Trovo stucchevole 
                    e francamente inutile appassionarsi al dilemma se l’epoca 
                    contemporanea privilegi l’economico sul politico o viceversa: 
                    penso sostanzialmente che siano gli assi portanti, ambedue 
                    indispensabili, perché possano dispiegarsi le logiche 
                    e la prassi di assetti sociali che, per amore o per forza, 
                    soggiacciono alle leggi del mercato e della democrazia rappresentativa. 
                    
                    Se non ci fosse uno Stato ad approntare l’apparato normativo 
                    perché l’economia capitalistica possa congruamente 
                    dispiegarsi non si andrebbe molto lontano, in termini di redistribuzione 
                    delle risorse, di sicurezza nelle transazioni e di ordine 
                    pubblico; analogamente il sistema produttivo e finanziario 
                    dell’economia di mercato garantisce allo Stato le risorse 
                    necessarie alla sua sopravvivenza. 
                    Il trasferimento a istituzioni internazionali di poteri normativi 
                    che erano sino a qualche decennio fa appannaggio dei singoli 
                    Stati, non significa che questi ultimi abbiano perduto la 
                    loro presa sul territorio presidiato: significa soltanto che 
                    l’accelerazione dei processi di globalizzazione non 
                    consente più eccessive frammentazioni negli assetti 
                    giuridico-amministrativi delle singole aree d’influenza, 
                    e, soprattutto, non ammette margini di flessibilità 
                    alla liberalizzazione dei mercati dei capitali dei beni e 
                    dei servizi. 
                    Arriviamo, così, all’ultima stazione del Calvario: 
                    la globalizzazione o, per meglio dire, la mondializzazione 
                    dei problemi dell’Occidente. 
                    Nell’articolo precedente, 
                    apparso sul n. 308 di “A”, mi ero astenuto dal 
                    trattare l’aspetto specificamente economico della democrazia 
                    matura. Non era, ovviamente, un voler esorcizzare il problema: 
                    si trattava piuttosto di voler analizzare in primo luogo la 
                    funzione della politica e le sue (in)capacità di rispondere 
                    concretamente alle naturali esigenze dei popoli di riacquistare 
                    l’arbitrio dei propri destini 
                    Adesso, però, non posso spingere oltre questa reticenza 
                    anche perché, nel tentativo di guidare una dinamica 
                    economica e di rapporti internazionali assai complessa come 
                    quella posta dalla globalizzazione, la politica – quella 
                    “alta”, quella che si interroga costantemente 
                    sulla sua funzione – è apparsa frammentaria, 
                    balbettante, spesso inconsapevole delle conseguenze derivanti 
                    dalla messa un moto di una macchina tanto complicata e contraddittoria 
                    quale è quella che pretende di regolare l’economia 
                    mondiale. 
                    Poche ma essenziali notizie su quelle istituzioni che, per 
                    prime, hanno travalicato le logiche particolaristiche degli 
                    Stati nazionali e hanno volto il loro sguardo su aree assai 
                    più vaste. 
                    Parliamo naturalmente della Banca mondiale (BM) e del Fondo 
                    Monetario Internazionale (FMI), ambedue nati a Breton Wood 
                    (USA) nel 1944 con l’obiettivo: a) di normalizzare nei 
                    limiti del possibile la circolazione e la convertibilità 
                    monetarie internazionali, impedendo o arginando oscillazioni 
                    rovinose in un panorama di macerie provocate dal secondo conflitto 
                    mondiale (che, peraltro, non si era ancora del tutto concluso); 
                    b) di affrontare organicamente il gigantesco problema degli 
                    aiuti ai Paesi in difficoltà, in particolare i Paesi 
                    europei che avevano in prospettiva il grande problema della 
                    ricostruzione. 
                    Un rapido sguardo alla loro composizione interna e alle modalità 
                    del loro funzionamento. 
                    Abbiamo detto che sia la BM che il FMI sono nati ambedue nel 
                    1944 e vi aderirono subito 44 Paesi. Ecco nel dettaglio. 
                    Banca Mondiale
 
                    Banca Mondiale 
                  Esaurito il compito originario di finanziare la ricostruzione 
                    europea, la Banca si assunse l’onere di finanziare progetti 
                    di sviluppo per i popoli più poveri del pianeta. È 
                    costituita da due strutture principali: l’IBRD (International 
                    Bank for Reconstruction and Development) e l’IDA (International 
                    Development Association). 
                    Vi sono poi dei gruppi autonomi che hanno compiti specifici: 
                    la IFC, che finanzia investimenti privati nei paesi in via 
                    di sviluppo; l’ICSD (International Center for Settlement 
                    of Investiment Disputes) organismo di conciliazione tra gli 
                    investitori e i paesi beneficiari; la MIGA (Multilateral Guarantee 
                    Agency) che garantisce gli investitori esteri dai rischi non 
                    commerciali. L’IBRD finanzia progetti destinati a Paesi 
                    con un Prodotto interno lordo pro capite superiore a 1.305 
                    $ annuo con rientri previsti tra i 2 e i 5 anni. 
                    L’IDA, invece, presta denaro a più lunga scadenza 
                    (12-15 anni) e senza interessi a Paesi che hanno un PIL pro 
                    capite inferiore. Oggi i Paesi aderenti alla BM sono oltre 
                    180. 
                    La IBRD si finanzia prevalentemente attraverso l’emissione 
                    di obbligazioni garantite dai governi membri. 
                    L’IDA è finanziata da sovvenzioni dei paesi aderenti. 
                    
                    In teoria, a guidare la BM sono i ministri delle finanze di 
                    tutti i paesi membri, che si riuniscono di norma una volta 
                    l’anno. La conduzione concreta “sul campo” 
                    è però affidata a 24 Executive Directors che 
                    rappresentano le differenti quote di partecipazione al capitale 
                    complessivo. 
                    Così Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Stati 
                    Uniti hanno un Director Executive per ciascuno, mentre tutti 
                    gli altri membri sono rappresentati dai rimanenti 19 Executive 
                    Directors, ciascuno dei quali è chiamato a rispondere 
                    del proprio operato ad un certo numero di Stati. 
                    La sede centrale della BM è a Washington e, per tradizione, 
                    il suo Presidente è nominato dagli Stati Uniti. George 
                    Bush ha onorato il suo impegno designando alla carica (in 
                    scadenza il prossimo 31 maggio) il n. 2 del Pentagono Paul 
                    Wolfowitz, una garanzia per gli affari più o meno leciti 
                    dell’amministrazione e delle multinazionali americane. 
                  
                  
                    Fondo Monetario Internazionale
 
                    Fondo Monetario Internazionale 
                  Lo scopo principale del FMI non è quello di offrire 
                    prestiti, ma di supervisionare le politiche monetarie dei 
                    Paesi aderenti (attualmente 183, se non vado errato) e di 
                    far rispettare il codice di condotta stabilito dal suo Statuto, 
                    che, in estrema sintesi, indica nella stabilità monetaria 
                    la premessa necessaria a qualsiasi politica di sviluppo. 
                    Il FMI si finanzia sia con la vendita di obbligazioni a governi, 
                    banche, fondi pensioni e assicurativi, sia con le sovvenzioni 
                    a fondo perduto dei Paesi aderenti. 
                    Il potere di voto è proporzionale alle sovvenzioni 
                    di ciascuno Stato, talché i dieci Paesi più 
                    ricchi del mondo (USA, Germania, Giappone, Regno Unito, Francia, 
                    Italia, Canada, Belgio e Paesi Bassi) possiedono oltre il 
                    52% del potere decisionale del Fondo. L’assistenza del 
                    FMI ai paesi che la sollecitano è accordata esclusivamente 
                    se si accettano le filosofie dei PAS (Piani di Aggiustamento 
                    Strutturale), nati a seguito della crisi del Messico del 1982. 
                    
                    In estrema sintesi, essi prevedono la drastica riduzione delle 
                    spese sociali (sanità e istruzione), privatizzazione 
                    delle imprese pubbliche ed eliminazione di ogni intervento 
                    assistenziale: svalutazione della moneta locale, innalzamento 
                    dei tassi di interesse (in modo da favorire l’afflusso 
                    di capitali esteri), eliminazione di ogni limite alla libera 
                    circolazione dei capitali, eliminazione di ogni ostacolo al 
                    libero flusso di prodotti e servizi che provengano dall’estero. 
                    Questa sorta di capitolato ha provocato effetti devastanti 
                    nelle aree investite dal ciclone FMI, come vedremo in seguito. 
                    
                    La guida del FMI è affidata ad un Comitato (Interim 
                    Commitee), che si riunisce una volta l’anno ed è 
                    composto dai ministri delle finanze o dai governatori delle 
                    banche centrali dei paesi membri. Come per la BM, però, 
                    i poteri gestionali sono affidati a 24 Executive Directors, 
                    dei quali otto rappresentano singole nazioni (Cina, Francia, 
                    Germania, Russia, Arabia Saudita, USA, Inghilterra e Giappone). 
                    I rimanenti 16 ED rappresentano tutti gli altri Paesi aderenti. 
                    
                    L’insorgere di un’ulteriore crisi messicana nel 
                    1993 indusse l’amministrazione Clinton ad intervenire 
                    per salvaguardare gli interessi degli investitori esteri (in 
                    prevalenza americani), che infatti furono rimborsati delle 
                    perdite senza che tali perdite andassero ad aggravare l’emergenza 
                    del Paese in difficoltà, anzi consentendo un’accelerazione 
                    dei flussi commerciali che favorirono la ripresa. Il rischio 
                    di destabilizzazione dell’area connesso alla crisi messicana, 
                    convinse Clinton che si dovesse procedere ad un accordo che 
                    regolasse i flussi di capitali, merci e servizi del continente 
                    nordamericano. Nacque così il NAFTA, un accordo sottoscritto 
                    dagli USA, dal Messico e dal Canada. I benefici (veri o presunti) 
                    di questo accordo, convinsero le maggiori istituzioni internazionali 
                    (principalmente FMI/Tesoro degli Stati Uniti e Banca mondiale) 
                    ad istituire un organismo che si occupasse di regolare il 
                    commercio internazionale. 
                    Prende corpo, così il 
                  World Trade Organizzation (WTO) 
                    (Organizzazione mondiale del commercio) 
                  In realtà, più che il NAFTA, il WTO ha come 
                    antenato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), 
                    sorto nel 1947 per la regolamentazione delle tariffe e del 
                    commercio internazionale. Gli accordi che i paesi aderenti 
                    sottoscrivono riguardano lo scambio di merci, servizi e proprietà 
                    intellettuali, fissano principi generali di liberalizzazione 
                    dei mercati e di eliminazioni di barriere doganali e di altri 
                    ostacoli agli scambi. 
                    Al suo interno operano uffici che presiedono alla composizione 
                    di conflitti tra gli operatori e a dirimere dispute legali. 
                    Il WTO si articola in una Conferenza Ministeriale, che deve 
                    riunirsi almeno due volte l’anno; un Consiglio Generale, 
                    che delega importanti funzioni a tre distinti organi: il Consiglio 
                    per il Commercio dei beni, il Consiglio per il Commercio nel 
                    settore dei servizi e il Consiglio per le proprietà 
                    intellettuali. La sede principale è a Ginevra. 
                  Anche se si è sintetizzato al massimo sui tre principali 
                    organismi preposti alla globalizzazione, appare chiaro come, 
                    soprattutto la BM e il FMI, siano strumenti in mano alla minoranza 
                    più ricca e progredita del Pianeta. 
                    La loro funzione è quella di veicolare ed imporre le 
                    parole d’ordine del capitalismo maturo, anche se, per 
                    non apparire impresentabili, si travestono da soccorritori 
                    dei derelitti. Nella realtà dei fatti, le loro finalità 
                    si possono riassumere nel tentativo di “esportare” 
                    il modello di sviluppo capitalistico o, meglio – come 
                    abbiamo già detto – di mondializzare dinamiche 
                    economiche che sono proprie del capitalismo a stelle e strisce. 
                    Un disegno miope, che, nell’istanza egoistica di far 
                    pagare al resto del mondo il prezzo del benessere americano 
                    (in primo luogo, ma del modello economico nel suo complesso) 
                    non ha tenuto conto del fatto che le crisi innescate in aree 
                    anche lontane da interventi improvvidi, che corrodono tessuti 
                    sociali ed economie locali, con vocazioni di sviluppo diverse 
                    da quelle imposte dai presunti soccorritori di turno (BM o 
                    FMI), finiranno inevitabilmente per ritorcersi sull’intero 
                    contesto globalizzato. La crisi americana della fine degli 
                    anni Novanta fu la conseguenza diretta della bolla speculativa 
                    che desertificò il Sud Est asiatico. 
                    Proverò ad esemplificare i motivi di insuccesso di 
                    alcune dinamiche, di matrice spiccatamente ideologica, innescate 
                    dalla BM e dal FMI quando si propongono come soccorritori 
                    di Paesi in via di sviluppo che versano in difficoltà. 
                  
                    Liberalizzazione del mercato dei 
                    capitali
 
                    Liberalizzazione del mercato dei 
                    capitali 
                  I Paesi emergenti, quelli che tra mille difficoltà 
                    tentano di ridurre il gap che li penalizza rispetto alle economie 
                    forti, sono alla ricerca costante di capitali che possano 
                    finanziarne lo sviluppo. 
                    Ma i capitali vanno remunerati, talché è necessario 
                    attuare politiche dei tassi che siano vantaggiose per gli 
                    investitori. Non sempre è possibile, per i governi 
                    locali, bilanciare la crescita dei tassi con misure che non 
                    alterino gli equilibri economici complessivi. 
                    Con l’apertura delle frontiere ai capitali esteri, senza 
                    il necessario controllo sulla loro qualità, di solito 
                    affluiscono nell’area masse di denaro che solo in minima 
                    parte possono essere impiegate per alimentare la crescita 
                    reale, con interventi, cioè, in attività produttive, 
                    in infrastrutture e così via: la parte più consistente 
                    e distruttiva è costituita da capitali vaganti, speculativi, 
                    che inquinano il contesto e, sollecitando euforie ingiustificate, 
                    inducono a comportamenti e a scommesse sul futuro del tutto 
                    ingiustificati. 
                    Ad un momento dato, per l’impossibilità del sistema 
                    interno di sostenere a lungo una crescita drogata o, assai 
                    più spesso, per incontrollabili spinte emotive (la 
                    sensazione che lo Stato non sia in grado di garantire gli 
                    investimenti effettuati), improvvisamente come sono affluiti, 
                    tali capitali se ne ritornano nei paradisi fiscali dai quali 
                    in prevalenza sono partiti. 
                    Lo scenario che si lasciano alle spalle è desolante: 
                    una molteplicità di imprese falliscono non avendo potuto 
                    completare, per l’improvviso rarefarsi delle risorse, 
                    il ciclo del loro consolidamento; si inaridisce il circuito 
                    creditizio, si verifica una drastica riduzione dei consumi, 
                    si ha una crescita esponenziale del debito pubblico e crollano 
                    i valori della Borsa. È a questo punto, di norma, che 
                    interviene il FMI, il quale condiziona il suo aiuto all’attuazione 
                    della sua ricetta: una politica fiscale restrittiva, tagli 
                    alle spese sociali, e, soprattutto, privatizzazioni, che consistono 
                    nella svendita del patrimonio pubblico e nell’apertura 
                    dei canali attraverso i quali le multinazionali si impossessano 
                    dei settori strategici per la crescita del Paese. 
                    Liberalizzazione dei mercati di 
                    beni e servizi
 
                    Liberalizzazione dei mercati di 
                    beni e servizi 
                  Questo della liberalizzazione del mercato di beni e servizi 
                    è di fatto il tracciato attraverso il quale si realizza 
                    una nuova forma di colonizzazione. La parola d’ordine 
                    iniziale è “esportare”, in modo che si 
                    possano recuperare risorse per garantire gli investimenti. 
                    Ma, quasi sempre, l’apparato produttivo locale è 
                    debole, sia per tecnologie antiquate sia per il livello di 
                    professionalità degli addetti. C’è poi 
                    la concorrenza nei mercati esteri che non è tenera. 
                    
                    Si punta tutto allora sul costo del lavoro e sulla riduzione 
                    delle garanzie dei lavoratori, i quali sono obbligati a lavorare 
                    di più per salari di fame, senza peraltro poter contare 
                    su servizi sociali efficienti, ridotti o addirittura annullati 
                    dall’esigenza, imposta, di dover ridurre le spese. Ma 
                    il fattore che mina la stessa indipendenza e sovranità 
                    del Paese soccorso è la liberalizzazione del mercato 
                    dei servizi, che include i servizi finanziari e lo sfruttamento 
                    delle risorse autoctone. Attraverso questa magica parola: 
                    “liberalizzazione” si apre la strada all’intervento 
                    predatorio delle multinazionali. Si comincia con i servizi 
                    finanziari. 
                    Le banche d’affari, attratte dalla possibilità 
                    di conquistare nuove aree operative, tendono ad assorbire 
                    le banche locali per controllare l’esercizio del credito 
                    a loro beneficio. È così che l’area viene 
                    privata di quelle risorse di cui un paese in via di sviluppo 
                    ha bisogno, cioè di un credito mirato ad allargare 
                    la base produttiva indigena che ha caratteristiche e dimensioni 
                    proprie e che, quindi, deve poter contare su un credito elargito 
                    tenendo conto delle specificità delle imprese da beneficiare. 
                    
                    Le multinazionali del credito hanno obbiettivi completamente 
                    diversi e finiscono con il privilegiare i clienti ricchi (altre 
                    multinazionali), che garantiscono ritorni sicuri e maggiori 
                    possibilità di controllo del territorio. 
                    Ma il settore del credito non è il solo ad essere colonizzato. 
                    Per lo stesso canale della liberalizzazione e delle privatizzazioni 
                    transitano le grandi imprese (quasi sempre americane) che 
                    mirano allo sfruttamento delle risorse locali (miniere, giacimenti 
                    petroliferi e altre fonti energetiche eventualmente presenti 
                    nel territorio). 
                    Essendo questi settori vitali per la crescita, è inevitabile 
                    che l’intera vita politica e sociale della nazione “soccorsa” 
                    ne resti condizionata. 
                    Infine il problema della moneta. L’imposizione di una 
                    svalutazione della moneta, necessaria per favorire le esportazioni 
                    e l’applicazione di alti tassi di interesse per remunerare 
                    adeguatamente i capitali che affluiscono, finiscono con innescare 
                    processi inflattivi che gravano come nuove tasse sulle spalle 
                    dei cittadini i quali vedono le loro condizioni di vita peggiorare. 
                    
                    Alcuni esempi dei “salvifici” interventi del FMI 
                    e della BM. 
                    Riduzione di PIL e salari
 
                    Riduzione di PIL e salari 
                  Il Costa d’Avorio ha iniziato il proprio rapporto con 
                    il FMI nel 1989, rapporto che si è articolato in più 
                    interventi sino al 1994. In questo periodo, la ricetta del 
                    FMI, da accogliere per ottenere gli aiuti, ha ottenuto questi 
                    risultati: il PIL è sceso del 15%; la popolazione che 
                    viveva con 1$ al giorno (o meno), che era il 17,8% del totale, 
                    raggiunse il 36,8%. 
                    Nel 1991 lo Zimbawe ottenne un finanziamento di 484 milioni 
                    di dollari. Ebbene, le condizioni imposte di liberalizzazione 
                    dei settori produttivi e la contrazione della spesa pubblica 
                    e di quella sociale portarono ad una riduzione del 5,8 % del 
                    PIL, e la contrazione dell’occupazione nel manifatturiero 
                    del 9%, con una riduzione media dei salari del 26 %. 
                    Ma gli effetti più disastrosi la politica congiunta 
                    del FMI e della BM li provocarono nell’intervenire pesantemente 
                    nella crisi dell’Est asiatico del 1997/98. Iniziò 
                    l’Indonesia, alla quale si imposero, tra le altre, misure 
                    drastiche di contenimento della spesa sociale. Si dovettero 
                    così tagliare i fondi di sussistenza destinati ai poveri. 
                    
                    Nel maggio del ‘97 scoppiò la rivolta e da allora 
                    il paese vive periodi di gravi difficoltà perché 
                    le condizioni poste dal FMI, lungi dall’incentivare 
                    afflussi di capitali, ne provocarono il deflusso con effetti 
                    disastrosi per tutta l’economia (il 75% delle imprese 
                    fallirono). Analogamente in Thailandia, in Malaysia, nella 
                    Corea del Sud gli interventi del FMI e della BM provocarono 
                    quella crisi, rimasta proverbiale come crisi del Sud Est asiatico, 
                    le cui conseguenze ebbero ripercussioni pesanti e non soltanto 
                    nell’area direttamente interessata. 
                    Un capitolo a parte meriterebbe la situazione in America Latina, 
                    ma non si può in questa sede allargare il discorso. 
                    Concludiamo questo cahier des doléances con una considerazione 
                    di Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia, 
                    già chief economist della Banca Mondiale ai tempi dell’amministrazione 
                    Clinton: 
                  La perdurante 
                    crisi della finanza internazionale ci fa capire in modo sempre 
                    più chiaro che c’è qualcosa di sbagliato 
                    nel sistema... La ragione, forse, era ovvia: pur non funzionando 
                    in modo ottimale per i mercati emergenti, il sistema serviva 
                    bene gli interessi degli Stati Uniti e, in particolare, delle 
                    loro società finanziarie, e una delle colpe più 
                    gravi dell’amministrazione Clinton è aver fatto 
                    poco o niente per risolvere il problema. (J. E. Stiglitz, 
                    I ruggenti anni Novanta, G. Einaudi Editore, Torino, 
                    2004, pag. 216). 
                  Parole sacrosante ma insufficienti a spiegare un trend che 
                    in quasi cinquant’anni di attività del FMI e 
                    della BM lascia dietro di sé le macerie di 1,2 miliardi 
                    di persone che vivono con meno di 1$ al giorno, 3 miliardi 
                    con al massimo 3$, quasi 3 milioni di bambini che muoiono 
                    all’anno nei paesi in via di sviluppo, 1,5 miliardi 
                    di persone che non accedono all’acqua potabile; per 
                    non parlare della sostanziale indifferenza, non solo delle 
                    istituzioni internazionali, ma dell’intero Occidente 
                    opulento, nei riguardi del flagello dell’AIDS. 
                    No, credo che ridurre il problema a ciò che avrebbe 
                    potuto fare Clinton e non ha fatto o alla sostanziale impotenza 
                    dell’ONU, significa non voler vedere ciò che 
                    è sotto gli occhi di tutti: è il mito del mercato, 
                    costantemente riproposto come equo mediatore tra i bisogni 
                    e le risorse per soddisfarli, a mostrare tutti i suoi limiti. 
                    Intanto la ripartizione della ricchezza è tanto sbilanciata 
                    a vantaggio di una parte esigua di popolazioni (circa 800 
                    milioni di anime contro i rimanenti 5 miliardi che costituiscono 
                    i così detti paesi in via di sviluppo) da impedire 
                    che possa esservi un’economia di mercato globalizzata. 
                    
                    Poi il mercato ha dimostrato di essere, nell’Occidente 
                    industrializzato, un moltiplicatore di grandi aggregazioni 
                    monopolistiche, con la conseguente rarefazione delle piccole 
                    e medie imprese che non riescono a reggere la concorrenza. 
                    
                    È un fenomeno perfettamente percepibile nelle nostre 
                    città, dove la distribuzione dei beni è in mano, 
                    nella gran parte, a multinazionali, le quali, per evitare 
                    la concorrenza e controllare i prezzi, evitano di pestarsi 
                    i piedi tra loro e ricorrono ad accordi che ne moltiplicano 
                    le dimensioni e ne aumentano la capacità di controllo 
                    del territorio. 
                    Attraverso la stessa logica, oggi il controllo delle fonti 
                    energetiche, e dei principali servizi indispensabili per ogni 
                    comunità (prodotti farmaceutici, energia elettrica, 
                    mezzi di trasporto e di comunicazione) sono in mano a multinazionali 
                    che, lungi dal diffondere benessere, aumentano i prezzi dei 
                    prodotti, rendendoli sempre meno raggiungibili da fasce sempre 
                    più consistenti di cittadini; incrementano la povertà 
                    e la disoccupazione; riducono le nostre città a formicai 
                    attraversate da moltitudini disperate che cercano di accedere 
                    comunque a quei consumi di massa che la televisione reclamizza 
                    come alla portata di tutti. 
                    Se questi sono i guasti provocati dal mito del mercato già 
                    all’interno delle comunità ricche, figuriamoci 
                    i danni che provoca in quelle popolazioni derelitte che ai 
                    ricchi si rivolgono per ottenerne l’aiuto. Qui da noi, 
                    in Sicilia, ogni anno vengono distrutte, perché non 
                    trovano mercato, tonnellate e tonnellate di agrumi che sarebbero 
                    il toccasana per i popoli africani più poveri, afflitti 
                    da carenze vitaminiche gravi. Ebbene, le leggi del mercato 
                    impongono la distruzione del prodotto piuttosto che la sua 
                    distribuzione gratuita o il suo trasferimento tra i diseredati 
                    della terra. 
                    Allora un’autocritica, come quella di J.E. Stiglitz 
                    è benvenuta a condizione che non si fermi a metà 
                    del percorso. Il dramma non è in nessun modo riconducibile 
                    all’inadeguatezza dei protagonisti, si chiamino essi 
                    Clinton o Bush padre e figlio, ma alla logica stessa del capitalismo 
                    che, nel suo percorso e nella sua vocazione espansionistica, 
                    infesta popoli e continenti. Come in simile contesto possa 
                    innestarsi un discorso sull’attualità e sull’attuabilità 
                    di percorsi democratici – ammesso e niente affatto concesso 
                    che si tratti di percorsi in qualche modo virtuosi – 
                    è difficile da ipotizzare. L’eguaglianza tra 
                    uomini con differenze così marcate di condizioni di 
                    vita, così lontani nelle capacità decisionali, 
                    così sideralmente distanti nelle possibilità 
                    di realizzare le proprie aspirazioni e di essere arbitri della 
                    propria esistenza, questa eguaglianza proclamata e mai attuata 
                    di una democrazia appena credibile, può essere solo 
                    argomento di una farsa teatrale di infimo ordine. 
                    Allora? 
                    Verso una società libera di eguali
 
                    Verso una società libera di eguali 
                  Una risposta al “che fare” non è facile 
                    e, più che una ricetta pronta da attuare, penso si 
                    debbano immaginare percorsi che non contraddicano gli obiettivi 
                    di una società libera di eguali, quale è quella 
                    che noi anarchici auspichiamo. 
                    In questa direzione, io credo, il Movimento libertario deve 
                    rimeditare in profondità le modalità del suo 
                    intervento e ammettere che tra le grandi idealità che 
                    propugna e i percorsi cosparsi di ostacoli che offre la quotidianità, 
                    esiste uno scarto che non va esorcizzato ma neppure demonizzato. 
                    Bisogna prendere coscienza che, se è vero che una rivoluzione 
                    non è tale se non è la rivolta di tutti gli 
                    uomini, non è altrettanto vero che la nostra capacità 
                    di intervento sia solo di tipo educazionista o, peggio, che 
                    ci si possa promuovere come migliori gestori delle strutture 
                    esistenti e prevalenti. 
                    Dobbiamo dire con chiarezza che noi non soltanto non crediamo 
                    alla democrazia rappresentativa, ma che non intendiamo ereditarne 
                    gli strumenti. Così come non vogliamo uno Stato “diverso”, 
                    ne ripudiamo al contempo tutte le logiche aggregative, nessuna 
                    esclusa. 
                    Dobbiamo proporre una visione nuova del territorio e del suo 
                    autogoverno; dobbiamo progettare forme nuove di tutela di 
                    tutti gli uomini, a prescindere dai ruoli che lo Stato e il 
                    capitale assegnano loro, in una fase della storia in cui sono 
                    scomparsi dalla scena i veri o presunti antagonisti del capitale 
                    (la classe, il movimento dei lavoratori, il sindacato, il 
                    partito rivoluzionario e via dicendo). 
                    Se ci poniamo in quest’ottica e ci organizziamo adeguatamente 
                    per perseguirla, forse siamo ancora in tempo a correggere 
                    una deriva che minaccia di farci approdare in lidi inospitali. 
                  
                   Antonio Cardella
 
                    Antonio Cardella