 104, cit. in 
                        D. Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario 
                        in Italia, Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1970, 
                        p. 204.
 43. V. I. Lenin, Lev Tolstoi come specchio della rivoluzione 
                        russa, in Id., Opere complete, XV (marzo 
                        1908-agosto 1909), Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 199-203. 
                        Lo scritto era stato pubblicato in «Proletari», 
                        n. 35 (24 settembre 1908).
 44. Cit. in Marucco, Arturo Labriola cit., p. 
                        205.
 45. Cit. ibid., p. 222. È lintervento alla 
                        Camera dei Deputati del 4 dicembre 1914.
 46. A. Labriola, Intorno allherveismo, 
                        «Pagine libere», 1907, n. 20, p. 389, cit. 
                        ibid., p. 193.
 47. Lincontro è raccontato da A. Borghi, 
                        Mezzo secolo di anarchia (1898-1945). Prefazione 
                        di G. Salvemini, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 
                        1954 (ristampa Edizioni Anarchismo, Catania 1989), pp. 
                        239-240. Borghi scrive di essere partito con altri compagni 
                        guardando «con gli occhi notturni dellamore» 
                        alla rivoluzione che «inabissava la guerra, dinamitava 
                        i troni, sorrideva alla pace», e di aver trovato, 
                        in una Russia distrutta dalla guerra e dalla fame, la 
                        «ferrea logica della dittatura», «la 
                        logica terribile del totalitarismo» (il resoconto 
                        del viaggio nel capitolo Alla scoperta della Russia, 
                        pp. 223-244).
 
 Per 
                        richieste: CSL Di Sciullo, c.p. 86, 66100 Chieti, e-mail: 
                        fab.pal@libero.it. 
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