Un movimento in macerie, 
                    o peggio, autoreferenziale, chiuso, partitico, autoritario. 
                    Queste alcune delle definizioni che Francesco Codello, nel 
                    suo “Una presunta debolezza”, 
                    riserva al movimento anarchico. 
                    Una condanna senza appello. Curiosamente, mi permetterei di 
                    dire, enunciata su un giornale come A, la cui storia ed il 
                    cui presente sono stati e restano all’interno del famigerato 
                    movimento anarchico. Ma, suppongo, nell’impianto di 
                    Codello, un giornale non sia luogo d’azione, foss’anche 
                    comunicativa, ma una sorta di museo sulle cui pareti vengono 
                    esposte le opere, queste sì vive e vitali, del pensiero 
                    anarchico. 
                    Già. E siamo al nocciolo da cui si dipana il suo argomentare: 
                    se da un lato c’è un movimento la cui unica funzione 
                    parrebbe quella di ostacolare la comprensione e diffusione 
                    delle idee anarchiche, dall’altra queste idee autonomamente 
                    godono di ottima salute. 
                    Ecco le sue parole: “La storia delle idee anarchiche 
                    non coincide con la storia dell’anarchismo. Fortunatamente 
                    il pensiero non si specchia nel movimento. Questo fatto, questo 
                    pregio vorrei dire, fa sì che l’anarchia non 
                    dipenda esclusivamente dal movimento anarchico.” Un 
                    duro epitaffio per una pietra tombale piazzata con feroce 
                    sicumera. 
                    Codello riduce, di colpo, l’anarchismo ad un’idea 
                    normativa, un noumeno kantiano, un principio astratto. Anzi, 
                    fortunatamente astratto. Astratto da quel movimento 
                    la cui logica “può costituire, in certe sue forme 
                    di chiusura e di autoreferenzialità, addirittura un 
                    limite alla comprensione delle idee anarchiche.” 
                    Ci sono le idee (buone) e il movimento anarchico 
                    (cattivo). 
                    Le prime sono tanto buone da avere una storia 
                    che si dipana nonostante il movimento, il secondo 
                    è tanto cattivo da non essere nemmeno in grado 
                    di bloccare l’autonomo sviluppo di idee che altrimenti 
                    nessuno comprenderebbe né, tanto meno, capirebbe. 
                    La natura squisitamente idealistica di un tale impianto teorico 
                    è palese. 
                  
  Movimento 
                    chiuso e autoreferenziale?
 
                    Movimento 
                    chiuso e autoreferenziale? 
                  Sarà un mio limite ma faccio una gran fatica ad attingere 
                    idee che non siano corpo ed anima, progetto e pratica, tensione 
                    e solido sperimentarsi nelle vite concrete di uomini e donne, 
                    idee che si sottraggono, che vivono di vita propria per potersi 
                    manifestare occultamente in movimenti e stili di vita che 
                    si sviluppano fuori dalla palude putrida del movimento anarchico. 
                    
                    La storia, anche recente, ci fornisce alcuni esempi del tentativo 
                    di impiantare le idee anarchiche al di fuori del movimento. 
                    Tentativi falliti miseramente, poiché le idee, scisse 
                    da un progetto politico volto a realizzarle, non si radicano 
                    o, al più, divengono un fiore all’occhiello per 
                    gente che si prefigge ben altri scopi. 
                    Anni or sono, ai tempi della politica ideologica, dei partiti 
                    di massa e del pentapartito, un tale Bettino Craxi, poi passato 
                    alla cronaca per altre vicende, comprese che la sudditanza 
                    culturale del suo partito, il PSI, nei confronti dell’ingombrante 
                    PCI, era ormai obsoleta, inadatta alle ambizioni di potere 
                    di chi sapeva di essere l’ago della bilancia per la 
                    costituzione di qualsivoglia governo. 
                    Il Bettino nazionale non trovò di meglio che affidare 
                    ad un intellettuale di tutte le corti come Luciano Pellicani 
                    il compito di rinverdire l’immagine del suo partito. 
                    
                    Pellicani tirò fuori dal cappello il vecchio Proudhon, 
                    l’altra tradizione, quella perdente, dimenticata, 
                    seppellita, vilipesa. Come sia andata a finire è storia 
                    nota. E il peggio non sono certo le lussuose sabbie di Hammamet 
                    ma i 10 anni che hanno spianato la strada, politicamente e 
                    culturalmente, al berlusconismo. Ma questa è una storia 
                    dalla quale, il buon Codello che ben la conosce, non pare 
                    aver tratto alcun insegnamento. 
                    Le idee anarchiche sono come le piante: hanno bisogno di terra 
                    e di acqua e di sole per impiantarsi e crescere, hanno bisogno 
                    della terra, dell’acqua e del sole del movimento anarchico, 
                    ossia di quegli uomini e di quelle donne che di questa farina 
                    voglion fare pagnotte. Chi ritiene che il movimento abbia 
                    dei limiti fa bene a segnalarli, ma non può credere 
                    che per superare tali limiti si possa buttar via il bambino 
                    con l’acqua sporca, perché si finisce con il 
                    ritrovarsi in mano una bacinella vuota. 
                    Dopo la fine del marxismo la voglia di attingere all’anarchismo 
                    per costruire percorsi di liberazione è cresciuta e 
                    certo è all’origine della renaissance che il 
                    nostro movimento, in tutte le sue componenti, ha conosciuto 
                    negli ultimi 10-15 anni. È anche successo che i post-autonomi, 
                    orfani del comunismo, abbiano tentato un’operazione 
                    analoga a quella effettuata da Craxi un decennio prima, tentando 
                    di accreditarsi come gli eredi più autentici della 
                    tradizione anarchica. Il chiaro fallimento anche di questo 
                    tentativo, incagliatosi nelle secche di una pratica intrinsecamente 
                    autoritaria e riformista, ci dimostra che non si può 
                    puntare all’anarchia senza essere anarchici, senza essere 
                    movimento anarchico. In generale molti movimenti di carattere 
                    emancipativo hanno tensioni e modalità organizzative 
                    di segno libertario, che sarebbe stolto ignorare, nondimeno 
                    la spinta libertaria tende ad esaurirsi con il passare del 
                    tempo. Quando i movimenti passano dalla fase aurorale, caratterizzata 
                    da una vasta partecipazione spontanea che li preserva dall’insorgere 
                    di leadership autoritarie sia di segno burocratico che carismatico, 
                    in nome dell’efficienza e della continuità 
                    si affermano modalità organizzative e contenuti politici 
                    rispettivamente di segno neodemocratico e riformista. Di solito 
                    la tappa successiva è l’esaurirsi dei movimenti 
                    cui talora si accompagna la definitiva istituzionalizzazione 
                    del ceto politico residuale. 
                    Il solo antidoto a me noto, che consente ai movimenti di oltrepassare 
                    lo statu nascenti mantenendo, pur nel fisiologico ripiegarsi 
                    successivo al momento iniziale, una forma libertaria è 
                    la presenza di individui e gruppi che abbiano la libertà 
                    nel loro DNA politico. Parlo degli anarchici, è ovvio. 
                    I soli che, per fare un esempio, ritengano che efficienza 
                    e continuità si debbano e si possano dare 
                    attraverso un’organizzazione di tipo libertario. L’organizzazione 
                    come strumento per potenziare e non elidere la libertà 
                    è uno delle sperimentazioni più riuscite del 
                    movimento anarchico. 
                    Quel movimento che Francesco Codello sommariamente bolla come 
                    chiuso ed autoreferenziale. 
                    Egli suggerisce che si debba rinunciare al proselitismo, come 
                    condizione alla comprensibilità della propria opzione 
                    teorica. Un’affermazione del tutto oscura poiché 
                    la logica del prima e del dopo suggerirebbe 
                    che uno prima comprenda un’idea e poi, se ritiene 
                    di farla propria, possa decidere di aderire, impegnandosi 
                    in prima persona, ad un movimento. 
                    Il Nostro è a tal punto convinto dell’immediata 
                    efficacia dei propri argomenti da non dover sottostare all’onere 
                    della prova. 
                    Come diceva una vecchia pubblicità: basta la parola! 
                    Vale la pena di rammentare i termini con cui dimostra 
                    che il movimento anarchico rende impossibile la comprensione 
                    delle idee per “la superiorità della supponenza, 
                    la fede messianica e l’ostentazione esibizionistica 
                    della propria presunta verità. La stessa diversità, 
                    valore irrinunciabile, diventa violenza quando ha come presupposto 
                    la dogmaticità del pensiero e come tale allontana le 
                    sensibilità più sincere e profonde.”. 
                    
                    Amen, verrebbe da dire… peccato che questa non sia una 
                    messa! 
                    Con tutti i suoi limiti, e sono certamente tanti, quello della 
                    dogmatica affermazione di una presunta verità 
                    e la professione di una fede messianica mi pare il 
                    meno presente tra gli anarchici. Il concetto stesso di “verità” 
                    cozza con la prassi di un movimento, dove ben viva è 
                    l’attitudine critica verso qualunque descrizione del 
                    mondo alluda alla dimensione dell’autenticità. 
                    Il relativismo gnoseologico come precondizione all’universalismo 
                    etico è elemento cardine, comune a (quasi) tutte le 
                    tendenze storiche e attuali. Come si concilierebbe la tensione 
                    ad un’organizzazione sociale libera e libertaria con 
                    l’irrigidimento connesso con qualunque immagine del 
                    mondo si pretenda vera? Verità ed autoritarismo vanno 
                    a braccetto: ogni volta che qualcuno si pretende depositario 
                    della verità cercherà di imporla in ogni modo, 
                    poiché la verità si fa principio etico e politico 
                    e sociale ed al vero si affianca il buono, il giusto e, non 
                    di rado, il bello. 
                    In quanto al messianesimo immagino sia inutile ricordare che 
                    l’anarchismo nelle sue varie componenti è costitutivamente 
                    alieno a qualunque filosofia della storia, a qualsivoglia 
                    aspettativa di palingenesi universale. Per gli anarchici la 
                    rottura rivoluzionaria è condizione all’aprirsi 
                    della possibilità di un mondo di liberi ed eguali ma 
                    l’evento apre la porta non costruisce l’edificio, 
                    e tantomeno dice esattamente di quale edificio si tratti. 
                  
                   
 
                  
                    Inevitabilmente 
                    autoritari?
 
                    Inevitabilmente 
                    autoritari? 
                  Ma procediamo. Decisamente rozza la divisione tra chi, nel 
                    movimento anarchico, ha preteso di annullarsi nei movimenti 
                    (l’anarchismo tedesco) e chi invece ha preteso di sovradeterminarli 
                    (anarchismo faista e cenetista spagnolo). 
                    Codello dichiara non esistito il movimento tedesco ma evidentemente 
                    ignora che la FAUD (sindacato anarcosindacalista) è 
                    arrivata a contare 200.000 iscritti: niente male per un movimento 
                    (quasi) inesistente! In quanto alla CNT spagnola non lo sfiora 
                    nemmeno il dubbio che, ben lungi dal sovrapporsi ai movimenti, 
                    ne sia stata essa stessa il cuore pulsante. 
                    Nello schema di Codello da un lato c’è il movimento 
                    specifico, in bilico tra l’aborto e il malato terminale, 
                    dall’altro ci sono i movimenti, vivi, vitali, vivaci, 
                    anarchici naturali, anarchici senza il movimento anarchico 
                    o, meglio, anarchici nonostante il movimento anarchico. 
                    Un movimento intrinsecamente autoritario perché pretende 
                    di fare progetti, di darsi forme organizzative (libertarie 
                    e non gerarchiche, per carità), un movimento che vuole, 
                    tracotanza invereconda, esistere come tale, giocare la carta 
                    della libertà su un terreno minato ma ineludibile quale 
                    è quello della politica. 
                    La scena pubblica nella quale non si può stare perché 
                    l’atto stesso di costituire un gruppo anarchico è 
                    foriero di sviluppi autoritari, riproponendo l’opposizione 
                    tra “teoria e prassi”. 
                    Tuttavia Codello non teorizza una sorta di dissoluzione delle 
                    forme attuali del movimento nella molteplicità dei 
                    movimenti ma un inveramento e rafforzamento dell’idea 
                    e dell’identità anarchica in qualcosa che non 
                    è movimento perché è comunità, 
                    una comunità che si riconosce nella prassi ma non si 
                    fa progetto politico, bollato come intrinsecamente autoritario. 
                    
                    Nell’affermare il fallimento dei tentativi di portare 
                    a sintesi unica il pensiero anarchico(chi, quando?) il Nostro 
                    afferma che: “non vi può essere sintesi ma solo 
                    continuo sviluppo dialogico tra rivoluzione e conservazione, 
                    tra relativismo e universalismo, tra progressione e resistenza, 
                    tra autorità e libertà.” La storia non 
                    ha epiloghi ma vive nella continua tensione tra bene e male. 
                    In questa parte dell’articolo Codello perviene trionfalmente 
                    allo Zoroastrismo? Non direi. La spiegazione come spesso accade 
                    è più banale e si può riassumere in una 
                    ricetta di pochi ingredienti sapientemente mescolati. 
                    Vediamo quali. Prima di tutto il famigerato movimento anarchico, 
                    che è autoritario solo perché pretende di esistere 
                    e di avere un’identità forte, riservata nell’ontologia 
                    codelliana, solo alla comunità (dis-organica?) degli 
                    anarchici. Ma non solo: questo movimento ha l’idea balzana 
                    di voler agire per cambiare radicalmente un assetto sociale 
                    ingiusto ed autoritario e, quindi, movendosi nel terreno arido 
                    della politica, dell’essere di parte, di nuovo cade 
                    nell’autoritarismo, è attraversato da tensioni 
                    messianiche e, quindi, desideroso di “costruire il migliore 
                    dei mondi possibili”. Questi elementi, in parte presenti 
                    in certa vulgata ottocentesca del movimento, divengono presto 
                    privi di qualunque appeal. Basta pensare all’ansia progettuale 
                    di un Malatesta, alla sua caparbietà nel sostenere 
                    che l’evento rivoluzionario, la rottura dell’ordine, 
                    è nulla se scisso dalla capacità di prefigurare 
                    e costruire una assetto sociale libertario. 
                    Tra 
                    libertà e autorità
 
                    Tra 
                    libertà e autorità 
                  Fatto fuori l’ingombrante fardello del movimento anarchico 
                    e la sua pretesa di fare la rivoluzione, Codello può 
                    finalmente collocare l’anarchismo nel tiro alla fune, 
                    irrisolto ed irrisolvibile (pena lo scadere nell’autoritarismo) 
                    tra libertà ed autorità. La prassi anarchica 
                    tira da una parte, rendendo così il mondo migliore, 
                    consapevole di dover sopportare i necessari contraccolpi. 
                    È il dialogo, la logica dell’attraversamento, 
                    del mantenimento della tensione irresolubile tra gli opposti. 
                    O, in altre parole, la rinuncia, in nome dell’anarchia, 
                    all’anarchia, a quella che un altro teorico della separazione 
                    ed opposizione tra anarchismo e movimento, ha definito un’idea 
                    esagerata di libertà. Troppo esagerata per un palato 
                    raffinato come quello di Codello, tanto esagerata che per 
                    negarne il fascino, la tensione progettuale e finanche la 
                    storia, non trova di meglio che rovesciarla nel suo opposto. 
                    
                    Un’operazione storicamente infondata e teoricamente 
                    debole, debolissima, tanto debole che pur insistendo a iosa 
                    sulla necessità di un’identità forte, 
                    non fa che riproporre la tecnica di ogni pensiero debole: 
                    la dissoluzione del soggetto. 
                    Viene spontaneo domandarsi come la comunità che sperimenta 
                    l’anarchia si regoli nei confronti del potere politico. 
                    E il potere, se nessuno si prende la briga di farlo fuori, 
                    godrà certo di buona salute, infastidendo i propri 
                    sudditi. Chi sa mai perché quello della politica non 
                    possa divenire terreno, anch’esso, di sperimentazione, 
                    luogo in cui si cerca la sintesi, ossia la mediazione tra 
                    uguali rispetto ad opzioni differenti? Il terreno in cui gli 
                    anarchici e tutti coloro che, anche solo per lo spazio di 
                    una lotta, si riconoscono come padroni del proprio destino, 
                    tentano un vivere associato senza gerarchie, federalista ed 
                    egualitario. 
                    Nella concretezza della vita il dialogo tra opposti porta, 
                    necessariamente, all’affermazione del più forte 
                    non all’empasse libertaria immaginata da chi pensa di 
                    non sporcarsi le mani con la lotta, con le differenze che 
                    non sempre sono buone, con chi uccide, opprime, discrimina, 
                    sfrutta, massacra. Con questo mondo. Un mondo fatto di carne 
                    e sangue, mica il paese dei puffi. 
                    Un mondo dove l’essere di parte, partigiani, è 
                    una necessità, mica una vergogna. 
                    L’argomentare di Codello si smarrisce proprio lì 
                    dove vorrebbe ancorarsi: l’ipotesi di un movimento debole 
                    per dar corpo a idee forti, il sogno della pervasività 
                    libertaria si dilegua nell’atto stesso di essere "enunciato", 
                    un’enunciazione che dice chiaramente che questo pensiero 
                    "forte" si "incarna" al di là della 
                    storia e della memoria e (soprattutto) del presente attivo 
                    degli anarchici, in "altro". Un altro che, per mantenersi 
                    puro, si astiene dall’infastidire chi, ogni giorno, 
                    pretende di decidere per noi. Il suo nome è Stato e 
                    noi, piaccia o meno a Francesco Codello, esistiamo per calpestare 
                    i re e i tiranni. L’espressione è desueta? Indubbiamente. 
                    Mi piacerebbe, un giorno, che chi abita questo mondo dovesse 
                    studiarla a scuola come ricordo di “infame passato”. 
                    Perché mai accontentarsi di meno, di “deboli 
                    realtà”, quando si può avere di meglio? 
                    Formula garantita? Attesa messianica? No. Solo la consapevolezza 
                    che questo mondo è a nostra immagine e dipende solo 
                    da noi rifletterne un’altra. Se dio non esiste tutto 
                    è possibile. Anche l’anarchia.