|    Lurlo e il furore di Jacques Brel
 
 (questarticolo mi piace dedicarlo alla memoria di Herbert 
                  Pagani e Duilio Del Prete, i primi che si diedero da fare per 
                  esportare in italiano larte del Grand Jacques)
 
 Lora dello spettacolo si avvicina e monta 
                  rapidamente quel vortice di panico e mal di stomaco che accompagnò 
                  tutta la carriera di cantante di Jacques Brel. Dai primi e frustranti tentativi di fronte allindisciplinato 
                  e irrispettoso pubblico dei cabaret, fino alla folla adorante 
                  dellOlympia, che ancora lo acclamava per ore dopo luscita 
                  di scena, Brel affrontò ogni esibizione come un toro 
                  affronta la corrida: una febbre... una tensione oscura che lo 
                  faceva vomitare ogni volta che doveva apparire in pubblico, 
                  e se in un giorno aveva tre concerti quel giorno vomitava tre 
                  volte.
 Vedere ancor oggi, in una qualche ripresa televisiva, Brel esplodere 
                  nello spasmo di ogni canzone, vivere, quindici volte in una 
                  sera, quindici vite diverse, morire quindici diverse morti, 
                  bruciare di quindici diversi amori, urlare di quindicimila rivolte... 
                  ancor oggi è unesperienza incredibile... difficile 
                  immaginare cosa dovesse essere per il pubblico messo di fronte 
                  a questa sublime voce, calda e tesa, venata di asprezza, ma 
                  perfetta al di sopra del canto, dellintonazione... perfino 
                  al di sopra dellinterpretazione, della dizione (comunque 
                  perfetta)... al di sopra perfino della stessa vita: un concentrato, 
                  piuttosto, della vita, in tre minuti, verrebbe da dire.
 Non poteva durare, e, in effetti, non durò a lungo.
 
  La febbricitante vita di un genio
 «... Cest, peut etre, Grand Jacques»
 Jacques Brel nacque nel 1929 in una famiglia dellalta 
                  borghesia fiamminga inurbatasi a Bruxelles e santamente 
                  devota alla causa dellarricchimento, della promozione 
                  sociale, del culto dellipocrisia e della forma, tanto 
                  da dimenticare la lingua materna e da non parlare in casa che 
                  il francese, la lingua della nobiltà belga. Jacques, morbosamente attaccato alla madre, figura malaticcia, 
                  venuta a mancare anzitempo e succube del marito, un padre-padrone 
                  insensibile ad altre ambizioni che non riguardassero potere 
                  e denaro, fu subito e per sempre un ribelle, un inquieto.
 Abbandonò presto gli studi, simpegnò in 
                  associazioni di ispirazione cristiana, nel cui pauperismo gli 
                  parve di intravedere la stessa sua esigenza di radicale rivolta 
                  contro la società del tronfio e volgare benessere da 
                  cui proveniva, ovviamente si sarebbe ricreduto diventando anzi 
                  un fustigatore delluntuosità cattolica della sua 
                  gente («nazisti durante le guerre/e cattolici in mezzo/non 
                  fate che correre/dal fucile al messale»); prestissimo 
                  conobbe la passione amorosa e si sposò mettendo al mondo 
                  nel giro di qualche anno tre figlie; giocoforza arrivò 
                  limpiego nellofficina paterna, sopportato lo spazio 
                  di pochi mesi e terminato nello scandalo familiare di quando 
                  il figlio del padrone venne scoperto dai suoi operai 
                  cantare in sordide taverne «i sentieri che portano allofficina/li 
                  vorrei bruciare».
 E allora via... per la sua prima grande fuga: a Parigi da solo 
                  a cercare fortuna, saltando i pasti, elemosinando serate, raccogliendo 
                  a volte lironia di colleghi, quali Georges Brassens (che 
                  in seguito sarebbe diventato suo grande amico e ammiratore) 
                  che, a cagione delle sue prime liriche intrise di fervore ottimistico, 
                  lo chiamava «frate Brel»...
 E poi pian piano il successo, via via sempre più enorme, 
                  mondiale, una delle star più acclamate del suo tempo... 
                  e lui in fuga da un teatro allaltro, urlando sempre più 
                  forte contro ogni conformismo, contro ogni morte: uneterna 
                  lotta fra ladolescente che difende coi denti il proprio 
                  diritto al sogno e ladulto che mira al genocidio della 
                  speranza, per mettersi ai piedi le pantofole dacciaio, 
                  e farsi trovare morto già un bel pezzo prima che la morte 
                  bussi alla sua porta, poiché questa è la cura 
                  che assumiamo contro la paura della fine: evitare di vivere.
 Più i borghesi affollavano i teatri in cui Jacques cantava, 
                  più violenta diventava la sua rivolta contro i militari 
                  (la colombe, au suivant, les singes), i 
                  conformisti (ces gens la, les buorgeois, lage 
                  idiot), i preti e dio stesso (le dernier repas, les 
                  dames patronesses, les Bigottes)... alla fine contro 
                  il suo stesso ruolo di cantante (la, la, la..., le cheval)... 
                  Costretto con le spalle al muro in un personaggio invece che 
                  in una persona, Brel, allapice della carriera, nel fulgore 
                  dei suoi trentasei anni, al vertice di una maturità artistica 
                  e interpretativa mai eguagliata, mollò tutto, ancora 
                  una volta in fuga verso territori mai percorsi.
 Aveva però in quegli anni tracciato il percorso di una 
                  cinquantina di canzoni di una bellezza musicale e lirica stupenda, 
                  canzoni damore devastanti (Ne me quitte pas, Mathilde, 
                  La chanson des vieux amants), epiche battaglie fra la 
                  vita e la morte, linnocenza e la grettezza, lidealismo 
                  e lipocrisia (Jarrive, Mon enfance, 
                  Regarde bien petit), aveva meravigliosamente celebrato 
                  il suo paese, fustigandone al contempo gli abitanti (Le plat 
                  pays, Marieke, Les flamandes).
 Al culmine, forse, di tutta la sua produzione troviamo una canzone 
                  insieme eroica e lirica, una celebrazione dellesistenza 
                  tragica e titanica dei marinai del porto di «Amsterdam», 
                  un inno straziante e incontenibile.
 Jacques Brel girò in seguito qualche film, buono o meno 
                  buono, mise in piedi una commedia musicale su Don Chisciotte, 
                  di cui ci resta un bellissimo disco di canzoni di scena... poi 
                  un cancro devastante lo braccò per i cinque anni in cui 
                  si dedicò alle sue passioni: il volo e la vela. Attraversò 
                  il mondo intero e alla fine fece tappa alle isole Marchesi, 
                  dove viveva trasportando medicine a beneficio di quegli indigeni 
                  che lo rassicuravano «parlando della morte/come si parla 
                  dun frutto»...
 Rientrando di tanto in tanto a Parigi per le cure, tornò 
                  con noncuranza in studio di registrazione e licenziò, 
                  poche settimane prima di morire nel 1978 (e non ci si crede 
                  a come canta questo quarantottenne con un solo polmone!), un 
                  disco sublime, che di sole prenotazioni vendette, a scatola 
                  chiusa, due milioni di copie: è difficile scordare la 
                  memoria del fuoco.
 Oggi Jacques Brel è seppellito a Thaiti, a tre passi 
                  dalla tomba di Gaugin, e noi siamo qui...
 
  Larte 
                  di Brel ovvero la feroce unità
 Contrariamente ai suoi giganteschi colleghi, Georges Brassens 
                  e Léo Ferré, che seppero trasportare la canzone 
                  oltre le colonne dErcole dogni tradizione per dargli 
                  valore letterario e musicale altissimo e inedito, Jacques Brel 
                  sta nella forma «canzone» come un topo nel formaggio, 
                  senza nemmeno sognarsi di spingere le sue ambizioni al di fuori 
                  della struttura; la sua arte ineguagliabile risiede piuttosto 
                  in una feroce unità. Jacques Brel sembra comporre la canzone nel momento stesso in 
                  cui la canta: luso delle forme quali il crescendo costante, 
                  linestricabile coesione fra forma e contenuto, di modo 
                  che (come notava mirabilmente Guido Armellini), quando parla 
                  dei vecchi assume un metro lento e monocorde, quando canta dei 
                  timidi il verso si fa nevrotico e singhiozzante, riesce a dribblare 
                  ogni rischio di didascalismo, proprio per lineffabile 
                  interpretazione, talmente calata nel momento, da non potersi 
                  più distinguere dalla scrittura stessa.
 Veramente in Brel non è distanziabile in nessuna maniera 
                  il verso, la nota, la voce, il canto e il gesto... tutto perfettamente 
                  a tempo, anzi il tempo stesso sarresta con un inchino 
                  davanti a una simile eruzione di vitalità.
 Georges Brassens guarda al microscopio la lingua, con tutta 
                  la sua musicalità, e swinga la filastrocca impagabile 
                  della sua poesia distanziata e ironica, linteriore essenziale 
                  rispetto dei valori umani lo rende emozionato e sensibile; Léo 
                  Ferré viene invece da una profondità ultramarina, 
                  stellare, la sua tenerezza è violenta, quasi insopportabile, 
                  la sua rabbia è divina, si misura coi grandi: inveisce 
                  come Beethoven, come Rimbaud, affianco a Baudelaire e la sua 
                  voce è la voce dellaltrove.
 Brel è ora e subito, mangia e vomita i sentimenti, è 
                  un nodo febbrile che non può esser rimandato, la forma 
                  chiusa gli è congeniale perché non può 
                  perdere tempo ad attardarsi nella riflessione sugli utensili, 
                  ha altre priorità: deve respirare e urlare, bruciare 
                  e fuggire, e se è costretto, per unora scarsa, 
                  sotto i riflettori eccolo esplodere incontenibile fra musica 
                  e parole. È linestricabile presenza della vita, 
                  la permanenza del fiume.
 La cascata è oggi perduta, ma resta il suo tuono, la 
                  sua forza, la sua freschezza, il suono: ascoltatelo, può 
                  cambiarvi la vita!
  Alessio Lega amoreanarchia@tiscalinet.it
  
                  
 
                     
                      | I 
                          borghesi 
 Col 
                          cuore al calduccio e gli occhi nella birra allosteria «Adriana» di Montalant
 con lamico Giò-Giò e lamico 
                          Piero
 ci bevevamo i nostri ventanni.
 Giò-Giò 
                          si credeva Voltaire e Piero Casanova e io... io che ero il più fiero... io... mi credevo 
                          me!
 E quando a mezzanotte passavano i notai
 che uscivano dallHotel dei tre Fagiani
 gli 
                          mostravamo il culo, educatamente e cantavamo:
 I 
                          borghesi sono come i porci più invecchiano più rimbecilliscono
 I borghesi sono come i porci
 più invecchiano più sono (coglioni)...
 Col 
                          cuore al calduccio e gli occhi nella birra allosteria «Adriana» di Montalant
 con lamico Giò-Giò e lamico 
                          Piero
 bruciavamo i nostri ventanni.
 Voltaire 
                          ballava come un vicario, Casanova non osava... e io... io che ero il più fiero... io...
 ero sbronzo quasi come me stesso!
 E quando a mezzanotte passavano i notai
 che uscivano dallHotel dei tre Fagiani
 gli 
                          mostravamo il culo, educatamente e cantavamo:
 I 
                          borghesi sono come i porci più invecchiano più rimbecilliscono
 I borghesi sono come i porci
 più invecchiano più sono (coglioni)...
 Col 
                          cuore a riposo, gli occhi piantati a terra al bar dellHotel dei tre Fagiani
 col signor Giò-Giò e col signor Piero
 fra notai ammazziamo il tempo.
 Giò-Giò 
                          parla di Voltaire e Piero di Casanova e io... io che sono restato il più fiero... io... 
                          parlo di me!
 E quando a mezzanotte usciamo, signor commissario,
 dalle parti dellosteria «Adriana» 
                          di Montalant
 tutte 
                          le sere dei mocciosi ci mostrano il culo cantando:
 «I borghesi sono come i porci»
 (dicono, signor commissario)
 «più invecchiano più rimbecilliscono
 I borghesi sono come i porci
 più invecchiano e più...»
 Lultima 
                          cena 
 Alla 
                          mia ultima cena voglio rivedere i miei gatti
 i miei cani e la riva de mare.
 Alla mia ultima cena
 voglio vedere i vicini
 e qualche sconosciuto faccia le veci dei cugini.
 E voglio che si beva un vino da messa
 un vino stupendo, che si beva in Arbois
 E voglio che si divori, dopo qualche sottana
 la fagiana venuta dal Perigord.
 Poi mi si porti sulla collina
 a guardare gli alberi addormentati a braccia conserte.
 E allora lancerò pietre contro il cielo
 gridando «Dio è morto» per lultima 
                          volta.
 Alla 
                          mia ultima cena voglio rivedere il mio asino, i miei polli,
 le mie oche, le mie vacche, le mie donne.
 Alla mia ultima cena
 voglio vedere quelle simpaticone
 di cui fui maestro e re, che furono mie amanti.
 Quando avrò nella panza di che annegare la terra
 romperò il bicchiere per fare silenzio
 e canterò urlando alla morte che avanza
 le canzonacce sporche che inquietano le suore.
 Poi mi si porti sulla collina
 a guardare la sera che scende lenta in pianura.
 E là, ancora in piedi, insulterò i borghesi
 senza rimpianti o rimorsi, per lultima volta.
 Dopo 
                          la mia ultima cena se ne vadano tutti a finire bisboccia
 sotto un altro tetto.
 Dopo la mia ultima cena
 mettetemi seduto, solo come un re,
 che accolga le vestali.
 Nella pipa fumerò i ricordi dinfanzia
 i sogni irrealizzati, i resti di speranza.
 Non conserverò, per rivestire lanima,
 che lidea dun roseto, che il nome duna 
                          donna.
 Poi guarderò la cima della collina
 che danza, si dimena, finendo per soccombere
 e nellodore di fiori che presto si sentirà
 io so che avrò paura... unultima volta.
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