|  Falco 
                  e falconiere
 Qual è la differenza tra un falco e un falconiere? Da 
                  un punto di vista grammaticale falco è un nome primitivo 
                  e falconiere un nome derivato, nel senso che se non c’è 
                  il primo non esiste il secondo. Inoltre essere falconiere accende la fantasia di tempi antichi, 
                  di nobili solitari e sprezzanti che vagano per i boschi e con 
                  un fischio richiamano il volatile al loro braccio.
 Essere falco vuol dire invece accendere l’occhio rapace 
                  del cacciatore, reso onnipotente dal fucile caricato, e che 
                  spara non per legittima difesa, ma per semplice e dichiarato 
                  “divertimento”. “Go fato caccia!” è 
                  l’esclamazione soddisfatta di fronte al cadavere dell’animale 
                  appena ucciso.
 Così è successo al “mio” falco pellegrino, 
                  abbattuto da una serie di pallini “vaganti” e schiantatosi 
                  nel bosco, tra carpini, castagni e roverelle. Quando l’ho 
                  fotografato si riconosceva chiaramente il becco corto, molto 
                  ricurvo e le dita armate di unghie ben sviluppate, la gola bianca 
                  e la parte inferiore color cenere con sfumature rossicce a macchie 
                  scure. Era “mio” nel senso che l’avevo già 
                  incontrato più volte, l’avevo osservato da lontano 
                  mentre volteggiava lento, si precipitava in picchiata per poi 
                  ritornare a veleggiare in alto. È una specie protetta 
                  abbastanza rara, dal carattere fiero che talvolta nidifica lungo 
                  le coste rocciose dei Berici. Un tempo si trovava anche sulle 
                  pareti del Broion di Lumignano, scacciato poi dall’invadenza 
                  dei rocciatori.
 In questi giorni il Parlamento di questo Paese sta cercando 
                  di proporre una legge oscena per allargare ancora di più 
                  le specie cacciabili (e l’Europa, che dice?), per ampliare 
                  ancora di più il periodo di caccia, in barba ai periodi 
                  di nidificazione (“guai a chi tocca i bambini” dicono 
                  i saggi, riferendosi a tutti i bambini del mondo) e ai periodi 
                  di migrazione (“il viandante è il benvenuto” 
                  dicono i saggi, riferendosi a tutti i viandanti del mondo), 
                  per rendere più vasti i territori dove esercitare la 
                  nobile arte dello “Sparare a vista su qualsiasi cosa si 
                  muova in cielo e in terra”, aprendola anche nei Parchi 
                  e nelle zone protette.
 La contrarietà alla caccia è della quasi totalità 
                  del popolo italiano, ma forze oscure e potenti hanno sempre 
                  più il sopravvento, portando a scelte concrete sempre 
                  più permissive e distruttive della biodiversità 
                  e dell’habitat naturale, già minacciati dai cambiamenti 
                  climatici e dal “progresso” industriale e chimico.
 Di fronte alle dichiarazioni baldanzose di rappresentanti governativi 
                  e di associazioni venatorie ripenso tristemente alla povera 
                  ballerina bianca che correva con un’ala spezzata, incapace 
                  di sollevarsi dal campo arato e destinata a morire per avvelenamento 
                  da piombo, al fringuellino colorato lasciato cadavere lungo 
                  il sentiero in montagna e che ho raccolto tra le mani per deporlo 
                  tra i rami di un grande albero, al mio falco pellegrino abbattuto 
                  a tradimento nel cielo vicino a S. Pancrazio, luogo di spiritualità 
                  violata.
 Elena Barbieri Movimento UNA - Uomo/Natura/Animali
 (Nanto)
    Lettera 
                  aperta al “mio” direttore
 Il “mio” direttore, già una volta, a causa 
                  di un calendario satirico su Berlusconi mi aveva ristretto l’orario 
                  della sala computer e ritirato la stampante e lo scanner. Poi 
                  il “mio” direttore, per fortuna, andò via 
                  e con il nuovo direttore tutto ritornò come prima. Ora 
                  il “mio” direttore è ritornato, nel luogo 
                  del delitto, e alla prima occasione, per avere criticato le 
                  strutture penitenziarie, per tentare di migliorarne la qualità, 
                  mi aveva trattenuto due lettere, (il magistrato di sorveglianza 
                  ne ha ordinato subito l’inoltro), mi ha di nuovo ridotto 
                  l’orario della sala computer/lettura, con il ritiro della 
                  stampante e scanner. Come se questo non bastasse mi ha spostato 
                  l’orario della sala computer con quello del passeggio 
                  e in questa maniera sono ricattato fra studiare o andare all’aria, 
                  ovviamente sto scegliendo di studiare ed è circa un mese 
                  e mezzo che non vado al passeggio. Nonostante che il precedente 
                  direttore mi ha autorizzato, tramite l’articolo 51 del 
                  regolamento di esecuzione, di poter svolgere con il mio computer 
                  attività intellettuali, artigianali ed artistiche il 
                  “mio” direttore mi sta proibendo di stampare poesie, 
                  un bigliettino di auguri per il compleanno di mia figlia, un 
                  disegnino per San Valentino per la mia compagna, immagini creative, 
                  ecc. Come se non bastasse mi ha negato persino di stampare una 
                  istanza al Magistrato di sorveglianza, probabilmente per motivi 
                  di sicurezza… ma che pericolo c’è in un disegno 
                  o in una poesia? Posso solo utilizzare stampante e scanner su 
                  richiesta, tramite censura preventiva e controllato dall’agente 
                  a vista, solo esclusivamente per appunti di studio ogni 15 giorni, 
                  quindi se devo stampare una piccola modifica, anche una semplice 
                  virgola alla tesi che sto elaborando, devo fare la domandina, 
                  aspettare che sia approvata e aspettare ancora che l’agente 
                  sia libero, ecc. Infatti, dal 22 gennaio, quindi circa un mese 
                  e mezzo fa, ho potuto stampare solo tre volte. Ho fatto presente 
                  al “mio” direttore che negli altri istituti (persino 
                  qui nel carcere di Nuoro con altri direttori) queste restrizioni 
                  sulla stampante e scanner non ci sono, lui mi ha risposto “gli 
                  altri direttori sbagliano”, io ovviamente ho risposto 
                  che stava offendendo la maggioranza dei suoi colleghi… 
                  Chi sono: sono Carmelo Musumeci, da molti anni in carcere. Per 
                  dare un senso alla mia vita e alla mia pena ho iniziato a studiare 
                  da autodidatta e così per me studiare ha rappresentato 
                  soffio di vita e di speranza. L’istruzione serve anche 
                  per dare gli strumenti per ragionare, per sapere rispondere 
                  a delle domande ed anche per imparare a porre domande. Dalla 
                  quinta elementare di partenza sono riuscito a diplomarmi e quest’anno 
                  mi laureo in Scienze giuridiche. Partecipo con passione e assiduità 
                  a varie attività per curare i miei interessi umani e 
                  sociali, investo il mio tempo, l’unica cosa che mi è 
                  rimasta, ed energie per migliorare la qualità della mia 
                  esistenza.
 La mia esperienza in questo istituto è l’impotenza, 
                  qui nessuno ha voglia di ascoltarti, a parte alcune persone 
                  dell’area educativa. La legge, il buon senso, la buona 
                  amministrazione è come se fossero aria fritta. Con tutta 
                  la buona volontà, anche inventandosi un trattamento personalizzato, 
                  non è possibile cogliere le opportunità che il 
                  carcere dovrebbe offrire. Spesso il colpevole silenzio e l’ostilità 
                  della direzione su richieste legittime ci mortifica e ci umilia. 
                  In questo istituto non si sconta la sola privazione della libertà, 
                  già di per sé terribilmente brutta, ma si sconta 
                  la reclusione in un ambiente difficile e ostile, angusto e malsano 
                  dove le condizioni igieniche sono terribili (si pensi solo che 
                  bisogna andare in bagno davanti ai propri compagni), dove mancano 
                  educatori, insegnanti, assistenti sociali in numero sufficiente, 
                  dove le strutture sono fatiscenti, la promiscuità è 
                  la regola; i rapporti con l’amministrazione sono difficoltosi 
                  e discrezionali, le opportunità di lavoro sono scarse 
                  per non dire nulle, un ambiente dove non esiste alcun presidio 
                  di tutela dei diritti. In questi tre anni nell’istituto 
                  di Nuoro ho sempre reclamato, lottato spesso da solo ma anche 
                  in compagnia senza mai deformare la realtà per rivendicare 
                  giustizia, diritti e rispetto delle regole e norme penitenziarie 
                  e per superare l’indifferenza e l’illegalità 
                  di questo carcere. Ho lottato per avere la possibilità 
                  per me ed i miei compagni, di vivere realmente in modo civile 
                  e dignitoso per consentirci di mantenere la propria individualità 
                  di esseri coscienti e responsabili. Alle ingiustizie bisogna 
                  ribellarsi soprattutto quando esse vengono inflitte in nome 
                  della giustizia perché il detenuto che non si ribella 
                  è peggio del suo aguzzino. A lungo andare questo comportamento 
                  mi ha creato antipatie ma non importa preferisco essere considerato 
                  “cattivo” che pusillanime, servitore e leccapiedi. 
                  Il cittadino prigioniero è impotente di fronte ad un 
                  direttore che ha sempre ragione se non usa anche la stessa legge 
                  per tentare di correggere le ingiustizie di costui. In carcere 
                  si possono tollerare tante cose ma non la cattiveria gratuita 
                  come di proibire di stampare un fiore una poesia alla propria 
                  figlia, o alla propria compagna che si ama, con il proprio computer 
                  e stampante… è umiliante per il “mio” 
                  direttore non trovare riscontri positivi a richieste cosi semplici. 
                  Inoltre, signor direttore, le sue nuove restrizioni mi rendono 
                  più difficile il mio diritto allo studio. Le sue restrizione 
                  sono cattive, repressive, capziose e per ultimo capricciose. 
                  Signor direttore, mi permetta lei sa solo comandare, vietare 
                  ma non sa ubbidire alle leggi, ai regolamenti e soprattutto 
                  al buon senso. Proibire di stampare un fiore è violare 
                  le regole della logica che costituisce un limite giuridico all’esercizio 
                  di ogni attività discrezionale prive di ogni carattere 
                  di ragionevolezza. La nostra vita è fatta anche di cose 
                  “inutili” senza le quali però la stessa esistenza 
                  non avrebbe senso.
 
  Signor direttore spesso coloro che sono in posizione di autorità 
                  non si curano affatto del bene o del male, da ciò che 
                  è giusto e di ciò che non lo è: la loro 
                  unica preoccupazione è di tiranneggiare i sottoposti. 
                  Spesso in carcere ci si trova dinanzi ad un potere smisurato 
                  e cattivo dove non si può fare nulla per cambiare il 
                  corso delle cose e chi non accetta le regole del potere non 
                  può fare altro che soffrire ma è pur sempre meglio 
                  di non fare nulla… Spesso accade che il detenuto ha ragione 
                  ma ha torto in quanto detenuto ed il custode ha torto ma ha 
                  ragione in quanto aguzzino. Spesso si vuole che il detenuto, 
                  in quanto prigioniero, deve accettare di essere punito ingiustamente, 
                  si vuole che il detenuto sia sempre e soltanto ciò che 
                  il carcere lo farà essere. Spesso al detenuto conviene 
                  non avere mai un pensiero autonomo, conviene essere sempre d’accordo 
                  con il suo carnefice. Invece, spesso, il detenuto ha tanto da 
                  trasmettere e comunicare: si può ed è possibile 
                  reagire all’emarginazione del carcere. In carcere convivono 
                  dolore, prostrazione, fede, abbandono, odio, pentimento, talvolta 
                  brutalità, ma c’è anche un senso infinito 
                  di umanità e dove una vita può anche rinascere… 
                  In carcere non bisogna adattarsi né rassegnarsi perché 
                  sono convinto che più ti adatti alla realtà della 
                  detenzione, alle sue leggi negative, maggiore difficoltà 
                  troverai all’esterno. Lei direttore non capisce, ma sarebbe 
                  meglio dire fa finta di non capire, che protestare pacificamente 
                  e lottare per i propri diritti riconosciuti con il metodo della 
                  non violenza è profondamente giusto e serve, tra l’altro, 
                  a scontare la propria pena migliorando interiormente. Quando 
                  reclami può sembrare terribilmente inutile ma è 
                  terribilmente importante che uno lo faccia, infatti, una cosa 
                  che distingue i detenuti gli uni dagli altri è la forza 
                  di protestare: il detenuto che non reclama perde la sua libertà 
                  proprio nel momento che spera di ottenerla non reclamando. Ricordo al “mio” direttore che il carcere non dovrebbe 
                  essere solo un luogo di punizione, ma dovrebbe anche essere 
                  un’occasione di recupero, dovrebbe rieducare e aiutare 
                  chi ha sbagliato a reinserirsi nella società, invece 
                  il carcere è il luogo dove più di qualsiasi altro 
                  posto non viene rispettata la legge. Ricordo che quando il detenuto 
                  si vede esposto ad una sofferenza che la legge non ha ordinato 
                  e neppure previsto entra in uno stato di collera abituale, e 
                  non crede più di essere stato colpevole ma accusa la 
                  giustizia stessa. Ricordo che rinunciare al diritto e obbligo 
                  a reclamare significa rinunciare alla propria qualità 
                  di uomo e ai propri doveri e non c’è nessun compenso 
                  possibile per chi rinunci a questo. Se si protesta ad alta voce, 
                  anche in modo pacifico, la spiegazione che si dà solitamente 
                  è che il detenuto sia un ribelle, quando va bene, ed 
                  irrecuperabile, quando va male. Non si va a cercare la causa 
                  perché uno protesta ma si condanna la sola protesta Le 
                  ricordo che il rispetto della dignità dei detenuti non 
                  è la debolezza, ma la forza di una istituzione e, tra 
                  l’altro, un dovere preciso di un direttore. Le ricordo 
                  che è terribilmente sbagliato sprecare il carcere solo 
                  per espiare la pena, coniugare controlli, sicurezza, trattamento 
                  ed inserimento non è difficile, invece lei preferisce 
                  vigilare e reprimere, così è molto più 
                  facile che non lavorare per far crescere una coscienza critica 
                  e responsabile del prigioniero. Signor direttore mi permetta 
                  di ricordarle che spesso negare i diritti ai detenuti si viola 
                  sia la logica che il diritto e viene fatto di pensare che spesso 
                  più che rapporti di giustizia, si tratta di rapporti 
                  di forza e questo assicura il dominio, non la giustizia. Con 
                  lei i diritti dei detenuti sono eventuali ed inesigibili mentre 
                  i doveri e le sanzioni sono certe ed inevitabili, lei mi proibisce 
                  di fatto di valorizzare le mie energie, la poca intelligenza 
                  che ho, capacità e disponibilità. Le ricordo che 
                  la differenza tra noi e “le persone per bene” sta 
                  più in ciò che facciamo che in ciò che 
                  siamo. Ma come posso migliorare e fare qualcosa se lei mi tiene 
                  chiuso in cella 21 ore senza fare nulla e 3 ore all’aria 
                  che sembra una voliera? Le ricordo che nella maggioranza dei 
                  casi il detenuto è ciò che apprende dai suoi eventuali 
                  educatori. Le ricordo che spesso i detenuti sono migliori (non 
                  è il caso mio) di chi li governa. Le ingiustizie consumate 
                  all’insaputa di tutti sono più dolorose, bisogna 
                  trasmettere quello che accade in carcere affinché la 
                  gente si accorga delle ingiustizie e possa riconoscere i torti 
                  e sviluppare un sentimento di comune offesa alla dignità 
                  umana. Chissà per quali insondabili e burocratiche cattiverie 
                  lei mi sta facendo questo, tutte le cose insensate in carcere 
                  hanno una logica perversa e stringente. A volte punitiva, altre 
                  semplicemente di assurda burocrazia cioè vessazione, 
                  cattiveria allo stato puro, insomma, sadica burocrazia carceraria. 
                  Viviamo in condizioni illegali di sovraffollamento, ozio forzato, 
                  mancanza di igiene e cure e spazi disponibili, e lei mi proibisce 
                  di stampare una poesia, un cuoricino… Di queste restrizioni 
                  non si capisce il senso visto che non sono motivabili con ragioni 
                  di sicurezza, se non spiegabili in una logica punitiva fine 
                  a se stessa.
 Dottore lei mi appare più prigioniero di me perché 
                  è prigioniero della sua infelicità, tristezza 
                  e cattiveria e mi fa molta pena. Per educazione la saluto e 
                  non scrivo il suo nome per non rischiare di essere denunciato.
 Carmelo Musumeci (Carcere di Nuoro, marzo/2005)
    In 
                  morte di Oupa Diniso
 Ho appreso con sincera commozione della morte improvvisa (marzo 
                  2005) di Oupa Diniso, uno dei “Sei di Sharpeville”. 
                  Sharpeville, città martire, era già nella mente 
                  e nel cuore di chi, anche nella vecchia Europa, colpevole di 
                  tante ingiustizie nei confronti dei popoli di Africa, Asia, 
                  America Latina…(colonialismo, sfruttamento…) si 
                  mobilitava contro il regime dell’apartheid. Manifestando 
                  davanti a consolati e ambasciate e anche contro le fabbriche 
                  di armi e le banche (molte, purtroppo, anche italiane) che rifornivano 
                  e finanziavano il governo razzista, sapevamo di lottare anche 
                  per la nostra libertà e dignità di fronte al dispotismo.
 Negli anni sessanta il massacro di Sharpeville (marzo 1960) 
                  era diventato un richiamo costante, una pietra di paragone di 
                  fronte ad altre stragi del potere contro popolazioni indifese 
                  e inermi. Da “Piazza delle Tre Culture” a Città 
                  del Messico alla “Domenica di sangue” di Derry (chiamata 
                  la “Sharpeville irlandese”); dal massacro operato 
                  dai colonnelli fascisti in Grecia contro gli studenti del “Politecnico” 
                  al “Settembre Nero” del 1970 contro il popolo palestinese…E 
                  intanto dal Sudafrica giungevano fino a noi l’eco di altre 
                  lotte e altre orribili repressioni…I nomi di alcuni militanti 
                  come Steve Biko, Nelson Mandela, Ruth First…e della rivolta 
                  di Soweto (con l’immagine della prima vittima, Hector 
                  Peterson ) in qualche modo sedimentavano anche nella nostra 
                  mente e nel nostro cuore.
 Ma solo negli anni ottanta cominciammo ad assistere ad un consistente 
                  movimento di opposizione all’apartheid in Europa, un movimento 
                  che principalmente denunciava le mille complicità dei 
                  nostri governi, a parole democratici ma ottimi soci in affari 
                  con i razzisti di Botha & C.
 Imparammo a conoscere il nome di tanti altri martiri; Victoria 
                  Mxenge, Benjamin Moloise, i “Tre di Moroka”…In 
                  questo scenario la vicenda dei “Sei di Sharpeville” 
                  divenne emblematica, sia per il nome della città (ricordata 
                  anche nella “Giornata mondiale contro il razzismo”) 
                  che per l’assurda condanna all’impiccagione senza 
                  prove, al solo scopo di punire l’intera comunità 
                  in rivolta contro l’apartheid. La loro salvezza (l’esecuzione 
                  venne sospesa un paio di giorni prima, grazie anche alla mobilitazione 
                  internazionale), anche se non poteva certo risarcire pienamente 
                  i “Sei” delle sofferenze patite in carcere, in qualche 
                  modo lasciava intravedere una possibile fuoriuscita dall’apartheid, 
                  un preludio di quelle prime elezioni democratiche del 1994.
 Rileggendo la storia di quel periodo dal punto di vista dell’Europa, 
                  mi sono ulteriormente reso conto dell’importanza che le 
                  iniziative antiapartheid (manifestazioni, azioni di picchettaggio 
                  e boicottaggio si svolsero un po’ ovunque: da Parigi a 
                  Dublino, da Milano a Bilbao…), hanno avuto nel mantenere 
                  più alto sia il livello di consapevolezza politica e 
                  sociale che la vitalità di movimenti e associazioni democratiche 
                  europee.
 Le iniziative antiapartheid hanno sicuramente rappresentato 
                  in Europa (e in Italia in particolare) uno dei più importanti 
                  momenti di confronto, di scambio di esperienze, di coagulo tra 
                  i “vecchi” militanti degli anni sessanta e settanta 
                  e nuove leve di giovani disposti a impegnarsi contro la guerra, 
                  il razzismo e le ingiustizie planetarie.
 Anche le nuove forme di lotta nate in quegli anni ( boicottaggio 
                  di prodotti derivati dallo sfruttamento, commercio equo e solidale, 
                  azione diretta non-violenta…) si sono poi sviluppate fino 
                  ai nostri giorni.
 Penso che in quel periodo abbia cominciato a germogliare anche 
                  quel movimento “No-global” che da Seattle a Praga, 
                  da Porto Alegre a Cancun, da Genova a Firenze ha rimesso in 
                  discussione la legittimità dei privilegi dei potenti.
 Sicuramente le lotte dei Neri in Sudafrica contro il regime 
                  di Pretoria hanno fatto molto di più per la consapevolezza 
                  sociale, politica degli Europei (in materia di diritti umani 
                  e diritti dei popoli, nel pacifismo e contro lo sfruttamento 
                  del “Sud” del mondo), di quanto la nostra solidarietà 
                  possa aver contribuito a liberare le vittime del razzismo istituzionalizzato.
 Con la morte di Oupa (così come, qualche anno fa, con 
                  quella di Francis Mokhesi) è anche un pezzo della nostra 
                  storia che ci lascia. Esprimo ai suoi familiari, ai suoi amici 
                  e a tutti quelli che in qualche modo condivisero il suo impegno 
                  e le sue sofferenze la mia solidarietà e la mia riconoscenza.
 Gianni Sartori Lega per i diritti e la liberazione dei popoli
 (Nanto)
    Impoverimento 
                  della cultura democratica
 La verità è che siamo in una fase di controriforme. 
                  Il silenzio dei democratici sui molti interventi legislativi 
                  che sarebbero necessari sul fronte delle libertà civili, 
                  è il risultato dell’impoverimento della cultura 
                  democratica e della sua rassegnazione. Le battaglie non combattute 
                  in questi anni, la passività osservata di fronte alla 
                  rinascita dell’autoritarismo, l’abbandono di missioni 
                  storiche della sinistra come la difesa dei gruppi più 
                  deboli e la lotta per l’estensione universale dei diritti, 
                  hanno cambiato il senso comune diffuso nel paese. Sono venuti 
                  meno quegli anticorpi necessari ad espellere le tossine immesse 
                  nel sistema da un modello di società imperniato sulla 
                  dittatura del mercato, sul culto dei consumi, su una cultura 
                  popolare involgarita dalle tivù commerciali e dalle semplificazioni 
                  dell’ideologia berlusconiana. Per risalire la china servirebbe una decisa inversione di tendenza: 
                  il rifiuto totale del senso comune neo autoritario, il rilancio 
                  di tutte le ambizioni della tradizione democratica e progressista, 
                  il rigetto del berlusconismo, che in questi anni è dilagato 
                  ben oltre i confini del consenso politico raccolto da Forza 
                  Italia.
 Chiedere il possibile  Marco Revelli, in un’intervista al settimanale “Carta” 
                  del gennaio 2005, si è domandato che cosa sia possibile 
                  chiedere al sistema politico affinché cominci un “nuovo 
                  corso” attorno alle questioni chiave del nostro tempo, 
                  dal pericolo della guerra permanente alla tutela delle risorse 
                  naturali. Su questi argomenti la comunità scientifica, 
                  gruppi sempre più estesi della società civile 
                  organizzata, la stessa opinione pubblica mondiale hanno posizioni 
                  e consapevolezze che invece stentano a far breccia nella cittadella 
                  della politica. Revelli prende l’esempio del concetto di sviluppo. “Bisognerebbe 
                  avere il coraggio – sostiene – di urlare che il 
                  nostro obiettivo non è l’aumento del Pil ma la 
                  sua diminuzione. (…). Ma sarebbe come se nel Cinquecento 
                  avessimo detto che non esiste il demonio, o che la terra gira 
                  attorno al sole: finiremmo sul rogo. Eresia! In tutto l’universo 
                  politico questo discorso è scandaloso. Dal politico, 
                  dunque, non mi aspetterei questo, che è un compito nostro, 
                  un risultato che si può raggiungere controllando i consumi, 
                  con uno stile di vita sobrio. Al leader politico non chiederei 
                  di darsi fuoco in piazza Montecitorio, di fare il monaco buddista. 
                  Gli chiedo però di mettere in atto politiche compatibili”. 
                  Revelli fa qualche esempio: “La politica può ridurre 
                  il danno della politica. Non pretendiamo di dettare il profilo 
                  di una nuova identità. Non siamo integralisti. Si chiede 
                  una percentuale minima delle risorse: non di abolire l’esercito, 
                  ma il 5% del suo bilancio, non la scuola come la vorremmo noi, 
                  ma un 10% destinato a ricerche non vincolate a criteri di efficienza 
                  di mercato…”
 Le “politiche compatibili” sui diritti civili non 
                  sono una chimera, se non per l’insipienza di un ceto politico 
                  distratto e conformista. In questi anni, nonostante il vento 
                  contrario, non sono mancati i progetti di riforma, le scelte 
                  concrete di alcuni enti locali, le pragmatiche proposte di gruppi 
                  e associazioni. Esiste già, sotto traccia, un “programma 
                  minimo” sui diritti civili che una coalizione democratica 
                  dotata di coraggio potrebbe fare proprio per impegnarsi in una 
                  lotta politica e culturale alla seduzione autoritaria.
 Prendiamo la guerra e il militarismo. In questi anni in Italia 
                  sono cresciute le spese belliche, è rifiorita la cultura 
                  militare e c’è stata un’ondata di patriottismo 
                  e nazionalismo sull’onda degli “eroi di Nassiriya”, 
                  o dei “morti nelle foibe vittime della barbarie slavo-comunista 
                  contro gli italiani”, in un crescendo di retorica e semplificazione 
                  storica. Ma nello stesso tempo si è radicata una forte 
                  opposizione alle imprese belliche, con una grande partecipazione 
                  popolare, mentre campagne come Sbilanciamoci! e il movimento 
                  della cooperazione internazionale hanno messo a fuoco le alternative 
                  possibili, ossia una politica estera che non passi per gli eserciti 
                  e la minaccia militare, ma s’impegni per la collaborazione 
                  internazionale, allargando i progetti di cooperazione e la diplomazia 
                  dal basso per un’autentica prevenzione dei conflitti.
 La lotta agli squilibri di potere fra Nord e Sud del mondo, 
                  l’insistenza per una giustizia economica e sociale che 
                  abbia una scala planetaria, non sono più i sogni di piccole 
                  minoranze, ma progetti politici da perseguire attraverso scelte 
                  concrete, come l’abolizione del debito estero dei paesi 
                  più poveri, la tassazione delle transazioni finanziarie 
                  speculative, la democratizzazione dell’ONU, la riforma 
                  degli organismi sovrannazionali, il riconoscimento dei diritti 
                  dei migranti…
 Che fare  Chi di recente ha scoperto la nonviolenza, tanto per fare un 
                  esempio, potrebbe dare un seguito concreto alla sua svolta, 
                  battendosi per obiettivi possibili, o come direbbe Revelli “compatibili”: 
                  la riduzione del bilancio della difesa, magari con la rinuncia 
                  a qualche aereo da guerra in costruzione, a favore della cooperazione 
                  internazionale (quasi azzerata dai tagli decisi dal governo 
                  Berlusconi); l’istituzione, almeno a livello sperimentale, 
                  dei “corpi civili di pace”, ossia di quelle strutture 
                  d’intermediazione nonviolenta che il parlamento europeo 
                  ha caldeggiato con una risoluzione rimasta lettera morta; la 
                  definitiva cancellazione dei crediti vantati dall’Italia 
                  verso paesi del Sud del mondo. Non si tratterebbe, per i nostri 
                  politici, di “darsi fuoco in piazza Montecitorio”, 
                  ma di portare sul proscenio alcune idee finora relegate dietro 
                  le quinte. Si potrebbe anche fare di più: ad esempio sostenere gli 
                  sforzi solitari del presidente sardo Renato Soru, un imprenditore 
                  prestato alla politica e subìto, più che scelto, 
                  come leader del centrosinistra nell’isola. Soru è 
                  stato il primo uomo politico ad avere il coraggio di sfidare 
                  – su sollecitazione di comitati e gruppi di base – 
                  lo strapotere dell’esercito statunitense, che gestisce 
                  la sua base militare alla Maddalena con arroganza pari al servilismo 
                  mostrato da tutti i governi italiani del dopo guerra. Nel paese 
                  che ha subìto l’umiliazione della sentenza d’assoluzione 
                  per gli aviatori statunitensi “giocherelloni” responsabili 
                  della strage sul Cermis (venti morti nel febbraio 1998 per un 
                  cavo della funivia tranciato da un aereo militare), Soru si 
                  è opposto all’estensione della base utilizzata 
                  dai sottomarini nucleari e ha rivendicato il diritto ad avere 
                  informazioni dettagliate su un misterioso incidente avvenuto 
                  davanti alla Maddalena.
 Lorenzo Guadagnucci (Firenze)
 
   
                    
                     
                      |  I 
                          nostri fondi neri 
                            |   
                      |  
                           Sottoscrizioni. Silvio Gori (Bergamo) in ricordo di Egisto e Maria 
                            Gori, 30,00; Aurora e Paolo (Milano) in ricordo di 
                            Alfonso Failla, 500,00; Fabio Rosana (Fossano) 10,00; 
                            Associazione culturale libertaria “A. Bortolotti”, 
                            3.195,70; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa) 
                            100,00; a/m Massimo Ortalli, Antonio La Gioia (Roma) 
                            40,00; Francesco Lupis (Aspra) 8,00; Marcella Caravaglios 
                            (Messina) 20,00; Riccardo Allegrini (Colleferro) 5,00; 
                            Antonio Tarasconi (Montescudo) 50,00; Salvatore Pappalardo 
                            (Venezia-Mestre) 10,00; Marco della Libreria Voltapagina 
                            (Genova-Sampierdarena) 54,00; Paolo Mauri (Milano) 
                            10,00; AB (Milano) 16,00. Totale euro 4.058,70.
 Totale euro 4.058,70.
 Abbonamenti sostenitori. Maurizio Guastini (Carrara), 250,00.
 Totale euro 250,00.
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