|  Cani 
                    sbandati e senza dio
 Non hanno unimmagine pubblica accettabile: facce che 
                    non vanno bene alla tv, sguardo di sfida che non si abbassa, 
                    impossibili da intrappolare in belle foto, barba non fatta, 
                    spettinati, nomi comuni poco esotici, vestiti come capita. 
                    Hanno idee precise e confuse che rotolano fuori dalla bocca 
                    impastate di polemica e rabbia e mancanza di rispetto, tradotte 
                    in suono da voci cartavetrate che si scavalcano e sgomitano 
                    e cambiano volume, inadatte alle interviste. Metto in piedi con un paio di compagni un loro concerto, si 
                    raccolgono soldi per Emergency. E loro? Loro arrivano in ritardo, 
                    e comunque mai tutti assieme perché partono dopo il 
                    lavoro, e ognuno fa un lavoro diverso e magari i turni. Riescono 
                    a sbagliare piazza in un paese lungo da qua a là che 
                    di piazze ne ha solo due, e si perdono senza che ci sia nebbia 
                    a cinquanta metri dal luogo dellappuntamento che è 
                    in piazza dietro il municipio, non serano perduti neanche 
                    i cecoslovacchi e quegli altri dallEstonia che era la 
                    prima volta che spingevano il culo fuori dalla loro isba e 
                    venivano da ste parti, e loro invece che si perdono 
                    a neanche trenta chilometri da casa. Ma chi se ne frega, ci 
                    siamo persi, e allora? Ma vaffanculo.
 Poi, finalmente, eccoli indaffarati a ridere e cazzeggiare, 
                    a masticare parolacce mentre scaricano amplificatori e tamburi, 
                    flight case ripieni di chitarre e ghironda e fisarmonica, 
                    un contrabbasso, e poi borse e altre borse piene alla rinfusa 
                    di strumentini, pifferi e cosettini che sembrano giocattoli 
                    e che magari lo sono, che servono solo per fare un beep o 
                    un ting o un bang in una canzone, o forse no, li si è 
                    portati via per niente perché non cè un 
                    arrangiamento stabile né una vera e propria scaletta. 
                    Si suona a braccio, si improvvisa, dipende dallestro, 
                    dallaria che si respira, dalla gente che viene, da come 
                    va. Chissà.
 E anche se hanno passato ore ed ore in cantina a organizzare 
                    il loro repertorio, ma sì, non importa. Magari ci sarà 
                    posto, stasera, anche per una vecchia canzone ascoltata una 
                    volta alla radio e mai provata. Magari viene qualcuno che 
                    si conosce e che sè portato dietro una chitarra, 
                    e si fa qualcosa assieme. Chissà cosa succederà 
                    stasera. Chissà.
 Guardali là, sul palco incasinato come un mercato povero, 
                    a discutere e a inciampare sui cavi dei microfoni per terra 
                    un po come serpenti di plastica nera e rame. Si sono 
                    portati da casa una bottiglia di vino che in breve sparisce 
                    e gliene serve unaltra, benzina per la mente, dai, ed 
                    il soundcheck scivola via a scatti come sabbia in un ingranaggio. 
                    Non importa, si va, si va. Ci si interrompe, si ride, un altro 
                    bicchiere. Si va. Chissà.
 Marta, mia figlia, sorride di meraviglia alla vista di tutto 
                    quel ciarpame e spalanca gli occhi in unaltalena tra 
                    me che le sto vicino e loro lì sul palco. Scioglie 
                    adesso il sorriso seguendo sottovoce la canzone che stanno 
                    provando. La conosce, le piace. La conosco e piace anche a 
                    me. Ci stringiamo le mani.
 Amo questi compagni, amo questa loro spontaneità, i 
                    loro sorrisi sinceri e lombra di sospetto e incredulità 
                    che gli abita sempre nello sguardo. Amo questa precarietà 
                    che non ha paura di affiorare, di mostrarsi. Amo lo stile 
                    musicale ladro e riciclatore che fa sembrare i loro concerti 
                    una coperta fatta di lane dai mille colori che una volta erano 
                    maglioni o calze o chissà cosa, proprio come quelle 
                    coperte che avevo in casa quandero piccolo.
 Amo i loro occhi in bilico perenne tra la commozione e lo 
                    sberleffo, amo le loro indecisioni e la loro fermezza. Amo 
                    il loro carattere duro poco incline al compromesso che mi 
                    ricorda la determinazione dei compagni di lavoro di mio padre 
                    che venivano dalla campagna, abituati a dividere le giornate 
                    tra la vigna ed i campi di grano da coltivare e il CVM da 
                    insaccare. Si va, si va. Un altro bicchiere, unaltra 
                    canzone.
 Il carattere, ecco. È stato proprio il loro brutto 
                    carattere che li ha condannati a non essere riportati nelle 
                    cartografie musicali ufficiali, e men che meno in quelle alternative: 
                    non amano gli steccati né le definizioni stilistiche, 
                    e fanno una musica che a volerla spiegare non è abbastanza 
                    folk, né abbastanza rock, insomma non abbastanza identificabile 
                    per poter essere proposta ai lettori dun giornale senza 
                    passare per un sacco di esempi chiarificatori ed espliciti 
                    perché, meno male, la loro musica assomiglia a dozzine 
                    e dozzine daltre musiche.
 Troppe, per poter dare unidea concreta: un magma ribollente 
                    di influenze, citazioni e parodie, bolle sonore che scoppiano 
                    lasciando nellaria unimpressione colorata di Goran 
                    Bregovic, la voce di uno strumento che viene da chissà 
                    dove, un odore leggero di Gang, un ricordo vagamente new wave 
                    di ventanni fa, una frase melodica che riporta alla 
                    mente la curva dolce dei capelli di Fabrizio De André, 
                    leco di qualche bestemmia in un pub o in un bar fumoso 
                    e le grida al mercato o in pescheria, un rumore sordo come 
                    di tuono lontano, come uno scoppio al petrolchimico.
 A fine concerto ti ritrovi con il fiato corto e il cuore triste 
                    perché non cè più musica intorno. 
                    E allora gli compri un cd e loro lo tirano fuori da uno scatolone 
                    che sopravvive a forza di scotch, e quando a casa te lo riascolti 
                    sei spaesato, sembra quasi che sta musica non centri 
                    niente con i ricordi che hai nella testa del concerto, senti 
                    canzoni che non ti portano a niente di nuovo e allo stesso 
                    tempo a niente di già sentito.
 Eppure ecco, improvvisamente eccole là tutte in fila, 
                    quelle belle idee, quelle belle parole. Erano rimaste impigliate 
                    nella memoria, a descrivere qualche storia, a tratteggiare 
                    qualche sogno: la storia della Virna e delloperaio che 
                    sa di tabacco e brillantina che prendono la stessa corriera 
                    per andare a lavorare, il sogno degli albanesi che sognavano 
                    unItalia con le tette fuori come su Mediaset e si ritrovano 
                    a disegnare il cielo sul fango della strada, il groppo alla 
                    gola di Hammad il clandestino che cerca di annegare la nostalgia 
                    nel vino di un bar grigio prima che a far annegare lui siano 
                    le lacrime.
 Per essere bravi sono pure bravi, nel senso che hanno notevole 
                    talento e meriterebbero attenzione: ci sono in giro per le 
                    radio e sui palchi dei centri sociali dozzine di musicisti 
                    ben peggiori. E loro per essere bravi sono bravi, per carità, 
                    ma sono destinati a sparire dalle occasioni pubbliche e ad 
                    accontentarsi del giro piccolo piccolo dei piccoli palchi 
                    e dei piccoli posti persi di provincia e di periferia (non 
                    disdegnano i teatrini parrocchiali, e questo può far 
                    riflettere). Sì, perché alle buone occasioni 
                    hanno voltato le spalle.
 Hanno suonato per il sindacato ma non hanno chiesto nulla 
                    in cambio. Hanno suonato per i pacifisti in piazza col bravo 
                    cantautore famoso, ma non ne hanno approfittato. O è 
                    stata solo sfiga: hanno partecipato alla compilation di Liberazione 
                    contro la guerra, e gli hanno tagliato in due il pezzo. Questioni 
                    di copyright, gli hanno detto.
 Lultima, poi, è finita sul giornale: invitati 
                    alla bella rassegna canora sponsorizzata dal bravo assessore 
                    padano, si sono fatti beffe dellidentità regionale 
                    obbligatoria innescando sul palco un putiferio saltellante 
                    e sguaiato, spiattellandogli in faccia Nostra patria 
                    è il mondo intero come una torta di panna delle 
                    comiche. Alla faccia sua e delle belle cravatte verdi, hanno 
                    rischiato lo sputo dei giovani di razza Piave e dei galoppini 
                    benvestiti che avevano appoggiato il culo nei posti riservati 
                    delle prime file.
 Via, pezzenti, siete il cane che morde la mano del padrone. 
                    Poveracci, marmaglia. In dialetto, anzi, che viene meglio: 
                    Marmaja. Ecco il nome giusto. Via, via, cacciati via dai posti 
                    dove si fanno cultura e musica seria, e destinati al marciapiede, 
                    ai raduni di cani sbandati e senza dio e senza rimborso spese 
                    sulla spiaggia. Soli, forse. O forse no.
 Adesso vogliono organizzarsi, chissà se riusciranno 
                    a combinare qualcosa. Hanno scoperto che cè in 
                    giro per lItalia qualche altro sbandato, una manciata 
                    di altre bande fatte da pochi Don Chisciotte pazzi, poche 
                    realtà spontanee e creative riuscite a tenersi a galla 
                    tra le onde di brutta musica copiata male da quel che susa 
                    ascoltare nelle terre doltremanica e doltreoceano 
                    e mescolata alle macerie della nostra tradizione melodica. 
                    Una brutta compagnia che è riuscita a custodire il 
                    senso della musica popolare e sociale e di lotta e di protesta 
                    come un segreto. Quella musica che suona e rimbomba nel sottofondo 
                    incasinato che cè a bordo degli autobus e nei 
                    bar delle periferie, quella che puzza come laria attorno 
                    alle fabbriche e come le cucine delle case a mezzogiorno. 
                    Quella che accompagna il nostro muoversi. Il nostro crescere, 
                    il nostro vivere.
 Allora era vero: anche se era scomparsa dai muri e dalla piazza 
                    principale, la musica libera non è mai sparita, non 
                    se nè mai andata. E sui muri e nella piazza ce 
                    la riporteremo, e forse sarà domani. Domani forse. 
                    È grazie a compagni come questi che questa musica, 
                    che viene in viaggio dal cuore passando prima per la testa 
                    e si nutre della nostra incazzatura e del nostro piangere, 
                    ha saputo rimanere estranea ai meccanismi del mercato, è 
                    riuscita a sopravvivere, ad andare avanti e a costruirsi una 
                    strada. Strada stretta fatta di sassi, spine di rovo ai fianchi 
                    e nessun riparo, spesso. Strada in salita, sempre.
 Ridete, ridete pure bastardi. Saltimbanchi di merda, avete 
                    preso il mio cuore.
   Marco Pandin 
 I 
                    Marmaja in concerto |