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                  Giorgio 
                    Sacchetti, Senza frontiere. Pensiero e azione 
                    dell’anarchico Umberto Marzocchi (1900-1986), 
                    Edizioni ZIC, Milano 2005, pag. 543, euro 35,00.  
                   Giorgio 
                    Amico – Yurii Colombo, Un comunista senza 
                    rivoluzione. Arrigo Cervetto dall’anarchismo a Lotta 
                    Comunista: appunti per una biografia politica, 
                    Massari Editore, Bolsena 2005, pag. 167, euro 10,00.  Antonio 
                    Cardella – Ludovico Fenech, Anni senza tregua. 
                    Per una storia della Federazione Anarchica Italiana dal 1970 
                    al 1980, Edizioni ZIC, Milano 2005, pag. 350, 
                    euro 25,00.   
                    Può sembrare 
                    singolare la scelta di accomunare questi tre libri – 
                    recentemente usciti – in un discorso comune, ma a ben 
                    vedere tanto strana non è. In primo luogo, ad un livello 
                    molto generale, trattano tutti e tre (in varia misura e in 
                    modo diverso) della storia del movimento anarchico e, con 
                    qualche sovrapposizione, ma anche con precise demarcazioni 
                    temporali, di questa storia nel secondo dopoguerra, fino agli 
                    anni ’80. Periodo su cui per adesso si è scritto, 
                    ricercato e ricostruito davvero poco. Attraverso le figure 
                    di Umberto Marzocchi e Arrigo Cervetto, le vicende dei GAAP 
                    e della Federazione Anarchica Italiana e il loro dibattito 
                    esterno e interno si delinea un quadro che, a pelle di leopardo, 
                    copre oltre quarant’anni di storia dell’anarchismo 
                    italiano. Ma questo ancora non basterebbe a trarre un filo 
                    comune da una collettanea di scritti di argomento analogo, 
                    se non si aggirasse sullo sfondo di queste ricerche la questione 
                    dell’anarchismo di classe. Esplicitamente nel libro su Cervetto, come contesto di alcune 
                    vicende nel libro su Marzocchi, come uno spettro da esorcizzare 
                    nel libro sulla FAI.
 È questa la grande questione che attraversa la storia 
                    del movimento e della FAI nel dopoguerra: la natura storica 
                    e sociale dell’anarchismo e la contrapposizione su questo 
                    tema tra chi riteneva (e ritiene) che l’anarchismo fosse 
                    nato “... non dalle astratte riflessioni di uno 
                    studioso o di un filosofo, ma dalla lotta diretta dei lavoratori 
                    contro il capitale, dai bisogni e le necessità dei 
                    lavoratori, dalla loro aspirazione alla libertà e all’eguaglianza” 
                    (1), e chi, più ecumenicamente, 
                    lo riteneva (ritiene) la massima espressione di un eterno 
                    spirito di rivolta e di ricerca di libertà che attraversa 
                    tutte le epoche e tutti gli sfruttati, enucleato in principi 
                    dai suoi grandi teorici.
 Questa contrapposizione, in realtà, viene da lontano, 
                    almeno da quando il movimento anarchico, raggiunte dimensioni 
                    di massa, ha iniziato a riflettere sulle proprie origini, 
                    ed è patrimonio dell’anarchismo di tutti i paesi. 
                    Spesso, inoltre, questa querelle è stata mascherata, 
                    sottesa o inglobata in altre: quella tra individualisti e 
                    organizzati, tra organizzatori e antiorganizzatori, tra piattaformisti 
                    e tradizionalisti, tra anarcosindacalisti e anarchici “puri” 
                    e così via.
 Tuttavia, in Italia, nel dopoguerra, a partire dal congresso 
                    di Carrara del settembre 1945 che sancisce una transitoria 
                    e fittizia unità tra le varie anime dell’anarchismo 
                    italiano, questa contrapposizione si esprime in massima parte 
                    nel duro confronto (che si sviluppa in maniera esplicita in 
                    diverse fasi, fino all’inizio degli anni ’80) 
                    tra piattaformisti (2) (o arscinovisti 
                    che dir si voglia) e il resto del movimento.
 È vero che questa riduzione può sembrare eccessivamente 
                    semplificativa nel non tenere conto, ad esempio, del dibattito 
                    sulla questione sindacale di fine anni ’40 (3) 
                    o della scissione dei Gruppi di Iniziativa Anarchica dalla 
                    FAI del 1965, ma è anche vero che i contenuti del primo 
                    (trasversale, ieri come oggi, rispetto alle diverse concezioni 
                    dell’anarchismo) riguardavano la specificità 
                    della condizione dei lavoratori e la seconda, entro certi 
                    limiti, può essere considerata il regolamento di conti 
                    definitivo all’interno della Federazione rispetto alla 
                    vicenda gaappista.
 
 Piotr 
                    Arscinov appartenente al gruppo dei "piattaformisti"   L’esperienza 
                    dei GAAP Proprio le figure di Marzocchi e Cervetto sono in qualche 
                    modo esemplari all’interno di questo dibattito. Il primo, 
                    figura ormai carismatica dell’anarchismo italiano, rappresenta 
                    il nucleo duro e lo spirito della Federazione, attento alle 
                    istanze di rinnovamento che provengono dagli strati giovanili 
                    della FAI, legato da un forte rapporto al giovane Cervetto, 
                    è tuttavia anche preoccupato da possibili derive filo-marxiste 
                    e si pone, se mi è concesso il termine, come fautore 
                    di un rinnovamento nella continuità delle migliori 
                    tradizioni del movimento anarchico organizzato in Italia, 
                    del suo patrimonio ideale, ma anche del suo radicamento nel 
                    mondo dei lavoratori e dell’attività sindacale. 
                    Il secondo, anche lui savonese, è il simbolo di una 
                    profonda spinta al rinnovamento che viene dai giovani, prevalentemente 
                    di estrazione operaia, affluiti al movimento durante la lotta 
                    partigiana, e sarà insieme ad altri giovani (come Masini, 
                    Parodi, Vinazza, ecc.) elemento propulsore nella costituzione, 
                    nel 1951, dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP).
 Tuttavia nelle vicende (4) di fine 
                    anni ’40, inizio anni ’50 – ben sintetizzate 
                    nel libro di Amico e Colombo – che porteranno all’estromissione 
                    di fatto dalla Federazione dei giovani piattaformisti (Congresso 
                    FAI di Ancona dell’8-10 dicembre 1950) e alla fondazione 
                    dei GAAP (Convegno di Pontedecimo, 24-25 febbraio 1951) sancendo 
                    una dolorosa spaccatura nel movimento anarchico, prevale lo 
                    scontro sulle forme e le dinamiche organizzative rispetto 
                    a quello, ben più rilevante, sui contenuti politici 
                    dello scontro in atto.
 Questa accentuazione (ed in particolare il forte accento sulla 
                    responsabilità collettiva) e talune pratiche poco limpide 
                    (5), dettero l’impressione 
                    di un lavoro clandestino di frazione orientato a una manovra 
                    scissionista.
 Così, almeno all’inizio, sicuramente non era, 
                    il progetto dei giovani piattaformisti era quello, esplicitamente 
                    dichiarato, di trasformare la FAI in un’organizzazione 
                    di tendenza, coesa dal punto di vista programmatico e ideologico, 
                    fortemente strutturata dal punto di vista organizzativo e 
                    decisamente classista. Gli avversari da sconfiggere che venivano 
                    accusati di “resistenzialismo” e di “nullismo” 
                    ovvero di essere portatori di una visione difensiva, testimoniale, 
                    puramente propagandista e sostanzialmente aclassista dell’anarchismo, 
                    erano le aree vicine alla rivista «Volontà» 
                    e al periodico «L’Adunata dei Refrattari».
 Il progetto dei futuri gaappisti – nella sostanza e 
                    non nelle accentuazioni organizzativiste – trovò, 
                    almeno inizialmente, un certo sostegno e simpatia da parte 
                    di molti “vecchi” militanti (Mantovani, ma anche 
                    Failla e molti altri). Lo stesso Marzocchi, legato da forti 
                    rapporti di stima a Cervetto e agli altri giovani “orientatori” 
                    (6) liguri, ebbe – come ben 
                    testimoniano Sacchetti e Amico-Colombo – forte interesse 
                    nell’iniziativa, almeno fino a che il livello della 
                    polemica non travalicò certi limiti. Preoccupato delle 
                    lacerazioni che si stavano profilando nella Federazione, infatti 
                    Marzocchi si chiamò fuori dalle esasperazioni polemiche 
                    del dibattito e non partecipò al già citato 
                    Congresso di Ancona che sancì l’estromissione 
                    dei gruppi “orientatori” e per questo fu nel seguito 
                    aspramente criticato dai “resistenzialisti”.
 Si chiude dunque nel 1951 la prima esperienza piattaformista 
                    all’interno della FAI, i GAAP seguiranno una propria 
                    strada accentuando sempre più l’aspetto dirigista 
                    sul piano organizzativo mentre, dal punto di vista teorico, 
                    gli elementi iniziali di analisi marxista scivoleranno (per 
                    una parte della leadership: Cervetto e Parodi in primis) nella 
                    rilettura e nell’accettazione e nella riformulazione 
                    di tesi leniniste. Qui, almeno nell’ambito di questo 
                    articolo, il discorso si chiude se non per un piccolo bilancio 
                    dell’esperienza e due rilievi sul libro di Amico e Colombo.
 Un bilancio minimo, a mio avviso, non può essere che 
                    questo: l’esperienza “orientatrice” non 
                    fallì per un’interna incoerenza, né per 
                    l’accentuazione dell’importanza di categorie d’analisi 
                    marxiste (7), ma piuttosto per una 
                    certa arroganza intellettuale dei giovani piattaformisti e 
                    per il loro uso spregiudicato di dinamiche organizzative non 
                    sempre trasparenti.
 Il primo rilievo riguarda invece l’assoluta condivisibilità 
                    della tesi delle convinzioni anarchiche di Cervetto e Parodi, 
                    almeno per la prima fase dell’esperienza gaappista. 
                    Articoli e scritti dei due su varie pubblicazioni e periodici 
                    anarchici (8) smentiscono nettamente 
                    la tesi di un loro leninismo originario.
 Il secondo, che può sembrare una pignoleria filologica 
                    (ma non è tale) e che è forse l’unico 
                    piccolo neo della monografia su Cervetto, è l’attribuzione 
                    a questi delle “Tesi sull’abrogazione dello Stato 
                    come apparato di classe”. Documenti, relazioni, testimonianze 
                    dirette e indirette di partecipanti al Convegno di Pontedecimo 
                    avvalorano la tesi che queste furono discusse, prodotte e 
                    redatte da una commissione ristretta a cui parteciparono, 
                    tra gli altri, Cervetto e Masini, che poi le illustrarono 
                    in sede di Convegno. Una attribuzione ad personam 
                    non pare dunque possibile (9).
 
                     
                      | Per 
                          onorare Malatesta:  Nell’aprire 
                          il tesseramento 1953 il C. N. dei GAAP indica a tutti 
                          i militanti i compiti il cui disimpegno costituirà 
                          quest’anno la celebrazione più degna del 
                          centenario malatestiano.  
                         
                          Rafforzare 
                            l’organizzazione estendendola alle zone più 
                            refrattarie, ampliandone l’influenza politica, 
                            conquistando ad essa nuovi militanti qualificati. 
                             
                          Diffondere, 
                            difendere, sostenere l’IMPULSO, organo dei GAAP, 
                            garantire ad esso una vita continua e prospera, farne 
                            lo strumento efficiente della nostra propaganda.  
                          Accrescere 
                            con una presenza attiva, con una esemplare partecipazione 
                            alla lotta, con una chiara applicazione dei nostri 
                            principi, il peso della nostra influenza nelle organizzazioni 
                            operaie e di massa.  
                          Migliorare 
                            il nostro lavoro teorico e la nostra attività 
                            culturale, elevando il livello ideologico di tutti 
                            i militanti.  
                          Contribuire 
                            su piano nazionale e su piano internazionale alla 
                            più intensa cooperazione, alla più fraterna 
                            solidarietà fra gli anarchici e fra tutti i 
                            veri rivoluzionari.  
                          
                          Il Comitato Nazionale dei G.A.A.P. |  Frontespizio 
                    e testo interno della tessera dei GAAP (Gruppi Anarchici di 
                    Azione Proletaria) del 1953   Quegli 
                    anni tumultuosi Abbandoniamo il libro su Cervetto e facciamo un salto di 
                    circa vent’anni. Inizio anni ’70: il movimento 
                    anarchico, dopo la crisi dei primi anni ’60, culminata 
                    nella scissione del 1965 dei Gruppi di Iniziativa Anarchica, 
                    è in notevole crescita. Ha perduto la sua unità organizzativa (alla FAI e ai 
                    GIA si affiancano, come organizzazione a carattere nazionale, 
                    i Gruppi Anarchici Federati), ma grazie all’afflusso 
                    di giovani militanti (di estrazione studentesca, ma anche 
                    operaia) maturati nelle lotte del 1968/69, si sono moltiplicati 
                    sedi, circoli, gruppi, federazioni a carattere cittadino e 
                    regionale, dentro e fuori le organizzazioni a carattere nazionale.
 A questa crescita quantitativa corrisponde una forte richiesta, 
                    da parte dei nuovi gruppi e compagni, di approfondimento dell’apparato 
                    teorico e analitico specifico del movimento anarchico e di 
                    una maggiore incidenza di questi nelle lotte sociali e operaie 
                    del periodo.
 È quasi naturale dunque che nella situazione convulsa 
                    di quegli anni (la campagna sulla strage di Stato e l’assassinio 
                    di Pinelli, la campagna per la liberazione di Valpreda e Marini), 
                    insieme al dibattito sulle forme di lotta (la candidatura 
                    elettorale di Valpreda, ma anche la violenza rivoluzionaria) 
                    si riapra con forza la discussione sulla centralità 
                    della questione operaia nel movimento.
 Ed è quasi altrettanto inevitabile che le risposte 
                    del movimento siano differenti: mentre i GIA arroccati ad 
                    una visione testimoniale dell’anarchismo, rimangono 
                    sostanzialmente impermeabili alle nuove spinte, e i GAF si 
                    avviano verso una revisione colta dell’anarchismo (10) 
                    che però problematicizza lo stesso concetto di lotta 
                    di classe, nella FAI (e nella vasta area di gruppi non federati) 
                    si apre un profondo dibattito sulla natura dell’anarchismo, 
                    le sue forme organizzative, la questione sindacale e le lotte 
                    operaie.
 Inizia un decennio (quello ’70-’80), che è 
                    anche l’argomento del libro di Cardella e Fenech, che 
                    per la FAI (e il resto del movimento) è ricco di eventi, 
                    discussioni e polemiche, in una parola tumultuoso.
 In estrema sintesi alcuni degli episodi salienti di quegli 
                    anni. Nel biennio ’72-’73 una serie di gruppi 
                    e di organizzazioni regionali (interne ed esterne alla FAI) 
                    intraprende un percorso di dibattito e di confronto che, partendo 
                    dalla necessità di recuperare le istanze classiste 
                    e la natura operaia dell’anarchismo, finisce per sfociare 
                    nella rilettura dell’arscinovismo e dell’esperienza 
                    gaappista e nell’adesione al piattaformismo.
  Ida Mett 
                    appartenente al gruppo dei “piattaformisti”
  La contrapposizione all’interno del movimento 
                    è subito aspra, alcune prese di posizione dei GAF sulla 
                    figura di Bertoli (11) la acuiscono 
                    e diventano, per certi aspetti, un casus belli. La costituzione di una vasta area piattaformista – fuori 
                    e dentro la FAI – genera non poche preoccupazioni all’interno 
                    di una parte del movimento anarchico (GIA, GAF e alcuni settori 
                    della FAI stessa), che la vede come un tentativo di egemonizzare 
                    il movimento stesso. I timori non sono del tutto ingiustificati 
                    in quanto l’obbiettivo esplicito dell’area piattaformista 
                    è – agendo in maniera concertata fuori e dentro 
                    la Federazione – di riportare il movimento alle sue 
                    radici operaie emarginandone le componenti giudicate aclassiste. 
                    Si tratta di un progetto politico radicale che implica un 
                    confronto (anzi uno scontro) estremamente duro, ma legittimo.
 Quello che lo guasterà e contribuirà a determinarne 
                    l’insuccesso saranno l’immaturità politica 
                    e comportamentale di alcuni gruppi di quest’area, l’uso 
                    spregiudicato di dinamiche organizzative e assembleari e, 
                    come nel caso dei GAAP, un certo settarismo intollerante che 
                    porta alla sottovalutazione degli “avversari”.
 Così dopo l’indiscutibile successo del Convegno 
                    nazionale lavoratori anarchici promosso dall’area piattaformista 
                    (Bologna, 11-15 agosto 1973) che sembra il preludio di un 
                    processo inarrestabile di recupero delle radici classiste 
                    del movimento, una serie di durissime contrapposizioni a livello 
                    locale (Milano, ma anche Genova), ai limiti dello scontro 
                    materiale, sviano e snaturano i contenuti politici del dibattito.
 È proprio da una di queste situazioni molto tese e 
                    da uno spiacevole episodio che vi si verifica (il danneggiamento 
                    dei locali del circolo di via Scaldasole ad opera di piattaformisti 
                    milanesi – settembre 1973) che trae alimento, da un 
                    lato, una maggior coesione dell’area anti-piattaformista 
                    e, dall’altro, una campagna strumentale che porterà, 
                    dapprima all’estromissione dell’area piattaformista 
                    da importanti scadenze di movimento (come il Convegno pro-Marini 
                    di Carrara – 7 ottobre 1973) e, in seguito all’uscita 
                    dei gruppi FAI del “nucleo operativo” dalla Federazione 
                    stessa (12).
 Anche qui un piccolo bilancio si impone. Questa seconda esperienza 
                    piattaformista – più partecipata numericamente 
                    della prima – rimane però largamente confinata 
                    allo stato di progetto, non produce cioè esiti organizzativi 
                    duraturi (13).
 La relativa immaturità dei suoi protagonisti produce 
                    spesso atteggiamenti arroganti e settari (contrappuntati, 
                    bisogna dire, da altrettanta arroganza e settarismo di vasti 
                    settori del movimento anarchico organizzato) che offuscano 
                    i termini reali del conflitto politico in atto. Il merito 
                    indiscutibile dell’esperienza è comunque, al 
                    di là di tutto, quello di riproporre con forza e chiarezza 
                    la questione della natura classista dell’anarchismo 
                    e di rinsaldare la sua presenza nel movimento operaio. A questo 
                    stimolo non resteranno indifferenti diversi vecchi militanti 
                    della FAI, come Umberto Marzocchi, e i frutti si vedranno 
                    qualche anno dopo.
  Nestor 
                    Makhno, “leader” della “makhnovcina” 
                    e appartenente al gruppo dei “piattaformisti”
   Vecchie 
                    discussioni Proprio la figura di Marzocchi ci consente un balzo in avanti 
                    di alcuni anni, per arrivare alla fine del decennio ’70. 
                    La FAI, di cui Umberto Marzocchi è uno degli esponenti 
                    più prestigiosi, ha riguadagnato le sue posizioni di 
                    preminenza nel movimento (i GIA sono sull’orlo dell’estinzione 
                    per la scomparsa dei loro vecchi militanti, i GAF si stanno 
                    trasformando esplicitamente in progetto culturale che non 
                    richiede forme specifiche organizzative), gruppi e federazioni 
                    locali, molto consistenti, sono impegnati nell’intervento 
                    politico e in un’accesa discussione interna che spazia 
                    dalla forma organizzativa specifica, alla presenza nel movimento 
                    operaio, all’intervento nel sociale, alla violenza rivoluzionaria.
 Sulle prime due di queste questioni si innesta un doppio percorso 
                    che, da un lato, prelude ad una nuova spaccatura della Federazione 
                    e, dall’altro, porta a riconsiderare le scelte sindacali 
                    fatte nell’immediato dopoguerra e mai rimesse, nella 
                    sostanza, in discussione (14).
 Due percorsi che si intrecciano perché i protagonisti 
                    sono gli stessi e perché dinamiche e tematiche organizzative 
                    specifiche – purtroppo e come spesso accade – 
                    oscurano i contenuti di un importante dibattito, che neanche 
                    può essere ridotto ad una mera scelta sindacale.
 Così, mentre tra il 1977 e il 1983 si sviluppa un articolato 
                    percorso che porterà alla rifondazione dell’Unione 
                    Sindacale Italiana, attraverso due importanti e partecipati 
                    attivi preparatori (15), raccogliendo 
                    in qualche modo il lascito politico della necessità 
                    del recupero dell’anarchismo di classe del già 
                    citato Convegno nazionale dei lavoratori anarchici di cinque 
                    anni prima, sul piano dell’organizzazione specifica 
                    (la FAI) il dibattito sul recupero della natura operaia dell’anarchismo 
                    è fuorviato (anche per responsabilità dei promotori, 
                    una “nuova generazione” piattaformista) sul terreno 
                    delle scelte e delle modalità organizzative.
 Così tutto l’armamentario di vecchie discussioni 
                    è rimesso in campo: organizzazione di sintesi vs. organizzazione 
                    di tendenza, organizzazione strutturata vs. organizzazione 
                    federata, responsabilità collettiva vs. responsabilità 
                    individuale. Si continua a confondere il contenitore con il 
                    contenuto e la discussione, come al solito, ne viene falsata 
                    trasformandosi in quello che appare uno scontro di potere 
                    all’interno della Federazione. Scontro che si conclude 
                    al Congresso straordinario della FAI di Carrara (gennaio 1979) 
                    che sancisce l’estromissione di alcuni gruppi piattaformisti.
 Termino qui questa sommaria e lacunosa ricostruzione di circa 
                    trent’anni di dibattito e scontro politico all’interno 
                    della FAI e del movimento anarchico, che altro non mi serviva 
                    se non a tratteggiarne la complessità e l’importanza. 
                    In questo senso il piattaformismo (o arscinovismo) altro non 
                    è stato che una forma specifica, contestualizzabile 
                    e, per certi versi, criticabile della rivendicazione della 
                    natura operaia e proletaria del movimento anarchico e della 
                    necessità di riportare la sua prassi e la sua strategia 
                    su questa coordinata politica.
 Gli scontri e le lacerazioni che questa rivendicazione hanno 
                    portato all’interno della Federazione (e del movimento) 
                    sono stati aspri e dolorosi, tuttavia “necessari” 
                    in quanto hanno portato a confronto tra loro (e con la realtà 
                    sociale e politica) visioni dell’anarchismo contrastanti, 
                    se non inconciliabili.
 Quello che stupisce – per ritornare ai libri in oggetto 
                    – è che un testo documentato, per certi versi 
                    interessante (e che deve essere costato parecchio impegno 
                    agli autori) come quello di Cardella e Fenech non colga né 
                    la complessità di questa dinamica, né la sua 
                    importanza e si abbandoni a giudizi superficiali e banalizzanti 
                    (16), vagamente fastidiosi per chi, 
                    come chi scrive, è stato testimone e parte attiva di 
                    quell’esperienza. Introdurre surrettiziamente elementi 
                    di polemica (e non di dibattito) per di più datata 
                    e acontestualizzata, in una ricerca storiografica non è 
                    un buon servizio alla storia del nostro movimento. Peccato, 
                    un’occasione mancata.
      
 Vsevolod 
                    Mikhaïlovitch Eichenbaum detto Voline, Luigi Fabbri e 
                    Errico Malatesta, si espressero criticamente contro le tesi 
                    portate avanti nella “Piattaforma”   Concludo con un ultimo apprezzamento per il libro di Giorgio 
                    Sacchetti. Umberto Marzocchi è stato, nei suoi oltre 
                    sessant’anni di militanza, figura di estremo rilievo 
                    dell’anarchismo italiano e non solo. Nel secondo dopoguerra 
                    ha avuto un ruolo centrale nella FAI, vivendone, per quarant’anni, 
                    crescita, successi, crisi, riprese e contraddizioni, con lo 
                    sguardo sempre attento al nuovo e con la preoccupazione di 
                    salvare il meglio delle tradizioni del movimento. Il libro di Sacchetti rende tutto ciò in maniera esaustiva, 
                    documentata e convincente. Credo che non si potesse fare di 
                    più. Chi intendesse dedicarsi ad una ricostruzione 
                    seria e rigorosa delle vicende del nostro movimento, a partire 
                    dal secondo dopoguerra, non potrà prescindere né 
                    dalla figura di Umberto Marzocchi, né da questo libro.
  Guido Barroero
 Note 
                
                   Georges Fontenis, Changer le monde, Toulouse 2000. 
                    Riportato in Amico-Colombo, Un comunista senza rivoluzione. 
                  Dal nome della Piattaforma di Arscinov, il programma-manifesto 
                    elaborato nel 1926 dal gruppo di anarchici russi in esilio 
                    Delo Truda e che, ricalcando l’esperienza machnovista, 
                    propugnava l’esigenza di un’organizzazione anarchica 
                    fortemente strutturata e classista. 
                  Tra i fautori della ricostituzione dell’USI e coloro 
                    che privilegiavano l’unità d’azione con 
                    i lavoratori degli altri partiti della sinistra nella CGIL. 
                  Poco è stato scritto, recentemente, specificamente 
                    sull’esperienza gappista. Posso segnalare solo la mia 
                    ricerca: Barroero Guido, Per la storia del movimento anarchico 
                    nel dopoguerra. Un’esperienza dell’anarchismo 
                    di classe: I Gruppi Anarchici di Azione Proletaria – 
                    in «Comunismo Libertario», nn.32, 33, 34, 35 del 
                    1998 e nn.39, 41, 43 del 1999, raccolti in opuscolo, nel 2004, 
                    dalla redazione della rivista, senza la necessaria opera di 
                    revisione. 
                  Come la riproposizione da parte dei futuri gaappisti della 
                    mozione, già presentata al Convegno di costituzione 
                    della Unione Anarchica Laziale, a Frascati nel febbraio del 
                    1950, al Congresso della Federazione Anarchica Ligure, svoltosi 
                    a Pontedecimo il 19/3/1950, senza citare il precedente. 
                  “Per un movimento orientato e federato”, così 
                    era definito il progetto. 
                  L’accettazione di queste nel movimento anarchico, 
                    a ben vedere, non ha mai provocato grosso scandalo, a partire 
                    da Bakunin e Cafiero. 
                  Cito – come fanno Amico e Colombo – e senza 
                    pretesa di completezza: «Umanità Nova», 
                    «Volontà», «Inquietudine», 
                    «il Libertario». 
                  Stupisce che nel Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, 
                    all’interno della scheda su Pier Carlo Masini, le “Tesi”, 
                    pur riconosciute prodotto di discussione collettiva, vengano 
                    poi considerate uno scritto attribuibile allo stesso. È 
                    evidente che chiunque sia stato l’estensore materiale 
                    di quel documento non può averne attribuita la paternità 
                    politica. Altrimenti, seguendo questo curioso criterio, dovremmo 
                    considerare scritti di singoli (o di poche persone) tutte 
                    le relazioni, le mozioni, le tesi e altri documenti a firma 
                    collettiva, adottati o approvati in vari Convegni e Congressi. 
                  Cfr. tra l’altro le tesi sul “feudalesimo industriale”, 
                    ispirate da una rilettura di Bruno Rizzi. 
                  Autore di un attentato davanti alla questura di Milano nel 
                    maggio del 1973. 
                  A questi gruppi fu negata la partecipazione al Congresso 
                    FAI di Carrara – 22-25 dicembre 1973. 
                  Immagino che questa affermazione non sarà condivisa 
                    dall’attuale area comunista-libertaria che si rifà 
                    a quell’esperienza, ma è innegabile che le aspettative 
                    che allora si davano trascendono di gran lunga gli esiti di 
                    oggi. 
                  Parliamo, evidentemente, della scelta pro-CGIL che non viene 
                    intaccata dalla ricostituzione dell’USI, su posizioni 
                    minoritarie, negli anni ’50 e che si estinguerà 
                    all’inizio degli anni ’70. 
                  Mi riferisco al I attivo nazionale di base dei lavoratori 
                    per l’USI (Roma, 22-23 aprile 1978) e al secondo (Genova, 
                    25-26 novembre 1978). Esulando, tuttavia, la storia recente 
                    dell’Unione Sindacale dagli scopi del presente scritto, 
                    rimando all’articolo di Giorgio Sacchetti: L’Unione 
                    Sindacale Italiana (USI) nel movimento operaio italiano, 
                    in «Autogestione» n.10, dicembre 1984, essendo 
                    il testo di Gianfranco Careri (Il sindacalismo autogestionario, 
                    Ed. USI, Roma 1991) che affronta lo stesso periodo, un po’ 
                    troppo apologetico e venato da eccessi romanzeschi. 
                  Particolarmente deplorevole è la ripresa acritica 
                    di giudizi e di prese di posizione che forse allora (ma non 
                    certo oggi) potevano essere comprensibili solo all’interno 
                    di una polemica accesissima. Cito solamente: “il sedicente 
                    [sic] Convegno nazionale lavoratori anarchici” 
                    e “[elementi e gruppi piattaformisti – nda]... 
                    procedevano all’assalto [sic] e alla devastazione 
                    della sede del Circolo Pinelli”. 
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