|    Canzoncina damore senza pretese
 per Bulat Okudhava
  
 «Ahi guerra che hai fatto vigliacca!»
 
 A quella mummia mostruosa di Leonid Breznev si 
                  attribuisce la seguente frase «Laria di Mosca sarà 
                  più respirabile quando Okudhava e Vissotskji non la respireranno 
                  più». Questi due nomi  tutto sommato  in occidente ben 
                  poco noti, contro cui si ergeva la censura sovietica, a chi 
                  mai saranno appartenuti?
 A pericolosi deviazionisti? A sionisti borghesi? A rinnegati 
                  Titoisti? A torbidi borghesi decadenti? A spioni Trosko-Bucharinisti?...No 
                  signori! Nulla di così innocuo!... Faceva bene il Politburo 
                  a infierire e a mettere in guardia i sani virgulti della gioventù 
                  socialista... perché i due appartenevano alla categoria 
                  di persone più pericolosa per qualsiasi tirannia: Bulat 
                  Okudhava e Vladimir Vissotskji erano due poeti.
 Peggio! Due grandi poeti, popolarissimi e armati di chitarra. 
                  Incoercibili alle ragioni dello stato, perfettamente allineati 
                  a quelle dellarte.
 Del secondo ci occuperemo più avanti.
 Bulat Sandovic Okudhava (1924-1996), poeta dei mezzi toni, dellironia, 
                  della dolcezza, della comprensione, ha alle spalle la tragedia 
                  della rivoluzione e della guerra! Suo padre, attivista importante 
                  del Pcus, rivoluzionario della prima ora, cadrà vittima 
                  di una delle tante purghe: fucilato negli anni 30 («Ahi 
                  guerra che hai fatto vigliacca!»). Sua madre, militante 
                  anchessa, appena più fortunata, berrà lacqua 
                  congelata del Gulag per 19 anni («Ahi guerra che hai fatto 
                  vigliacca!»). Altri nove fra i suoi parenti furono fucilati, 
                  e poi, tutti, riconosciuti innocenti. Bulat, appena diciassettenne, 
                  allevato nel culto staliniano della personalità, correrà 
                  ad arruolarsi volontario per difendere il suolo patrio dalla 
                  minaccia nazista, e sarà immediatamente e più 
                  volte ferito. «Ahi guerra che hai fatto vigliacca!».
 Come una caduta sulla via di Damasco, la ferita apre a Bulat 
                  gli occhi, degli occhi molto particolari... caustici e irridenti 
                  col potere, con lingordigia, con la superbia... dolci, 
                  comprensivi e sensibilissimi con unumanità fraterna 
                  e sofferente. Innanzi tutto proprio lesperienza terribile 
                  della guerra detterà alcuni dei più bei versi 
                  mai cantati al nostro, che continuerà a inseguire questo 
                  tema per tutta la vita: «Canzone degli scarponi militari», 
                  «Lenka Korolev», «Il soldatino di carta», 
                  «Il giovane ussaro»...e tanti, tanti altri canti, 
                  compongono uno stupendo poema, non ideologicamente antimilitarista...nella 
                  poesia di Okudhava non vi è mai alcun teorema da dimostrare, 
                  così che il sacro orrore della guerra gli nasce dalla 
                  profonda antiumanità di questultima. Lesperienza 
                  personale detta a Bulat immagini tanto semplici quanto strazianti: 
                  «non credere alla guerra ragazzo|la guerra è stretta 
                  come le scarpe». Potrebbero sembrare parole troppo familiari, 
                  poco adeguate allimmensità della tragedia? Forse 
                  non avete mai portato un paio di scarpe troppo strette.
 Lironia: Okudhava la maneggia come nessun altro, e la 
                  sua ironia è solo sua, giacché spinge sempre a 
                  una profonda pietas, che, anziché far ridere, 
                  diventa due volte più commovente. Non è il cinico 
                  sarcasmo del blasé che da una cima di disprezzo 
                  sogguarda il mondo, è una forma damore, piuttosto, 
                  dun uomo tanto sensibile da confessarsi solo in questa 
                  maniera.
 A confermarsi in questa lettura basta ascoltare le melodie. 
                  Il poeta confessa durante un concerto: «Quandho 
                  iniziato conoscevo tre accordi di chitarra, ma ora, dopo trentacinque 
                  anni di lavoro son migliorato...ne conosco cinque!». Può 
                  anche darsi, la questione è unaltra, la pasta delle 
                  sue melodie è la voce pura del miele! Sono melodie meravigliose, 
                  placide e indimenticabili, iniziano in calma, come un discreto 
                  tappeto su cui la scarna voce dellautore srotola i suoi 
                  versi, poi si agganciano allanima dellascoltatore, 
                  e gli strappano lacrime dalle oasi più profonde dellinconscio... 
                  Il talento del melodista è una strana bestia, può 
                  essere conferito a un musicista preparato e colto come Léo 
                  Ferré, Gershwin, ma anche a un orecchiante sbilenco; 
                  attiene probabilmente più alluniverso emotivo che 
                  a quello culturale, e che sia elaborata su un piano armonico 
                  complesso e inafferrabile (alla maniera dei grandi compositori 
                  di canzoni Brasiliani ad esempio) o che si appoggi su un banale 
                  do/sol7 ripetuto alla nausea, la melodia, quandè 
                  bella, emerge come un regalo della natura, come un sospiro di 
                  brezza nellafa estiva; questo era il talento di melodista 
                  dellincolto Okudhava, tuttaltro paio di maniche 
                  lapparente semplicità delle sue liriche... lì 
                  vi è sì, come dicevamo, il tormento delluomo 
                  che conosce per nome le separazioni («qualcuno conosce 
                  a memoria il nome delle specie dei pesci, io delle separazioni» 
                  diceva Nazim Hikmet), ma tale tormento è stratificato 
                  da una fittissima presenza di riferimenti letterari. La totale 
                  consapevolezza dellOkudhava letterato, che non può 
                  sfuggire allo slavofilo, giunge al lettore persino in traduzione, 
                  ed è il risultato di una cultura assimilata nei pori 
                  della pelle, non certo fuga ma altra realtà, verità, 
                  spesso profondissima, da cui attingere motivi di unintima 
                  resistenza. La capacità di rendere trasparente tale stratificazione, 
                  di modo che la cultura in questo poeta è come quelle 
                  20 o 30 passate di vernice neutra che Amedeo Modigliani era 
                  uso dare sui suoi ritratti, rendendoli al contempo lucidissimi 
                  eppur imprecisi, è una delle più alte caratteristiche 
                  di questopera, densa ma chiarissima. Quanta povertà 
                  cè invece in certi contemporanei poeti laureati 
                  che coprono dietro loscurità di un ermetismo indigesto 
                  una deprimente vuotezza di sentimenti!
 Quando le opere di Okudhava si cominciarono a diffondere in 
                  Russia, nellaria si respirava la corrente fresca del disgelo, 
                  era il 56 e il mondo sperava in quella primavera annunciata 
                  dal XX congresso; lì Bulat ha loccasione di poter 
                  pubblicare il primo smilzo librettino di liriche. Intanto queste 
                  liriche lui le ha già adattate al canto, e già 
                  le esegue per un ristretto cerchio di amici... i primi magnetofoni... 
                  le duplicazioni clandestine... la sete di libera comunicazione, 
                  permettono a queste canzoni di raggiungere la più sperduta 
                  periferia dellimmensa nazione sovietica, è il primo 
                  passo di una notorietà senza diritti dautore, ma 
                  perciò tanto più eroica e indispensabile. È 
                  lepoca gloriosa del Samizdat. A Okudhava comincia a capitare 
                  di esibirsi in pubblico, limitatamente al proprio carattere 
                  molto schivo e agli impegni di scrittore tout-court: egli, oltre 
                  alle pubblicazioni poetiche, pubblica diverse opere narrative, 
                  novelle e romanzi, di cui alcuni esistenti persino in traduzione 
                  Italiana: «Il povero Avrosimov», «In prima 
                  linea», «Appuntamento con Bonaparte».
 Le esibizioni pubbliche del Bulat cantautore sono però 
                  spesso limitate oltre che dalle scelte personali dai mancati 
                  permessi, dallostilità aperta, dalla censura sempre 
                  allerta. Sempre imbecille e inutile.
 A Bulat capita persino di poter incidere un disco, uno vero, 
                  ma a Parigi, e ovviamente per la sinistrosissima etichetta «Chant 
                  du Mond», ben lieta di annoverarlo nel suo pregevole parco 
                  di artisti (Athaualpa Yupanqui, Lluis Llach,...); evidentemente 
                  per i comunisti francesi vale la regola biblica del «non 
                  sappia la destra quello che fa la sinistra» e così 
                  ciò che è apertamente osteggiato in patria diventa 
                  motivo di sovietico orgoglio allestero... beninteso, purché 
                  non si tenti di importare quei pericolosi dischi in Russia!
 Ma non voglio neanche io compiere lerrore, troppo spesso 
                  rimarcato, di interpretare la sublime arte di Bulat allunica 
                  luce della infame ostilità in cui si dovette esprimere, 
                  ben più grande, generosa e magnifica resta la sua opera.
 «La preghiera di François Villon», «La 
                  canzone dellArbat», «Canzone Georgiana», 
                  per non fare che pochi titoli, sono diamanti inestimabili, in 
                  cui la nostalgia e un dolore diffuso, un senso di perdita senza 
                  remissione si sposa a una fraterna appartenenza alla dolorosa 
                  umanità dei protagonisti di questo canzoniere.
 Una delle ultime incisioni che hanno circolato (beh, insomma, 
                  diciamo che io me la son disseppellita in un magazzino francese) 
                  di Bulat è la postuma pubblicazione dei nastri del suo 
                  ultimo concerto dato nel 95 a Parigi... cosa si può 
                  dire se non che ogni minuto di quei circa 100 è unemozione 
                  indescrivibile; lanziano bardo vieta di spegnere le luci 
                  in sala perché vuole dialogare col pubblico fra una canzone 
                  e laltra, si fa portare sul palco dei foglietti con le 
                  domande dei presenti, si serve di un traduttore simultaneo (assolutamente 
                  incapace), leggiucchia stentatamente alcune liriche senza nessuna 
                  prosopopea, come rivolto a se stesso... ma nonostante tutta 
                  questinformalità, quando sul tappeto dei suoi cinque 
                  accordi, fa il suo augurio agli amici o parla del soldato ussaro, 
                  che nel turbine di polvere che il tempo ha deposto su ogni eroismo, 
                  su ogni vanteria, su ogni medaglia, è ancora inginocchiato 
                  a brillare damore per la sua Marina... allora la voce, 
                  il respiro e il fiato portano a bruciare le lacrime in ogni 
                  petto umano che abbia o non abbia mai conosciuto quella Mosca 
                  straziante e commossa, la cui aria, come diceva Breznev, sarebbe 
                  stata più respirabile dopo la morte dei suoi massimi 
                  cantori. Bulat lì respira e aggancia a ogni respiro chi 
                  lo ascolta.
 Chi è morto due volte è solo Breznev. E ben gli 
                  sta.
  Alessio Lega amoreanarchia@tiscalinet.it
 
                     
                      | Canzoni 
                          della fanteria
 Perdonate 
                          la fanteria, spesso è così stupida: partiamo sempre quando sulla terra esplode la primavera.
 E con passo incerto, sulla scala che vacilla non cè 
                          salvezza.
 Ci sono solo salici bianchi, come bianche sorelle che 
                          ti guardano andare.
 Non 
                          credete al tempo quando riversa a lungo la pioggia. 
                          Non credete alla fanteria quando canta canzoni gagliarde.
 Non credete, non credete, quando nei giardini cantano 
                          gli usignoli.
 La vita e la morte non hanno ancora chiuso i loro conti.
 A 
                          noi il tempo ci ha insegnato a vivere alladdiaccio, 
                          con la porta aperta. Compagno uomo, la tua sorte è ingannevole: sei 
                          sempre in marcia,
 però cè una domanda che ti fa perdere 
                          il sonno.
 Perché partiamo quando sulla terra esplode la 
                          primavera?
 |  
 
                     
                      | Canzone 
                          dei ragazzi dellArbat
 (lArbat, 
                          una delle vie centrali della vecchia Mosca, è 
                          per Okudhava la patria mitica, linfanzia 
                          e il luogo di ogni separazione e ritorno, moltissime 
                          canzoni le sono state dedicate dal grande poeta)  Che 
                          hai fatto in tempo a pensare, padre mio fucilato, quando io son partito con la chitarra, sconcertato ma 
                          vivo?
 Come se dalla scena fossi sceso nellintima mezzanotte 
                          di Mosca,
 dove ai vecchi ragazzi dellArbat si dona gratis 
                          il destino?
 Secondo 
                          me tutto è stupendo e non cè motivo 
                          per tristezze e quei tristi commissari camminano per Mosca come un 
                          sol uomo;
 e non ci sono, non ci sono caduti fra i vecchi ragazzi 
                          dellArbat.
 Solo: chi doveva sè addormentato, ma chi 
                          non doveva, non dorme.
 Sì, 
                          la memoria è una mesta sorte, ma Mosca ha visto 
                          di tutto e i vecchi ragazzi dellArbat ridono delle parole 
                          di consolazione.
 |  
 
                     
                      | Lenka 
                          Korolev
 (in 
                          russo il cognome Korolev, peraltro diffusissimo, richiama 
                          la parola re, di qui il gioco di parole 
                          su cui nasce la canzone)  Nel 
                          cortile in cui ogni sera il giradischi suonava, dove le coppie ballando alzavano la polvere,
 i ragazzi erano devoti a Lenka Korolev
 e gli avevano conferito il titolo di RE.
 Era 
                          un re come tutti i re, e dunque onnipotente e se un amico era nei guai o in qualche brutta storia
 Lenka Korolev gli porgeva la sua mano regale
 e con la mano fedele, lo salvava.
 Ma 
                          quando i Messerschmitt come corvi lacerarono il silenzio dellalba
 il nostro re, come tutti i re, mise lelmetto sulle 
                          ventitré,
 come una corona, e partì in guerra.
 Ora 
                          suonano di nuovo i dischi, il sole è alto, ma nessuno piange sulla sua vita...
 il nostro re era solo, scusatemi,
 non aveva fatto in tempo a procurarsi una regina.
 Però 
                          io dovunque vada e qualsiasi cosa pensi, se lavoro o anche se passeggio,
 ho sempre limpressione che al primo angolo
 incontrerò Korolev il re.
 Perché 
                          se pure è vero che in guerra si muore, la terra umida non può fare per Lenka,
 e poi, scusatemi, ma Mosca non può esistere
 senza un re come lui.
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