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 A circa un mese dal 
                  viaggio di George W. Bush in Europa sono in molti a chiedersi 
                  quali obiettivi reali tale viaggio avesse, considerato che ben 
                  poco c’era da sapere che già non si sapesse della 
                  posizione dell’Europa che conta, e cioè che, specie 
                  nei riguardi della dissennata avventura in Iraq, gli americani 
                  non potessero ragionevolmente attendersi una significativa inversione 
                  di tendenza della posizione europea Malgrado le dichiarazioni 
                  trionfalistiche all’indomani del voto di fine gennaio, 
                  infatti, appare sempre più chiaro che con quel voto gli 
                  otto milioni circa di elettori hanno inequivocabilmente espresso 
                  la speranza e l’urgenza di essere lasciati soli e liberi 
                  di risolvere i loro problemi. La prova inequivocabile di ciò 
                  è la pesante sconfitta del partito di Allawi, il più 
                  tenace sostenitore della permanenza della Coalizione nel territorio 
                  iracheno, e la grande affermazione delle formazioni sciite dell’ayatollah 
                  Al Sistani, il quale, subito dopo la chiusura dei conteggi, 
                  ha esplicitamente auspicato la sollecita partenza di tutte le 
                  truppe straniere quale premessa necessaria per avviare un’opera 
                  di riconciliazione e di ricostruzione del Paese arabo.    Tentativi di divisione Altra questione che appariva scontata era il fallimento del 
                  tentativo dei falchi repubblicani USA di dividere il Vecchio 
                  Continente tra i Paesi fondatori dell’UE e nuovi aggregati: 
                  a conti fatti, è apparso chiaro che questi ultimi, al 
                  di là dell’iniziale adesione alla politica americana 
                  in Medioriente, hanno perfettamente compreso come avessero tutto 
                  da guadagnare dal processo di integrazione europea e molto da 
                  perdere nel sabotarlo. La stessa Polonia, che fu la più 
                  sollecita ad approvare la politica della guerra preventiva di 
                  Bush, deve essersi fatta bene i conti, visto che dall’UE, 
                  nei primi otto mesi dalla sua adesione, le sono piovuti nelle 
                  tasche 2,2 miliardi di euro, il doppio di quanto non le sia 
                  costata l’adesione. Del resto l’appoggio di questi 
                  Paesi alla guerra è stato sostanzialmente simbolico, 
                  né l’America stessa si attendeva qualcosa di diverso: 
                  il suo solo disegno era quello di inserire un cuneo nell’aggregazione 
                  europea per indebolirne le resistenze alla sua politica imperiale. 
                  Da questa angolazione, quindi, le cose sono rimaste sostanzialmente 
                  immutate: Francia e Germania non hanno modificato il loro rifiuto 
                  di mettere un dito per togliere la castagna dal fuoco iracheno, 
                  anche se, nelle pieghe del discorso politico, l’America 
                  abbia ritirato l’“asso piglia tutto” che originariamente 
                  aveva buttato sul tavolo della ricostruzione dalle macerie provocate 
                  dalla demenziale spedizione militare. Neppure la NATO ha lasciato 
                  molte porte aperte per il suo coinvolgimento: ad eccezione della 
                  sua adesione ad una imprecisata conferenza dei Paesi aderenti 
                  ad una conferenza per l’Iraq, poco o nulla è stato 
                  concesso, se si fa eccezione per la riconfermata disponibilità 
                  ad addestrare le reclute del futuro Stato iracheno. Altro obiettivo mancato dalla strategia americana di guerra 
                  è stato quello, mai dichiarato ma trasparente, di condizionare, 
                  con il controllo delle fonti energetiche, lo sviluppo dell’Europa, 
                  egemonizzando, direttamente o indirettamente, quei Paesi dell’area 
                  aderenti all’OPEC, dai quali l’Europa in larga misura 
                  dipende. Certo, alcuni soggetti come l’Arabia Saudita 
                  vivono nel terrore che una loro deviazione dalle direttive americane 
                  possa provocare reazioni violente dalle conseguenze disastrose, 
                  ma la politica del terrore alla lunga non paga mai, soprattutto 
                  quando, ai confini dei Paesi minacciati, vi sono popoli risoluti 
                  a contrastarla.
 
   Respiro corto Infine, dal punto di vista economico, l’Europa incide 
                  sugli interessi d’oltre Atlantico in misura certamente 
                  minore di qualsiasi altra area del mondo. L’apprezzamento 
                  dell’euro sul dollaro ha limitato l’esportazione 
                  dei prodotti europei verso gli Stati Uniti, ma, di converso, 
                  non ha incrementato l’export americano verso l’Europa. 
                  Per la verità questa situazione penalizza le economie 
                  del Vecchio Continente più che impensierire l’amministrazione 
                  Bush. La quale, tuttavia ha, nei confronti dei Paesi dell’Occidente 
                  europeo, il respiro corto del saldo passivo della sua bilancia 
                  finanziaria. Deve, cioè, preoccuparsi che gli investimenti 
                  europei, finanziatori di fatto del suo deficit pubblico, non 
                  siano richiamati in patria per sostenere misure di sostegno 
                  dei rispettivi stati sociali, gravati soprattutto dall’invecchiamento 
                  della popolazione. Una preoccupazione assai fondata e che non 
                  riguarda soltanto il versante europeo, se si considera che ben 
                  il 56% dei titoli pubblici americani a lungo termine sono in 
                  mano a investitori pubblici e privati esteri, in prevalenza 
                  asiatici ed europei (dati ufficiali provenienti dal Department 
                  of the Treasury e della Federal Reserve Bank of New York). Da 
                  questa angolazione, quindi, nel suo viaggio nelle capitali europee 
                  Bush ha mostrato la debolezza di fondo della sua strategia imperiale: 
                  sinora la sua potenza militare è stata sostenuta da un 
                  crescente stato debitorio nei confronti dell’estero, ma 
                  non è detto che questo trend continui. Anzi, vi sono 
                  segnali contrari. Nei Paesi industrializzati del Continente 
                  europeo, la pressione fiscale, per quanto elevata, mostra la 
                  sua incapacità di far fronte alle esigenze di una popolazione 
                  attiva in decremento preoccupante, incapace, quindi, di finanziare 
                  le esigenze crescenti di politiche interne equilibratrici. Ciò 
                  significa che, a prescindere dalle singole vocazioni politiche, 
                  le disponibilità di investimenti all’estero sono 
                  in costante decrescita. Per l’America, in una prospettiva 
                  più o meno lontana, questo dato denuncia la necessità 
                  di attuare misure di restrizione monetaria e fiscale, di fronteggiare 
                  un rallentamento significativo della crescita e di ridimensionare 
                  drasticamente le sue attuali velleità di dominare il 
                  Pianeta. La consapevolezza di questa debolezza di fondo della politica 
                  americana, se non ha diminuito il cipiglio oratorio del presidente 
                  texano, ha certamente reso meno permeabili alle sue pretese 
                  gli interlocutori di questa parte dell’Atlantico. Da qui 
                  la cortesia tutta formale dell’ospitalità, ma anche 
                  la vaghezza di intese future, che in ogni caso dovranno tener 
                  conto – e questo è stato detto esplicitamente – 
                  del diverso approccio ai conflitti attuali, quello europeo che 
                  si basa sull’azione diplomatica, e quello americano che 
                  non esclude l’uso della forza.
   Pallido ricordo Esiti non molto diversi ha avuto l’appuntamento con la 
                  Russia di Putin. È ormai un pallido ricordo l’idillio 
                  tra il premier russo e l’America di Bush sul versante 
                  dell’antiterrorismo. La questione cecena non è 
                  per Putin la sola emergenza, sull’onda della quale navigare 
                  in sintonia con chi aveva subito l’attacco alle Torri 
                  gemelle. L’idillio finisce quando, ad una solidarietà 
                  verbale reciproca, che non costa nulla, si sommano emergenze 
                  che riattualizzano i conflitti di fondo, come la recente crisi 
                  ucraina. Putin accusa Bush di lavorare per isolare la Russia, 
                  denunciando la parte attiva svolta dalla CIA, sia nel sostegno 
                  offerto ai secessionisti ucraini, sia le pressioni per elevare 
                  il livello dell’opposizione georgiana al centralismo russo. 
                  Lo abbiamo già accennato in altra occasione; Putin è 
                  in grande difficoltà nell’arginare le spinte centrifughe 
                  che si accentuano ai suoi confini: i Paesi baltici a nord, l’Ucraina 
                  a sud-est consentono la penetrazione di fattori destabilizzanti, 
                  aggravati da frontiere vaste ed insicure con la Cina, in primo 
                  luogo, e il Pakistan. È vitale per Putin rompere l’assedio 
                  e la sua politica di esplicito appoggio nei riguardi di un Iran, 
                  che incrementa il suo potenziale nucleare malgrado le proteste 
                  e le minacce americane; ed una Siria, che non molla la sua presa 
                  sul Libano, è un chiaro ammiccamento alla Cina ed ai 
                  popoli mediorientali, attualmente sotto tiro dell’amministrazione 
                  repubblicana USA. Certo, Putin sa bene di non poter tirare troppo 
                  la corda: uscire allo scoperto con aggressività gli impedirebbe, 
                  da un canto, di ricevere gli aiuti che l’America ancora 
                  gli elargisce; dall’altro insospettirebbe gli europei, 
                  molto più prudenti nel bilanciare il loro appoggio (interessato) 
                  al Medio Oriente arabo, con l’esigenza primaria di non 
                  incrinare il fronte occidentale. In tale clima surreale, nel quale prevalenti erano le cose non 
                  dette ma che costituivano bordone inquietante di ogni convenevole, 
                  era naturale che gli interlocutori, alla fine, si ritirassero 
                  nelle loro camere oppressi dalla fatica e con il carniere vuoto.
  Antonio Cardella
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