| Probabilmente, quando questo numero 
                  di A andrà in edicola, la guerra sarà 
                  già una realtà o, al meglio, uneventualità 
                  assai prossima. Non cè, purtroppo, da alimentare 
                  alcuna illusione: la guerra è stata decisa da tempo e 
                  se non è ancora guerreggiata è perché lamministrazione 
                  Bush ha tentato sin qui di farne pagare le spese  come 
                  avvenne per la guerra del Golfo  alla comunità 
                  internazionale. E sarà un conflitto, quello che gli Stati 
                  Uniti scateneranno contro lIraq di Saddam Hussein, inedito 
                  e che coinvolgerà, in prima istanza, larea mediorientale, 
                  ma che, fatalmente, si estenderà poi in larghissima parte 
                  del pianeta. Inedito, questo conflitto voluto da George Bush, perché, 
                  per la prima volta nella storia, una nazione esplicita senza 
                  mezzi termini la propria intenzione di egemonizzare il mondo, 
                  esportando, con le buone o con le cattive, il proprio modello 
                  di sviluppo e il proprio ordinamento politico-giuridico-sociale, 
                  in nome di una globalizzazione, la cui attuazione non sarà 
                  compiuta se non abbraccerà tutti i settori della vita 
                  associata degli uomini. Al confronto, la protervia napoleonica, 
                  vera o presunta che fosse, appare come la nevrosi visionaria 
                  di un puerino, staccato anzitempo dal seno della madre.
 Si tratta, tuttavia e purtroppo, di un disegno che appare realistico, 
                  a giudicare dalle forze in campo, per due buoni motivi. Il primo 
                  è che non esiste attualmente un modello alternativo forte 
                  da opporre al modo di produzione capitalistico, di cui la globalizzazione 
                  è fase conseguente. Ci sono, è vero, voci dissonanti, 
                  iniziative anche concrete che propongono di coniugare, con cadenze 
                  diverse, i tempi, i modi e i criteri della produzione e della 
                  distribuzione delle risorse, in modo che siano più rispondenti 
                  alle reali esigenze degli uomini, di tutti gli uomini, salvaguardandone 
                  anche quei diritti che non siano direttamente riconducibili 
                  alla dimensione economica. Ma sono progetti e iniziative, certamente 
                  meritori per la gran parte, che raramente affrontano il problema 
                  dalla radice: troppo spesso, anzi, appaiono come variazioni 
                  sul tema dellesistente, condannati, quindi, a ricadere 
                  nella logica che intendono combattere. Su questo versante, perciò, 
                  cè ancora moltissimo da fare e non mi sembra, francamente, 
                  che il movimento new global si muova velocemente in questa direzione.
 Il secondo motivo che giuoca a favore del progetto dellamministrazione 
                  Bush è la potenza militare che può mobilitare, 
                  smisuratamente più grande di quella che le altre coalizioni, 
                  effettive o virtuali, possano, volendolo, contrapporgli. Gli 
                  arsenali di armi convenzionali e non, posseduti dagli Stati 
                  Uniti, coniugati con uno straordinario apparato informatico 
                  di sorveglianza e di spionaggio, mettono i militari americani 
                  nelle condizioni di colpire mortalmente qualunque paese vicino 
                  o lontano che sia. Quindi, neppure da questo versante cè 
                  molto da sperare, mettendo nel conto anche il cinismo di una 
                  nazione che, in gran parte ancora, si sente impegnata in una 
                  sorta di prosecuzione aggiornata delle guerre di conquista che 
                  ne segnarono le origini.
  Spiragli di luce 
 Ma se lorizzonte sembra chiuso da compatte nuvole oscure, 
                  non è detto che qualche spiraglio di luce prima o poi 
                  non traspaia. Dove sta la debolezza del progetto americano? 
                  Per la verità, di crepe in questa gigantesca costruzione 
                  se ne scorgono già parecchie. Cominciamo dalla principale, 
                  che può apparire come la conseguenza di una visione ottimistica 
                  della condizione umana, alla quale è difficile conferire 
                  peso specifico: il processo di globalizzazione prevede, per 
                  definizione, che vi sia un centro dellimpero dal quale 
                  tutte le cose provengano e al quale tutte le cose risalgano. 
                  Il resto, comunità, fedi religiose, consuetudini esistenziali 
                  diverse dalle proprie, è tollerato a condizione che non 
                  interferisca sulle rotte del grande navigatore.
 Non vi è dubbio che, attualmente, il centro dellimpero 
                  sia la potenza americana e non passa giorno senza che George 
                  Bush ce lo ricordi.
 Se questi, però, sono gli onori, agli oneri non ci si 
                  può sottrarre, e sono oneri gravosi. Bisogna difendere 
                  limpero alle frontiere, tanto vaste quanto è vasto 
                  limpero; occorre provvedere a sfamare le popolazioni ed 
                  a sorvegliarle, e ciò implica una rete burocratico-poliziesca 
                  dalle dimensioni gigantesche.
 Nella storia moderna gli imperi hanno avuto sempre vita non 
                  facile e relativamente breve. Poi, di norma, si costituivano 
                  come esiti di conflitti fra istituzioni statuali: i popoli contavano 
                  poco, tanto lontana era la loro esistenza dalle tattiche e dalle 
                  strategie dei loro amministratori. Se mi è consentita, 
                  a mo di esempio, una parentesi personale, ricordo che, 
                  alla fine degli anni Sessanta, in giro per la campagna calabra 
                  per documentarmi su una riedizione critica del romanzo verghiano 
                  I carbonari della montagna, in quelle plaghe ambientato, 
                  mi trovai a chiedere ad un contadino della Sila se sapesse chi 
                  fossero i Savoia. Nel suo dialetto duro e cadenzato mi confessò 
                  di non saperlo, ma che forse si trattava di biscotti che si 
                  preparavano nella lontana città di Catanzaro. Probabilmente 
                  si trattava di un caso limite, ma è certo che, se si 
                  escludevano i grandi centri urbani dove il confronto politico 
                  era più visibile, nelle periferie e, soprattutto nel 
                  contado, se la popolazione si scontrava con le istituzioni, 
                  i motivi andavano ricercati nella precarietà della vita 
                  che era costretta a vivere, piuttosto che in una visione politica 
                  determinata. Del resto, per avere conferma sullo stato delle 
                  cose di allora, basta scorrere le statistiche del tempo sul 
                  livello di scolarizzazione, sulla precarietà, per non 
                  dire inesistenza, dei mezzi di comunicazione di massa e sulla 
                  difficoltà della circolazione degli individui, quando 
                  non costretti ad esodi dolorosi per garantirsi la sopravvivenza.
  Mobilitazioni impensabili 
 Oggi, per fortuna, almeno su questo versante, la situazione 
                  è assai diversa. Cè, nei popoli, una consapevolezza 
                  incommensurabilmente più rilevante dei propri diritti, 
                  primo fra tutti quello di partecipare attivamente alle decisioni 
                  che sono destinate a pesare sulla comunità di appartenenza 
                  e sul contesto geopolitico complessivo. Appena pochi anni fa, mobilitazioni popolari per il lavoro e 
                  contro la guerra quali quelle che si sono viste in ogni angolo 
                  di mondo in questo scorcio di secolo, erano impensabili. E questo 
                  complica oltre ogni misura la fattibilità di un disegno 
                  imperiale.
 A prescindere, comunque, da tali difficoltà obiettive, 
                  nel caso specifico dellamministrazione Bush occorre aggiungere 
                  una carenza di livello strategico davvero sorprendente.
 Già nella giustificazione degli interventi in Afghanistan 
                  e in quello ipotizzato in Iraq, sono state fornite almeno tre 
                  versioni tra loro diversissime. Appena dopo l11 settembre, 
                  si disse che occorreva prepararsi ad un trentennio di guerra 
                  continua contro il terrorismo islamico; poi si affermò 
                  che gli interventi militari erano necessari per abbattere linumana 
                  dittatura di Saddam Hussein e per sollevare il popolo iracheno 
                  dalla schiavitù e dalla fame; infine  e non è 
                  detto che sia lultima versione  si dichiarò 
                  che la lotta al terrorismo è solo un episodio del ben 
                  più impegnativo disegno di stabilizzare lo scacchiere 
                  medio orientale, provocando un effetto domino che, a partire 
                  dallIraq, modifichi in senso democratico lassetto 
                  politico dellarea.
 Comè facile rilevare, si tratta di giustificazioni 
                  che hanno respiri strategici assai diversi luno dallaltro 
                  e che implicherebbero, se fossero credibili, tre distinte procedure, 
                  sia in termini di mobilitazione di risorse, sia nella preparazione 
                  diplomatica dellimpresa prescelta. Per esempio: in una 
                  lotta contro il terrorismo che non fosse pretestuosa, si otterrebbe, 
                  come del resto si ottenne, unampiezza di consensi (e, 
                  quindi, una partecipazione alle spese) che sarebbe molto più 
                  problematica se si trattasse di intervenire nel modo descritto 
                  in Medio Oriente.
 In questultimo caso, gli interessi in giuoco sarebbero 
                  assai poco convergenti. Il problema, infatti, si porrebbe non 
                  in termini di guerra sì o guerra no, ma di sapere cosa 
                  si vuol fare dopo, dando per scontato lesito a favore 
                  dellAmerica dellevento bellico. Per quanto poco 
                  credibile, in Afghanistan un leader come Karzai cera, 
                  ma in Iraq lopposizione al regime di Saddam non esprime 
                  alcun esponente che abbia quel minimo di carisma necessario 
                  per compattare il paese, senza considerare poi che, scomparso 
                  il dittatore, un laico che tutto sommato non urtava la suscettibilità 
                  religiosa di alcuna fazione, le tensioni interne, proprio di 
                  carattere religioso, esploderebbero. Ed è per questa 
                  ragione che alcuni osservatori non escludono la possibilità 
                  di uno smembramento dellIraq in tre parti: a nord i curdi, 
                  che rivendicherebbero i territori con le città di Mosul 
                  e Kirkuk; i sunniti al centro con la capitale Baghdad; gli sciiti 
                  a sud, dalla città di Nagal sino al confine con il Kuwait. 
                  Questa ipotesi allarma la Turchia, che vede la possibilità 
                  della riedizione di uno stato curdo al sud. E tale preoccupazione 
                  non è certamente estranea allimprovvisa e imprevedibile 
                  impuntatura del parlamento nel negare il transito delle truppe 
                  americane per un attacco da nord dellIraq. (Mentre scriviamo 
                  non siamo in grado di stabilire se il veto verrà mantenuto 
                  o si tratta solo di una dilazione)
 In ogni caso, comunque vadano le cose, occorrerebbe sempre una 
                  sorta di protettorato militare del territorio iracheno della 
                  durata dai cinque ai dieci anni, per rimettere in piedi un sistema 
                  politico-amministrativo in grado di governare in qualche modo 
                  il paese, con un costo annuo valutato intorno ai 20 miliardi 
                  di dollari, ai quali bisognerebbe aggiungere le spese per i 
                  profughi e lassistenza alle popolazioni. Se a questi costi 
                  si sommano quelli per la sola impresa bellica, valutati intorno 
                  ai 100 miliardi di dollari, non si vede come uneconomia 
                  in stagnazione quale quella americana possa sopportare un peso 
                  così esorbitante.
 Consolatoriamente si afferma che a pagare la maggior parte delle 
                  spese sarebbe la commercializzazione del petrolio iracheno, 
                  liberato da ogni embargo. Ma la prospettiva è consolatoria 
                  perché, ammesso che nel corso della guerra i pozzi principali 
                  non vengano incendiati  evento assai probabile  
                  ci vorranno anni per ripristinare i sistemi di estrazione e 
                  di raffinazione non utilizzati per le limitazioni imposte dallONU 
                  dopo la Guerra del Golfo del 1992.
 
  Effetti collaterali 
 Che dire, poi, degli effetti collaterali (ma non meno pesanti) 
                  di unoccupazione militare, che sarebbe vista dalle popolazioni 
                  dellintera area come una riedizione del protettorato britannico 
                  (durato in pratica sino a metà degli anni Cinquanta del 
                  secolo scorso), il cui ricordo è ancora dolorosamente 
                  vivissimo? Probabilmente un effetto domino ci sarebbe, ma non nel senso 
                  auspicato da Bush. È assai probabile, infatti, che unoccupazione 
                  militare in unarea nevralgica per la molteplicità 
                  degli interessi che vi gravitano, ricompatterebbe il fronte 
                  islamico meno propenso ai compromessi politici e più 
                  prossimo allintransigenza religiosa, con una conseguente 
                  ricomparsa della guerriglia nelle zone occupate (molto attiva 
                  nel periodo del protettorato britannico) e dellintensificarsi 
                  degli atti di terrorismo in tutti i paesi dellOccidente. 
                  Senza considerare che si interromperebbe bruscamente quel faticoso 
                  processo di modernizzazione intrapreso da paesi quali lArabia 
                  Saudita e lEgitto, che sarebbero fatalmente risucchiati 
                  dallonda antioccidentale ed esposti ai revanscismi di 
                  minoranze fanatiche, come accade oggi nella sfortunata Algeria.
 Queste le prevedibili conseguenze di una guerra condotta sul 
                  territorio iracheno per quel che riguarda la regione direttamente 
                  interessata.
  Divide et impera 
 Per il resto, a mio giudizio, lamministrazione Bush continua 
                  a ritenere valido il vecchio criterio del divide et impera 
                  e non la preoccupano più di tanto (o li sottovaluta) 
                  gli esiti devastanti che la guerra avrebbe per lintero 
                  mondo occidentale. Probabilmente mette nel conto che, se la 
                  guerra non riuscisse ad ottenere lavallo dellONU, 
                  (ma, per altri versi, anche se lottenesse), lONU 
                  stessa, la NATO e il processo di unificazione europeo, così 
                  faticosamente avviato, salterebbero e lo sbocco verso un mondo 
                  egemonizzato dalla potenza americana sarebbe più agevole. 
                  Non riusciamo, infatti, a trovare alcunaltra giustificazione 
                  alle continue violazioni del sistema giuridico internazionale. 
                  Larrogarsi il diritto di stabilire quali siano gli stati 
                  amici da proteggere e quali gli stati nemici da abbattere; il 
                  decidere unilateralmente quale assetto politico debba avere 
                  unarea del pianeta (il sistema democratico a stelle e 
                  strisce imposto a suon di missili intelligenti e persino di 
                  bombe atomiche tattiche); il rifiuto di contribuire alla creazione 
                  di un nuovo e più efficiente tribunale internazionale 
                  per dirimere le vertenze tra gli stati; il concetto stesso di 
                  guerra preventiva, ripetutamente affermato per combattere il 
                  Male, dovunque si manifesti: sono segni evidenti di un disegno 
                  egemonico che mira a destabilizzare il sistema di regole condivise 
                  che, bene o male, ha sin qui retto il contesto politico internazionale. 
                  Insomma, se la strategia dellAmerica di Bush è 
                  questa, e risultasse vincente, ci ritroveremmo presto a vivere 
                  in un mondo senza altre regole che non siano quelle dettate 
                  dalla potenza egemone.
 Si può assistere senza reagire ad un mutamento così 
                  radicale della logica di convivenza tra gli uomini?
 Io credo che, a prescindere dai pur rilevanti interessi di bottega, 
                  che certamente esistono, le opposizioni o, almeno, le esitazioni 
                  che si manifestano, specialmente in Europa, nei riguardi della 
                  politica americana abbiano questa origine e vadano ben oltre 
                  la questione medio orientale.
 In questottica, valutare in funzione di unegemonia 
                  in Europa il ricostituito solidarismo franco-tedesco è 
                  esercizio di miopia politica: lEuropa come entità 
                  coesa e sufficientemente autonoma è ancora solo un auspicio 
                  e niente di più. Non cè quindi nulla da 
                  egemonizzare, soprattutto se si considera che della nuova Europa 
                  sono incerti persino i confini (non si sa ancora chi entrerà 
                  e chi rimarrà fuori), e che, a guardarla con le prospettive 
                  di breve termine, è ben lontana dal poter assemblare 
                  una forza economico-militare che le consenta di competere con 
                  eventuali blocchi contrapposti.
 La sopravvivenza di organismi quali lONU e la NATO, magari 
                  riformati, sono quindi essenziali per evitare che il Vecchio 
                  Continente venga investito dal ciclone nord americano.
 Il dilemma si porrà presto in termini ultimativi. Se 
                  americani ed inglesi porranno alla valutazione delle Nazioni 
                  Unite una seconda risoluzione che, di fatto, darebbe inizio 
                  al conflitto contro lIraq, la Francia, con la Russia e 
                  la Cina dovranno decidere se esercitare il diritto di veto, 
                  dissolvendo lONU, oppure astenersi e lasciare che accada 
                  lineluttabile. Nelluno e nellaltro caso lAmerica 
                  avrebbe poco di che rallegrarsi. Farebbe certamente la guerra 
                  che così tenacemente persegue, ma gli esiti, in termini 
                  economici e diplomatici, sarebbero anche per lei disastrosi.
 Se è vero che, come abbiamo già detto, un impero 
                  è impero solo se tutte le cose da lui provengano e tutte 
                  a lui risalgano, con un mondo depresso e disarticolato, di risalite 
                  ce ne sarebbero davvero poche.
  Antonio Cardella
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