| Capire il dolore del bambino equivale 
                  a capire le potenzialità della sua intelligenza, intesa 
                  come capacità di giudizio, di elaborazione e assimilazione 
                  degli aspetti più significativi dellesperienza, 
                  come capacità di cambiamento, se necessario, delle proprie 
                  strutture di pensiero e quindi inevitabilmente anche come capacità 
                  di sofferenza. Si tratta di unintelligenza che presenta 
                  connotazioni ben più ampie rispetto alluso ristretto 
                  e svilente che viene fatto correntemente di questo termine, 
                  quando dagli adulti viene per lo più associato semplicemente 
                  alluso del computer, allapprendimento di una lingua 
                  straniera o alla soluzione di un problema logico-matematico. 
                  Il tema del dolore del bambino ha molti aspetti, ma due mi sembrano 
                  fondamentali: a) il ruolo delladulto nellaiutare 
                  il bambino ad affrontare lesperienza del dolore e b) i 
                  modi in cui ladulto, in genere intenzionalmente, ma talvolta 
                  anche non intenzionalmente, produce dolore nel bambino attraverso 
                  lesercizio del potere e della violenza.
 Analizzerò questi due aspetti facendo riferimento, a 
                  titolo esemplificativo, a queste specifiche tematiche: 1) il 
                  rapporto del bambino con la morte e la malattia; 2) la spinta 
                  in molti settori della popolazione nelle società industrializzate 
                  a favorire nelleducazione dei bambini, in una prospettiva 
                  di efficientismo e di competitività, prevalentemente 
                  lo sviluppo di capacità che potremmo definire tecniche; 
                  3) lapporto dellarte, in particolare della letteratura, 
                  alla comprensione del dolore del bambino; 4) la comunicazione 
                  adulto-bambino.
 In una ricerca che ho svolto alcuni anni fa sugli atteggiamenti 
                  dei bambini nei confronti della malattia e della morte e in 
                  cui ho raccolto molti dati soprattutto attraverso interviste 
                  e questionari, ho avuto la possibilità di riscontrare 
                  quanto varia, ampia e poco coerente sia la gamma di idee che 
                  gli adulti in genere hanno sul rapporto del bambino con il dolore 
                  (Pagani e Robustelli, 1986; Pagani, 1992). Nonostante si trattasse 
                  di un gruppo particolarmente selezionato di adulti, costituito 
                  prevalentemente da insegnanti e da genitori di cultura media 
                  e medio-alta, questa indagine ha messo in evidenza, tranne ovviamente 
                  alcune eccezioni, una diffusa superficialità e una diffusa 
                  contraddittorietà delle opinioni su questo tema espresse 
                  dalle persone interpellate. Dallanalisi dei dati emergeva 
                  generalmente in questi adulti una visione molto riduttiva, e 
                  di conseguenza falsa, del bambino per quanto riguarda le sue 
                  effettive capacità cognitive ed affettive. E se gli adulti 
                  hanno una visione superficiale e distorta del bambino ne deriva 
                  che il bambino si sentirà poco capito, solo, scarsamente 
                  incline alla comunicazione con gli altri, e notevole sarà 
                  quindi la sua sofferenza. A titolo esemplificativo basterà 
                  citare due opinioni espresse da alcuni degli insegnanti e dei 
                  genitori coinvolti nella ricerca. La prima è che il bambino, 
                  rispetto alladulto, ha una forza intrinseca che 
                  gli permette di dimenticare più facilmente gli eventi 
                  dolorosi e di avere quindi maggiori capacità di recupero. 
                  La seconda è che ladulto deve porsi di fronte al 
                  bambino come una fonte di speranza e di ottimismo. Deve perciò 
                  evitare di affrontare con lui temi dolorosi come quelli della 
                  morte e della malattia, per non apparire agli occhi del bambino 
                  come una persona triste o depressa.
 Queste due opinioni fanno riferimento, in modo più o 
                  meno implicito, ad un concetto di forza legato alla capacità 
                  di dimenticare o, in ogni caso, alla capacità di negare 
                  alcuni aspetti della realtà. Come ho già scritto 
                  (Pagani, 1992),
 [...] un individuo tanto più avrà raggiunto 
                  un adeguato sviluppo della personalità quanto più 
                  avrà analizzato, elaborato e assimilato gli aspetti più 
                  significativi della sua esperienza (compresi quelli dolorosi), 
                  organizzandoli in un insieme sufficientemente coerente di ricordi, 
                  di sentimenti, di idee.  La forza non consiste quindi nelloblio 
                  o nella negazione, ma nello sforzo di capire e di far capire. 
                  Sappiamo, anche perché la ricerca psicologica lha 
                  dimostrato, che il bambino, fin dai primi mesi di vita, percepisce, 
                  elabora e ricorda, attraverso modalità diverse a seconda 
                  del suo livello di sviluppo, quanto avviene intorno a lui e 
                  dentro di lui, ivi compresi gli eventi dolorosi (cfr. Anthony, 
                  1971; Pagani e Robustelli, 1986; Pagani, 1992; Raimbault, 1975; 
                  Robustelli e Pagani, 1983; Stuber e Mesrkhani, 2001). Sappiamo 
                  anche che spesso il bambino vive questo processo di elaborazione 
                  e di assimilazione delle sue esperienze, soprattutto di quelle 
                  più complesse e dense di sofferenza, da solo, perché 
                  ladulto per diversi motivi di solito lo abbandona in questo 
                  difficile compito. È possibile anche che in questa situazione 
                  di confusione, smarrimento e angoscia il bambino decida più 
                  o meno inconsapevolmente che ci sono ambiti dellesperienza 
                  umana in cui è meglio non addentrarsi troppo o perché 
                  sono troppo dolorosi perché lui li affronti da solo o 
                  perché gli adulti sembrano non ritenerli importanti oppure 
                  sembrano considerarli aspetti della vita troppo terribili, e 
                  per questo talvolta anche proibiti o vergognosi, a cui non è 
                  possibile accedere nellinfanzia. Una delle conseguenze 
                  di questo stato di cose può essere che nel bambino lesigenza 
                  soggettiva, e quindi progressivamente anche la capacità, 
                  di analizzare gli aspetti più complessi e più 
                  affettivamente coinvolgenti dellesperienza vengano in 
                  parte o del tutto atrofizzate. Unaltra conseguenza è 
                  che nel bambino diminuisca o venga meno la capacità di 
                  comunicare costruttivamente con gli altri. Approfondirò 
                  questo punto più avanti, quando parlerò più 
                  in generale della comunicazione adulto-bambino.  
  Visione meccanicistica 
 Daltronde questo processo non avviene in un vuoto culturale. 
                  In un articolo intitolato Febbre e videogame, apparso 
                  in una rivista italiana di ampia diffusione, Mensurati (1998) 
                  cita un libro di J. C. Herz, Joystick Nation (1997). 
                  Così scrive la Herz nel prologo del suo libro:  I videogiochi costituiscono una perfetta formazione alla 
                  vita nellAmerica fin de siècle, dove lesistenza 
                  quotidiana richiede labilità di saper analizzare 
                  [...] tipi diversi dinformazioni lanciateci simultaneamente 
                  addosso da telefoni, fax, televisori, cercapersone, agende elettroniche, 
                  sistemi vocali di messaggeria, la posta normale, quella elettronica 
                  in ufficio e Internet. Le notizie internazionali vengono aggiornate 
                  ogni mezzora, e il posto di lavoro ha un piede nel cyberspazio. 
                  Ed è necessario elaborare tutto questo istantaneamente. 
                  È necessario saper riconoscere i differenti modelli in 
                  questo vortice dinformazioni, e in fretta. I nati col 
                  joystick in mano sono avvantaggiati. Checché ne dicano 
                  i polemici luddisti, i ragazzini svezzati a videogiochi non 
                  sono piccoli zombi illetterati [...]. Sono semplicemente acclimatati 
                  a un mondo che assomiglia sempre più a una specie di 
                  esperienza da sala giochi.  Anche se lautrice fa un esplicito riferimento agli Stati 
                  Uniti, le sue considerazioni sono in gran parte valide anche 
                  per le altre società occidentali, dove il modello di 
                  vita americano è diventato sempre più pervasivo. 
                  Senza voler toccare, ad esempio, nemmeno marginalmente il problema 
                  delicatissimo e concretissimo del ruolo del virtuale nello sviluppo 
                  della personalità di un individuo e il tema del collegamento 
                  tra videogiochi e addestramento al combattimento nella guerra 
                  moderna e tra videogiochi e sviluppo dellaggressività, 
                  le espressioni abilità, lanciateci addosso, 
                  vortice, avvantaggiati, simultaneamente, 
                  istantaneamente, in fretta, ci rimandano a campi 
                  semantici facilmente riferibili alla competizione, allo sport 
                  agonistico, alla guerra, allo sviluppo di capacità prevalentemente 
                  tecniche. Queste capacità sono fondamentalmente legate 
                  alla prontezza di riflessi, alla rapidità dellesecuzione 
                  del compito, allefficienza della prestazione in una rincorsa 
                  conformistica al successo e alla vittoria su rivali e nemici. 
                  In questo contesto il significato del compito dal punto di vista 
                  etico, metafisico e delle sue conseguenze sul reale benessere 
                  di tutti, è considerato del tutto irrilevante. Si tratta 
                  di una visione essenzialmente meccanicistica dellesistenza, 
                  in cui le informazioni significative che arrivano al cervello 
                  sembrano ridursi per lo più a quelle che provengono appunto 
                  da telefoni, fax, televisori, cercapersone, agende elettroniche, 
                  sistemi vocali di messaggeria, la posta normale, quella elettronica 
                  in ufficio e Internet. La velocità nellinterpretazione 
                  degli stimoli e nellelaborazione delle risposte agli stimoli, 
                  il passaggio rapido da un compito a un altro, il ritmo martellante 
                  dellavvicendarsi delle nuove informazioni, sembrano scandire 
                  i tempi che fanno da sfondo alla vita. Nonostante le numerose 
                  critiche che le vengono rivolte da ambienti diversi, scientifici 
                  e non, questa visione dellesistenza si sta consolidando 
                  con sempre maggior forza nelle società occidentali. Non ci si deve stupire quindi se la depressione, la violenza 
                  e i suicidi sono così diffusi tra i bambini e gli adolescenti 
                  e se permangono livelli disastrosi di primitivismo nei rapporti 
                  affettivi degli esseri umani tra di loro, con gli altri animali 
                  e la natura in genere. Infine, nel brano citato il punto culminante 
                  è costituito dallassimilazione del mondo a una 
                  specie di esperienza da sala giochi e dalla disinvolta 
                  e acritica constatazione dellacclimatazione dei ragazzini 
                  a una tale realtà. In questa prospettiva gli aspetti 
                  alienanti di un mondo divenuto una sala giochi e di conseguenza 
                  i problemi, ad esempio, del dolore, della solitudine e dellincomunicabilità 
                  non sono nemmeno per un attimo presi in considerazione. È 
                  ovvio che questo contesto culturale non favorisce negli adulti 
                  un atteggiamento di interesse e di disponibilità nei 
                  confronti della comprensione del bambino e del suo dolore. È 
                  anche altrettanto ovvio che questo contesto culturale non favorisce 
                  nel bambino un atteggiamento di riflessione e di analisi critica 
                  per quanto riguarda le sue problematiche e quelle dellambiente 
                  in cui vive.
 Se la consapevolezza di non essere capito è unesperienza 
                  molto dolorosa per un adulto, tanto più lo è per 
                  un bambino, che ha più bisogno di appoggi, di linee guida 
                  nelle prime fasi della sua scoperta del mondo. Uno degli aspetti 
                  più negativi della nostra società è quello 
                  di non sapere guardare il bambino al di là della facciata 
                  che ci presenta e che spesso noi gli abbiamo costruito, così 
                  che succede che la gente è stupita e costernata quando 
                  un bambino o un adolescente si suicida o è ignara di 
                  quanta sofferenza si nasconde dietro la durezza e lapparente 
                  indifferenza di un baby-killer o di un baby-soldato (Pagani, 
                  2001).
 Acquistare consapevolezza del dolore del bambino equivale anche 
                  ad acquistare consapevolezza degli aspetti più dolorosi 
                  e tragici dellesistenza umana e della fondamentale inconsistenza 
                  del mito dellinfanzia come età felice, mito che 
                  gli adulti strumentalizzano per diminuire limpatto del 
                  dolore sulle loro coscienze. Quando si programma la nascita 
                  di un bambino ci si dovrebbe interrogare non solo sulle possibilità 
                  affettive, economiche, di tempo, che siamo in grado di offrirgli, 
                  ma anche sul valore e il significato che attribuiamo allesistenza 
                  umana di per sé, perché è innanzi tutto 
                  lesistenza, intesa in senso metafisico e in senso sociale 
                  (cioè in un dato mondo, in una data epoca storica) che 
                  noi diamo al bambino. Una prospettiva metafisica e sociale è 
                  quella che ci offre su questo tema uno scrittore, Russell Hoban 
                  (1975), autore tra laltro anche di libri per bambini:
 Cè chi scrive libri per bambini e chi scrive libri 
                  sui libri scritti per bambini ma non penso assolutamente che 
                  venga fatto per i bambini. Penso che tutti quelli che si preoccupano 
                  tanto dei bambini in realtà si stiano preoccupando di 
                  se stessi, di tener insieme il proprio mondo e indurre i bambini 
                  ad aiutarli in questo compito, indurre i bambini a convenire 
                  che si tratta davvero di un mondo. A ogni nuova generazione 
                  di bambini bisogna dire: Questo è un mondo, questo 
                  è quello che si fa, è così che si vive. 
                  Forse la nostra paura costante è che arrivi una generazione 
                  di bambini a dire: Questo non è un mondo, questo 
                  non è niente, e non cè nessun modo di vivere.
 Nei giorni degli attentati terroristici alle Twin Towers e al 
                  Pentagono una parte della società occidentale è 
                  sembrata rendersi tragicamente conto del problema del dolore 
                  dei bambini. Ad esempio, è apprezzabile il fatto che, 
                  due giorni dopo la strage, il 13 settembre, linviato di 
                  la Repubblica a New York abbia dedicato in un suo 
                  articolo un capoverso ai bambini:
 A soffrire di più  anche se non lo dicono  
                  sono i bambini della città. Molti non sanno che fine 
                  abbia fatto il papà pompiere, la cugina telefonista o 
                  lo zio poliziotto: aspettano e guardano la tv. Molti altri non 
                  riescono a dare una risposta a tanti perché. Perché 
                  i terroristi sono venuti proprio qui? Perché le torri 
                  che erano così solide si sono frantumate? Perché 
                  le scuole sono chiuse? (la Repubblica, 13 settembre 
                  2001)
 È apprezzabile anche che negli Stati Uniti più 
                  voci (psicologi, insegnanti, genitori) abbiano sottolineato 
                  la necessità di aiutare soprattutto i bambini ad affrontare 
                  questa drammatica esperienza (cfr. Helping Children Handle Disaster-Related 
                  Anxiety. Medscape News, September 13, 2001). È auspicabile però che la maggiore consapevolezza 
                  del dolore dei bambini manifestata appunto da una parte della 
                  società occidentale in occasione dell11 settembre 
                  includa il dolore dei bambini di ogni parte del mondo.
 
  Migliori strategie 
 La psicologia, da parte sua, dovrebbe contribuire maggiormente 
                  a porre in risalto le enormi capacità e potenzialità 
                  affettive e cognitive del bambino e quindi la sua capacità 
                  di sofferenza. E non mi riferisco soltanto ai casi più 
                  vistosi di sofferenza del bambino, ma anche alla sofferenza 
                  di tutti quei bambini che vivono quel tipo di vita che viene 
                  comunemente definito normale. La psicologia, essendo 
                  una scienza influenzata in modi più o meno sottili dallideologia 
                  dominante nelle società occidentali, non si rende sempre 
                  conto in modo adeguato di quanto un bambino normale venga 
                  traumatizzato dalle normali contraddizioni sociali del 
                  nostro tempo. Tra laltro laggettivo normale 
                  dovrebbe essere limitato al campo della statistica e bandito 
                  dal linguaggio corrente, in nome della unicità e della 
                  complessità di ogni singolo individuo e di ogni singola 
                  situazione e perché è un aggettivo fondamentalmente 
                  superficiale, fuorviante e denso di connotazioni che incoraggiano 
                  la passività e laccettazione dello status quo, 
                  percepito come fondamentalmente positivo. Larte invece, e in particolare la letteratura e il cinema, 
                  ha spesso analizzato con profonda penetrazione il mondo interiore 
                  del bambino e il dolore del bambino in particolare. Mi viene 
                  in mente a questo proposito, per citare solo un esempio tratto 
                  dalla letteratura, un breve romanzo di Henry James, Ciò 
                  che sapeva Maisie (1897). I problemi a cui accennavo prima, 
                  della scarsa o nulla attenzione degli adulti alle domande più 
                  delicate e profonde del bambino, della sua solitudine, della 
                  vastità e complessità delle sue capacità 
                  e potenzialità affettive e cognitive, della sua sofferenza 
                  e del rischio che questo scrigno di ricchezza interiore venga 
                  irrimediabilmente perduto o venga deturpato da un ambiente esterno 
                  corrotto e perverso, sono tutti concentrati con una essenziale 
                  chiarezza nella figura della protagonista, una bambina, Maisie 
                  appunto.
 In questa storia, diversamente da quanto ci si potrebbe ragionevolmente 
                  aspettare, dalle burrasche e dagli scossoni che accompagnano 
                  i primi anni di vita della bambina, soprattutto a causa delle 
                  liti furibonde dei suoi genitori, che vivono separati, del loro 
                  atteggiamento irresponsabile e patologicamente traumatizzante 
                  nei suoi confronti e dei comportamenti falsi, volgari e superficiali 
                  di molti adulti che ruotano intorno a lei, Maisie uscirà 
                  illesa, anzi con una capacità di percezione, di analisi 
                  e di elaborazione della realtà estremamente acuita. Perché 
                  se è vero che lo sviluppo di un bambino che cresce in 
                  una famiglia caratterizzata da mancanza di affetto, da aggressività 
                  nei rapporti interpersonali, dallassenza di un supporto 
                  adeguato che gli venga fornito nellelaborare i dati dellesperienza, 
                  in generale subirà rallentamenti o distorsioni più 
                  o meno gravi, è anche vero che esistono dei bambini i 
                  quali, nonostante queste premesse negative, sono in grado di 
                  manifestare atteggiamenti e comportamenti di profonda empatia 
                  e notevoli capacità cognitive. Probabilmente, proprio 
                  perché conoscono gli effetti devastanti dellaggressività 
                  e della solitudine affettiva, questi bambini sviluppano una 
                  reazione di rifiuto nei confronti di scelte distruttive e manifestano 
                  una profonda maturità nei loro pensieri, nei loro giudizi 
                  e nei loro affetti. La ricerca psicologica dovrebbe analizzare 
                  con maggiore attenzione lo sviluppo della personalità 
                  di questi bambini e il ruolo eventualmente svolto da figure-chiave 
                  al di fuori della famiglia (un amico, il genitore di un altro 
                  bambino, un insegnante). Forse in questo modo potremmo individuare 
                  con più chiarezza i fattori che promuovono lo sviluppo 
                  dellempatia e quindi elaborare migliori strategie per 
                  favorire questo sviluppo.
 Per ritornare alla letteratura, vorrei citare alcuni frammenti 
                  tratti appunto da Ciò che sapeva Maisie. James 
                  tra laltro penetra nel mondo interiore di questa straordinaria 
                  bambina con grande delicatezza e profondo rispetto:
 [...] era cresciuta in mezzo a delle cose riguardo alle 
                  quali ciò che aveva soprattutto imparato era che non 
                  doveva mai fare domande.  [...] la vita era un corridoio lungo lungo con tante porte 
                  chiuse. Aveva imparato che a queste porte era saggio non bussare 
                  [...].  Ricordiamo che Maisie è il pretesto e lo strumento dei 
                  litigi e delle dispute legali dei due genitori. Allinizio 
                  ha una percezione solo confusa di questa specie di gioco perverso 
                  e del ruolo che vi svolge. Ma poi ne diventa progressivamente 
                  e lucidamente sempre più consapevole. Capisce ad esempio 
                  di essere stata usata dai suoi genitori come inconsapevole latrice 
                  di messaggi violenti e volgari tra di loro. Decide allora di 
                  stare fuori dal gioco, usando una strategia ben precisa, quella 
                  di fingersi stupida:  La teoria della sua stupidità, abbracciata alla fine 
                  dai suoi genitori, coincise con un grande evento nella sua piccola 
                  vita silenziosa: la visione completa, personale ma definitiva, 
                  dello strano ruolo che aveva. Fu letteralmente una rivoluzione 
                  morale che avvenne nelle profondità del suo essere. Le 
                  bambole rigide sugli scaffali bui cominciarono a muovere le 
                  braccia e le gambe; vecchie forme e vecchie frasi cominciarono 
                  ad assumere un significato che la spaventò. Provò 
                  una sensazione nuova, una sensazione di pericolo; un rimedio 
                  nuovo sopraggiunse per fronteggiarla, lidea di un io interiore 
                  o, in altre parole, lidea del nascondersi. Comprese da 
                  segni imperfetti, ma con una mente prodigiosa, che era stata 
                  fulcro di odio e messaggera di insulti, e che tutto era cattivo 
                  perché lei era stata usata per renderlo cattivo. Le sue 
                  labbra socchiuse si sigillarono con la determinazione di non 
                  voler più essere usata. Avrebbe dimenticato tutto, non 
                  avrebbe riferito nulla, e quando, come tributo al successo dellapplicazione 
                  del suo sistema, cominciarono a chiamarla una piccola idiota, 
                  provò un piacere nuovo e acuto. Perciò quando, 
                  qualche tempo dopo, i genitori, prima luno e poi laltro, 
                  dichiararono davanti a lei che era diventata disgustosamente 
                  stupida, questo non era affatto dovuto al contrarsi del piccolo 
                  corso dacqua della sua vita. Sciupò il loro piacere, 
                  ma in realtà aumentò il suo. Vedeva sempre di 
                  più; vedeva troppo.  Nellanalisi di questa crescita interiore, di questa maturazione 
                  intellettuale, non può sfuggire che questo nuovo stato 
                  di cose, seppure accompagnato da unaumentata soddisfazione 
                  della bambina per le proprie capacità di autonomia, di 
                  controllo, di lucidità, nello stesso tempo prelude probabilmente 
                  anche a una sua profonda e diversa esperienza di dolore, legata 
                  alla solitudine e alla perdita di speranze ed illusioni. Il 
                  problema sempre aperto del rapporto tra conoscenza e sofferenza 
                  entra qui in gioco. Questo è quello che ci sa dare larte. Ma larte, 
                  per come è strutturata oggi la società, rappresenta 
                  una forza troppo piccola tra le molte altre forze costituite 
                  dalle ideologie dominanti. Vedremo più avanti se, e come 
                  eventualmente, è possibile fronteggiare questa realtà 
                  in modo costruttivo ed efficace.
 Amplierò ora alcune riflessioni fatte allinizio 
                  di questo articolo sul rapporto tra la comunicazione delladulto 
                  con il bambino e il tema del dolore del bambino. Per motivi 
                  di spazio mi limiterò alla comunicazione verbale. Sfortunatamente 
                  in molti casi la comunicazione delladulto con il bambino 
                  è inadeguata non soltanto quando le tematiche da affrontare 
                  con il bambino sono collegate alla sofferenza, ma anche quando 
                  sono collegate ad altri ambiti della realtà di livelli 
                  più o meno complessi. I messaggi delladulto al 
                  bambino sono spesso, a seconda dei casi e in gradi diversi, 
                  confusi, fuorvianti, egocentrici, falsi. Frequentemente quello 
                  che il bambino dice non è preso nella dovuta considerazione, 
                  non è analizzato e capito. Ladulto non è 
                  sufficientemente empatico e il suo linguaggio è spesso 
                  metaforico, approssimativo, poco logico, poco coerente, poco 
                  comprensibile. È come se ladulto non fosse in grado 
                  di riconoscere le capacità razionali del bambino o non 
                  volesse riconoscerle. Gli esempi che si potrebbero fare sono 
                  innumerevoli. Per restare nel campo della sfera cognitiva e 
                  non toccare le connotazioni ansiogene di alcuni messaggi del 
                  tutto mistificatori (del tipo Se sei cattivo ti mando 
                  in collegio) basterà citare lesempio delleducazione 
                  religiosa.
 
  Ma è peccato, è peccato 
 Spesso le religioni si basano su principi filosofici astratti, 
                  su dogmi, su concetti per loro stessa definizione non dimostrabili 
                  empiricamente. Il bambino, che sviluppa la sua capacità 
                  di ragionare partendo dai dati concreti dellesperienza 
                  (in questo modo cerchiamo di insegnargli la matematica, le scienze, 
                  la storia, e così via), si trova più o meno irretito 
                  in una trama di idee e di immagini complesse, talvolta contraddittorie 
                  (laldilà, dio, il diavolo, gli angeli, linferno, 
                  lanima, il peccato) che non riesce ad elaborare e ad assimilare 
                  liberamente e autonomamente ma che invece gli vengono presentate 
                  come realtà precostituite, scontate. Quindi i bisogni 
                  del bambino di chiarezza, di concretezza e di conoscenza vengono 
                  verosimilmente frustrati. È chiaro che latteggiamento 
                  degli adulti in questo campo può essere definito autoritario 
                  e violento, anche se per tradizione non è in genere considerato 
                  tale. Una madre araba, che abita con la famiglia in Italia e il cui 
                  bambino frequenta lasilo, ha risposto così al figlio, 
                  che le chiedeva perché non potesse mangiare il prosciutto 
                  a scuola come facevano gli altri bambini: È cattivo 
                  il prosciutto. No, non è cattivo, è 
                  buono ha ribadito il bambino. Ma è peccato, 
                  è peccato ha ribadito a sua volta la madre. Le 
                  risposte a questo bambino non sono diverse per il loro messaggio 
                  di autoritarismo e di irrazionalità (di cui probabilmente 
                  questo genitore, come tanti altri genitori, non si rende conto) 
                  da quelle, ad esempio, di un genitore cattolico a proposito 
                  di altri principi religiosi.
 A chi dovesse obiettare che solo in questo modo è possibile 
                  impartire al bambino uneducazione morale, è opportuno 
                  ricordare che esiste anche una morale laica, fondata su principi 
                  di libertà, di tolleranza, di giustizia e di solidarietà, 
                  su principi quindi che ci sembrano utili e giusti per ogni persona. 
                  È una morale che può essere spiegata al bambino 
                  in termini molto concreti (facendogli osservare, ad esempio, 
                  che laltro bambino piange se lui gli dà i pizzicotti) 
                  e sui cui principi si basa una convivenza armoniosa tra gli 
                  esseri umani, come pure tra gli esseri umani e gli altri animali 
                  e la natura in genere. Sono principi che hanno fondamentalmente 
                  lo stesso carattere di essenzialità, di urgenza, di universalità 
                  e di necessità, a livello per così dire di sopravvivenza, 
                  come quelli che impartiamo appunto al bambino nella realtà 
                  quotidiana, in base ai quali, per fare un altro esempio, non 
                  bisogna mettere le dita dentro una presa della corrente o arrampicarsi 
                  sul davanzale di una finestra.
 Tra laltro il tema delleducazione religiosa è 
                  collegato a quello dei diritti umani e a quello dei diritti 
                  del bambino in particolare (cfr. Convenzione sui diritti del 
                  fanciullo, 1989; Peens e Louw, 2000a; Peens e Louw, 2000b; Robustelli 
                  e Pagani, 1983), al diritto del bambino di cercarsi una 
                  propria verità, come scrive in una lettera a Camus 
                  (1994) il suo vecchio maestro di scuola a proposito dellinsegnamento 
                  della religione, al diritto del bambino di conquistare la propria 
                  autonomia.
 La comunicazione inadeguata delladulto con il bambino 
                  ha spesso, tra i suoi effetti principali, quello di inibire 
                  lo sviluppo della razionalità nel bambino. A sua volta 
                  uno scarso sviluppo della razionalità in molti casi produce 
                  sofferenza perché in questo modo le capacità di 
                  affrontare costruttivamente i problemi della vita, di capire 
                  gli altri e la realtà in genere, vengono ridotte. Negli 
                  ultimi anni è stato giustamente dato ampio risalto alle 
                  capacità di elaborazione fantastica del bambino, collegandole 
                  in particolare allespressione artistica (disegno, pittura, 
                  fiabe, musica, ecc.). È importante tuttavia che venga 
                  dato altrettanto risalto alle capacità tradizionalmente 
                  definite razionali del bambino, alle sue capacità di 
                  elaborare ipotesi, di riflettere su se stesso, sugli altri, 
                  sulla realtà e quindi anche sul problema del dolore. 
                  È importante accompagnarlo in questa sua indagine e aiutarlo 
                  nei limiti delle nostre possibilità.
 Qualcuno potrebbe obiettare che anche la razionalità 
                  produce sofferenza in quanto lindividuo razionale non 
                  elabora le sue esperienze con il sostegno offerto da miti, illusioni 
                  o fedi. Ho accennato a questo problema precedentemente, commentando 
                  una citazione dal romanzo di James.
 La scelta o meno della razionalità è collegata 
                  al sistema di valori di una società e al sistema di valori 
                  di un individuo. In una società in cui i valori dominanti 
                  sono quelli della solidarietà è verosimile che 
                  la razionalità aiuti gli individui a soffrire di meno. 
                  In una società dominata da un modello di vita competitivo 
                  è verosimile che, ad un certo livello, diciamo più 
                  superficiale, dellesperienza, gli individui soffrano di 
                  meno grazie alla dipendenza da miti, illusioni e fedi. In ogni 
                  modo è nel contesto dei suoi valori personali che in 
                  ultima analisi si inserisce la scelta di un individuo, una scelta 
                  che è possibile operare autonomamente e indipendentemente 
                  dai valori dominanti della società in cui è dato 
                  vivere. È verosimile tuttavia pensare che luso 
                  della razionalità, che implica di per sé ladesione 
                  a stili di vita più costruttivi e solidaristici, a lungo 
                  termine apporterebbe agli individui un maggior benessere psicologico. 
                  La configurazione di questo maggior benessere psicologico è 
                  tuttora solo in minima parte delineabile, in quanto a tuttoggi 
                  per quello che possiamo sapere non ci sono mai stati i prerequisiti 
                  psicologici e sociali per una sua realizzazione. Sarebbe comunque 
                  un benessere collegato al potenziamento delle capacità 
                  cognitive ed affettive e alla diminuzione dei sensi di frustrazione, 
                  di insicurezza e di solitudine.
 Nella ricerca e nellanalisi delle cause della sofferenza 
                  in generale e del bambino in particolare la nostra cultura è 
                  rimasta fondamentalmente superficiale. Ci si accontenta in genere 
                  dellevento, della concretezza del dato immediato e non 
                  si va oltre, non si penetra dentro le motivazioni più 
                  profonde degli individui, né si valutano criticamente 
                  i possibili effetti di una cultura sugli individui stessi. Si 
                  mettono a fuoco, ad esempio, a seconda dei casi, il gesto violento, 
                  la percossa, la coltellata, la bocciatura e si ignora la lunga 
                  e complessa sequenza degli atteggiamenti degli individui che 
                  fanno parte dellambiente psicologico del bambino e la 
                  vasta gamma dei condizionamenti culturali.
   
  Comunicazione inadeguata 
 Che cosa fare per aiutare il bambino nel suo rapporto con il 
                  dolore? La risposta non potrà mai essere del tutto esauriente. 
                  Ladulto stesso non è in grado in molti casi di 
                  capire il perché della sofferenza. Ma certamente qualcosa 
                  si può fare. Alcuni suggerimenti emergono già 
                  dalle considerazioni presentate finora. È necessario 
                  comunque e soprattutto reimpostare il rapporto delladulto 
                  con il bambino. Nel corso della storia questo rapporto è 
                  stato in genere caratterizzato dalla più o meno tacita 
                  convinzione che il rapporto stesso dovesse essere di tipo gerarchico, 
                  basato cioè su una maggiore quantità di potere 
                  delladulto rispetto al bambino. È importante invece 
                  che ladulto consideri il bambino, pur tenendo conto della 
                  diversità delle esperienze e delle competenze, a tutti 
                  gli effetti un individuo alla pari, un compagno di strada, 
                  con cui, nei dovuti limiti e nel rispetto del suo grado di sviluppo 
                  cognitivo ed affettivo, si può e si deve condividere 
                  la riflessione sulla maggior parte delle esperienze fondamentali 
                  della vita. La comunicazione inadeguata delladulto con 
                  il bambino, a cui facevo riferimento prima, è fondamentalmente 
                  legata a questo rapporto gerarchico e quindi distorto. È 
                  inoltre necessario che tutti, bambini e adulti, siano in grado 
                  di analizzare criticamente le ideologie dominanti e quindi i 
                  modelli di pensiero e di comportamento della nostra società, 
                  in modo che si rendano conto di quanto questi modelli condizionino 
                  la nostra visione del mondo in generale e di quello del bambino 
                  in particolare. Queste riflessioni sul dolore del bambino, in riferimento, in 
                  particolare, alla comunicazione adulto-bambino, alleducazione 
                  religiosa e ai normali condizionamenti culturali in una 
                  società, acquistano, credo, un rilievo ancora maggiore 
                  nel momento storico attuale.
 Alcuni anni fa un adolescente di 13 anni con un handicap psichico, 
                  il cui padre aveva ucciso la moglie, la madre del ragazzo, saputo 
                  che mia madre era morta, mi chiese con molta dolcezza dove si 
                  trovasse ora mia madre. Gli risposi che non lo sapevo. Presumo 
                  che questa risposta, che non forniva alcuna certezza sulla sopravvivenza 
                  o meno delle persone morte, gli dava tuttavia la certezza di 
                  un nostro legame affettivo e di un rispetto reciproco sulla 
                  base di una comune sofferenza e di una comune ricerca di significati 
                  in una realtà che non riusciamo a penetrare.
  Camilla Pagani
 
                   
                    | Riferimenti 
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