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 Tradurre l’umano significa portare l’essere 
                  umano agli incroci... Homi Bhabha
 Le identificazioni che attraversano i confini dei generi 
                  possono ridefinire corpi sessuati secondo modalità variabili. 
                  Judith Butler
 I sistemi politici sono sempre inscritti nel corpo. Michael Warner
 Monique Wittig è 
                  stata, almeno per la mia generazione, soprattutto un’assenza. 
                  Un’assenza che pesava tantissimo perché il suo 
                  pensiero filosofico, che arrivava a strappi, affascinava e inorgogliva, 
                  lasciava senza terra sotto i piedi e dava l’impressione, 
                  subito dopo, che fosse possibile l’assalto al cielo. II 
                  suo lavoro teorico, le sue perentorie affermazioni “le 
                  lesbiche non sono donne”, la leggenda della sua vita, 
                  dalla fondazione del MLF francese con Antoinette Fouque e altre, 
                  al deserto dell’Arizona dove è morta, l’hanno 
                  resa una figura non facilmente collocabile (1). 
                  La sua scrittura è bellissima, luminosa come un assassinio 
                  che è una resurrezione. Criticata per la violenza dei 
                  suoi romanzi – non femminili – ci ha lasciato icone 
                  di un lesbismo sempre in metamorfosi, non recuperabile su nessun 
                  piano. L’Opoponax, Le guerrigliere, II 
                  corpo lesbico, Virgile non, sono state le tappe 
                  di un itinerario che dall’infanzia attraversa ogni ribellione, 
                  senza rinunciare a quel sorriso che – come ricordava Mary 
                  McCarthy – ci dice che in fondo l’infanzia è 
                  sempre. Non è facile scrivere di Monique Wittig perché 
                  non si può farlo separando la sua filosofia del “lesbismo 
                  materialista” dalle sue opere letterarie. “II corpo 
                  lesbico” che Wittig scrive non è il corpo della 
                  donna, non è il corpo femminile, ma è “il 
                  corpo lesbico” appunto, corpo che si è liberato 
                  dal marchio linguistico dei generi. Ricorda Rosanna Fiocchetto 
                  nell’introduzione a “Brogliaccio per un dizionario 
                  delle amanti” ancora in cerca di un’edizione 
                  italiana, che, per comprendere come in Wittig (e altre) la politica 
                  diventi poetica, è molto utile un numero della rivista 
                  francese “Questions féministes” 
                  del febbraio 1978 in cui un gruppo di studiose, in testa Colette 
                  Guillaumin, “revisionano il materialismo marxista alla 
                  luce della più autentica materialità delle classi 
                  sessuali”. L’analisi di Guillaumin è seguita 
                  “dal racconto di Wittig “Un jour mon prince 
                  viendra”, che ne è l’agghiacciante e 
                  cruda trasposizione poetica, nella quale lo sfruttamento dei 
                  corpi viene espresso allegoricamente dalla cerimonia della mungitura” 
                  ( Rosanna Fiocchetto). In “The Straight Mind and Other 
                  Essays” (1992) Wittig raccoglierà i saggi 
                  teorici usciti in riviste femministe, francesi e americane, 
                  negli anni settanta e ottanta.
   “Le lesbiche 
                  non sono donne” La sua critica all’eterosessualità obbligatoria 
                  sarà una tappa fondamentale per i movimenti femministi 
                  e per il movimento lesbico in America. Ancora oggi è 
                  un’autrice importante e discussa nel movimento queer e 
                  transgender. Fece scalpore la sua affermazione che “le 
                  lesbiche non sono donne” perché se ciò che 
                  definisce una donna nel contratto sociale eterosessuale è 
                  il suo legame sessuale-economico-sociale con un uomo, quel che 
                  ne consegue è che allora le lesbiche non sono più 
                  donne, ma transfughe dalla categoria donne (dalla classe sessuale), 
                  fuggiasche come gli schiavi che scappavano dai padroni per essere 
                  liberi. Per Wittig “lesbica” era l’unica categoria 
                  che conoscesse capace di sfuggire a questo contratto sociale 
                  eterosessuale che è “un regime politico” 
                  e perché “la relazione eterosessuale costituisce 
                  il parametro di tutte le relazioni gerarchiche” e perché 
                  “gli uomini e le donne sono creazioni politiche prodotte 
                  per conferire un mandato biologico ad accordi sociali in cui 
                  un gruppo di esseri umani ne opprime un altro”. È 
                  cosi che “i rapporti tra le persone sono sempre costruiti 
                  e la domanda da porsi non è quali siano i più 
                  naturali, ma piuttosto quali sono gli interessi tutelati da 
                  ciascuna costruzione”. La guerra di Wittig alle categorie 
                  di differenza sessuale è radicale: “non vi è 
                  nulla di ontologico nel concetto di differenza; è solo 
                  il modo in cui i padroni interpretano una situazione storica 
                  di dominio. La funzione della differenza è di mascherare 
                  a tutti i livelli i conflitti di interesse, compresi quelli 
                  ideologici. Teresa De Lauretis scrive in “Soggetti eccentrici”, 
                  che “la pratica cognitiva soggettiva di Wittig è 
                  una riconcettualizzazione del soggetto, del rapporto tra soggettività 
                  e socialità e della conoscenza stessa, da una posizione 
                  che viene esperita come autonoma dall’eterosessualità 
                  istituzionale e quindi eccede i limiti del suo orizzonte discorsivo-concettuale”. 
                  Monique Wittig, per De Lauretis (e non solo), vuole quindi sì 
                  la scomparsa delle donne in quanto donne (cioè classe), 
                  ma nello stesso tempo il noi di Wittig non si riferisce a donne 
                  privilegiate (...). La società lesbica non si riferisce 
                  a qualche collettività di donne omosessuali, così 
                  come il termine lesbica non si riferisce semplicemente a una 
                  donna lesbica. Sono invece i termini concettuali, teorici, di 
                  una forma di coscienza femminista che può esistere storicamente 
                  soltanto nel qui e ora come coscienza di qualcosa d’altro. 
                  Noi, lesbica, Mestiza e altra inappropriata sono tutte figure 
                  di quella posizione critica che ho cercato di far emergere e 
                  di riarticolare da vari testi del femminismo contemporaneo: 
                  una posizione raggiunta attraverso pratiche di dislocamento 
                  politico e personale, attraversando i confini tra identità 
                  e comunità socio-sessuali, tra corpi e discorsi. La posizione 
                  di un soggetto eccentrico” (De Lauretis).
 Mi sono spesso chiesta, come lesbica, come transgender – 
                  né maschio né femmina, né uomo né 
                  donna (né/né), cosa accadrebbe se rifiutassi di 
                  segnalare su un documento alla dicitura sesso o la F o la M, 
                  ma scrivessi Altro o Lesbica o Transgender. Probabilmente non 
                  avrei il documento necessario e scatterebbe una denuncia. Infatti 
                  “eterosessualità obbligatoria” è concetto 
                  che esula dalla scelta sessuale personale e si configura “istituzionalizzata, 
                  ha assunto il carattere normativo, sistematico e astratto (ossia 
                  astraibile dall’agire dei singoli individui) proprio delle 
                  istituzioni” (De Lauretis). L’affermazione del movimento 
                  transgender (gay-lesbiche-bisessuali-transessuali-intersessuali) 
                  diventa quindi importante e, se ben diretta, potrà mettere 
                  in discussione le basi del più arcaico dei regimi. Si 
                  comprende così meglio un Ratzinger che prepara un documento 
                  di 37 pagine in cui condanna il femminismo radicale della gender 
                  theory (Judith Butler) e dell’uguaglianza, ma dialoga 
                  con quello della differenza sessuale.
 Wittig afferma inoltre che non solo il genere è costruito 
                  (per genere/gender si intendono una serie di fattori che confluiscono 
                  a formare l’identità; per esempio fattori come 
                  classe, razza, scelta sessuale, ecc. Quindi il genere è 
                  sempre costruzione storicamente variabile di una identità), 
                  ma lo sono anche i corpi. Questo avviene anche, ma non solo, 
                  attraverso il linguaggio. “II fatto che il pene, la vagina, 
                  il sesso, ecc. siano denominati parti sessuali significa ridurre 
                  il corpo a tali parti e frammentarne l’interezza” 
                  (Judith Butler). Ora, questo serve molto bene le categorie di 
                  differenza sessuale, in primis nel linguaggio gerarchizzante 
                  dell’eterosessualità e ne crea il sistema con cui 
                  stabiliscono che a un dato corpo corrisponde tanto e a un altro 
                  corpo altro. Si stabiliscono così anche le funzioni di 
                  uomini e donne come “naturali” – come desidera 
                  Ratzinger – e non costruite e quindi scambiabili o con 
                  la possibilità di inventare altro***. Ne “L’Apartheid 
                  del sesso” Martine Rothblatt descrive molto bene 
                  i meccanismi con cui ci fanno diventare qualcosa e occupare 
                  un posto ben preciso nella società mediante la classificazione 
                  di genere. Rothblatt dimostra, con l’avvallo delle più 
                  recenti scoperte scientifiche, che l’apartheid sessuale 
                  non ha ragione d’essere ed è retaggio non della 
                  biologia, ma di preconcetti patriarcali.
 “Nulla di biologico obbliga chi ha la vagina a comportarsi 
                  in un determinato modo e chi ha il pene in un altro. A cosa 
                  si deve quindi, l’origine specificamente genitale delle 
                  forme di genere? Ancor prima, a quale mutamento va attribuita 
                  l’attuale accettazione sociale di espressioni di gene-re 
                  indipendenti dai genitali che si possiedono? Gli esseri umani 
                  hanno la tendenza atavica a generalizzare e a creare stereotipi. 
                  Fenomeni apparentemente simili vengono generalizzati e accorpati 
                  in categorie. Caratteristiche parziali della categoria vengono 
                  poi ridotte a luogo comune in modo che si applichino all’intera 
                  categoria. Di norma l’uso degli stereotipi serve in primo 
                  luogo a giustificare il trattamento differenziato degli individui”. 
                  E più in là: “Quando una categoria si impone, 
                  è tipico degli esseri umani cominciare a caricarla di 
                  attributi e a rinforzare la realtà di tali attributi 
                  attraverso l’educazione e le sanzioni sociali. Il genere 
                  diventa una profezia autoinverantesi, impostaci dall’infanzia, 
                  finché diventa parte della nostra natura. Dietro la genesi 
                  del genere si nasconde dunque la passione categorizzante e organizzativa 
                  degli esseri umani”. (Martine Rothblatt). Aggiungo io, 
                  anche la passione normalizzante.
 Prima di chiudere con Rothblatt, ancora una citazione in cui 
                  parla dei risultati di test scientifici: “I risultati 
                  dei test rivelano che, a livello cerebrale, il sesso è 
                  un continuum, che va da attributi stereotipati molto «maschili» 
                  a caratteristiche molto «femminili». Su questa base 
                  si dovrebbe dire che il sesso cerebrale è analogico (continuo), 
                  non binario (o/o) maschile o femminile”. Quindi il cervello 
                  è transgender.
 Le intuizioni di Wittig, nonché i suoi studi e quelli 
                  di altre femministe che l’hanno ispirata, erano, a dir 
                  poco, in anticipo sui tempi. Questo la portò a scontrarsi 
                  e a polemizzare con molte appartenenti al femminismo della differenza 
                  e quindi, forse per stanchezza o forse perché allora 
                  non trovò seguito in Europa, emigrò in America. 
                  Le sue teorizzazioni hanno influenzato fortemente Judith Butler 
                  e Teresa De Lauretis, le quali hanno poi elaborato autonomamente 
                  loro teorie a cui la queer theory deve tantissimo.
 
 
  Classe sessuale oppressa
 Per Wittig non esiste quindi alcuna distinzione tra sesso 
                  e genere; la categoria del sesso è anch’essa una 
                  categoria di genere, del tutto investita politicamente, naturalizzata, 
                  ma non naturale.   Judith Butler  Secondo Leo Bersani (2), Wittig è 
                  “un guerriero foucaultiano, anzi un guerrigliero (per 
                  prendere a prestito il titolo di un suo libro), assai più 
                  risoluto dello stesso Foucault nell’abbracciare la causa 
                  a favore di una nuova economia dei piaceri del corpo. Wittig 
                  la martire, pronta a sacri-ficare il suo stesso corpo alla logica 
                  della passione lesbica: nel corso di una conferenza al Vassar 
                  College, a un certo punto qualcuno le chiese se avesse una vagina 
                  e lei rispose di no. Quella domanda così sgradevole la 
                  trasformò immediatamente in una donna (condensando cosi 
                  secoli di cultura eterosessuale), la sua risposta però, 
                  altrettanto rapidamente, riscrisse sul suo corpo la parola lesbica, 
                  cancellando il segno e il marchio culturale di donna”. 
                  Se qualcuno non comprendesse l’importanza cruciale dell’episodio 
                  è Judith Butler che ci fa presente che “il corpo 
                  è un modello che può riprodurre qualsiasi sistema 
                  chiuso e i suoi confini possono rappresentare qualunque confine, 
                  sia esso minacciato o precario”. Bersani fa presente che 
                  “la Butler sottolinea la pericolosità per il sistema 
                  sociale di confini del corpo permeabili”.
 “Far esplodere il corpo sessuato” (Bersani) per 
                  cercare, esplorare, inventare nuovi modi di essere e quindi 
                  rivelare il polimorfismo della sessualità e nello stesso 
                  tempo uscire dal sistema binario di pensiero e far si che non 
                  si venga recuperate all’ordine eterosessuale, sono stati 
                  i passi radicali di Monique Wittig.
 Poche figure, in tanti anni di femminismo (3) 
                  e poi di femminismo lesbico, mi hanno affascinato quanto Monique 
                  Wittig. Tra queste c’è anche un uomo, Mario Mieli, 
                  i cui “Elementi di critica omosessuale” 
                  fu una scoperta tardiva, ma che sono ancora una delle mappe 
                  di cui mi servo per esplorare il mondo queer. Mieli negli anni 
                  ’70 parlava già delle lesbiche come dell’avanguardia 
                  della rivoluzione ed egli aveva ben presente il pensiero delle 
                  lesbiche radicali francesi e l’importanza di una ridefinizione 
                  creativa di concetti quali il genere, il sesso e le identità 
                  o non identità. Forse Wittig e Mieli sottoscriverebbero 
                  quanto dice Leo Bersani, parlando di Genet: “Ma nulla 
                  può cambiare in questo mondo, o meglio (e questo bisogna 
                  ammetterlo, è una scommessa ), tra l’oppressione 
                  adesso e la libertà più avanti, potrebbe essere 
                  necessaria una rottura radicale col sociale”. E “la 
                  rivolta delle serve (e dunque la rivolta di tutti gli oppressi) 
                  andrà a buon fine purché non ci si rapporti più 
                  con la loro soggettività in quanto soggettività 
                  oppressa”. Uscire dal sistema di pensiero binario è 
                  anche abbandonare le facili identità e rischiare; ricorda 
                  la Butler che: “Nei suoi scritti teorici e narrativi, 
                  Wittig chiede una riorganizza-zione radicale della descrizione 
                  di corpi e sessualità (...)”. Da qui lo scandalo 
                  che suscitò anche tra le femministe l’apparizione 
                  di un libro come “II corpo lesbico” che 
                  nella memoria di molte è rimasto come un romanzo che 
                  mandava in crisi. Non è stata una figura rassicurante 
                  Wittig, tantomeno flirtrava con il materno e con il desiderio 
                  di un nuovo matriarcato. Detestava ogni idea di sostituire al 
                  patriarcato un matriarcato e di restituire oppressione agli 
                  oppressori. La sua visione delle donne come “classe sessuale 
                  oppressa” la porta a privilegiare e universalizzare la 
                  figura della lesbica, ma il modo stesso in cui costruisce questa 
                  figura è, secondo me, il modo che le permette di sfuggire 
                  a un’identità fissa (le sue lesbiche sono in eterno 
                  cambiamento) e soprattutto di sfuggire al mercato. Si può 
                  avere capacità di cambiare e ricrearsi e viaggiare alla 
                  velocità della luce tra le identità e le non identità 
                  o meno identità, ma si corre il rischio sempre di scendere 
                  alla fermata e trovare che il mercato è lì ad 
                  aspettarci. A Wittig si deve almeno riconoscere di non essersi 
                  mai fatta catturare. La sua “lesbica” era/è 
                  semplicemente insopportabile per il sistema eterosessista.
 Prima di proseguire, torno un attimo sulla questione del sesso.
 “Anne Fausto Sterling, genetista presso la Brown University, 
                  ha osservato di recente che «il sesso è un vasto 
                  continuum che si sottrae a ogni classificazione». Dietro 
                  la sua osservazione vi è una nuova ricerca che ha dimostrato 
                  come almeno il 4 per cento delle nascite sia in qualche misura 
                  intersessuato, vale a dire che i neonati hanno sia parti di 
                  organi sessuali maschili sia parte dei corrispondenti organi 
                  sessuali femminili (spesso interni e quindi generalmente non 
                  identificabili)” (Martine Rothblatt). I sostenitori della 
                  naturalità dei due sessi, cioè chi sostiene che 
                  ci sono solo due sessi biologici (come Ratzinger, come tutti 
                  i fondamentalisti) sono smentiti dalla stessa biologia. Magari 
                  potrebbero cominciare a chiedersi che ne sarà dei loro 
                  preziosi libri sacri, della storia della genesi, eccetera, eccetera 
                  e quale altra favoletta inventeranno per giustificare l’oppressione 
                  delle donne e dei diversi, la misoginia, l’omofobia, il 
                  razzismo e tutto quello di cui sono accesi fautori. Potrebbero 
                  – a titolo di esempio – scomunicare il comitato 
                  olim-pico internazionale che ha “ampliato la definizione 
                  di atleta, includendo le donne che prima erano uomini” 
                  o potrebbero chiedere che non siano resi pubblici i dati di 
                  ricerche scientifiche che rivelano la “varietà 
                  sessuale degli esseri umani presente in natura” (da: Internazionale 
                  ) e cioè le varianti naturali dei cromosomi sessuali, 
                  ovvero non solo: XX o XY, ma XXY, XYY, XXX.
   Viaggio interminabile Fin qui ho solo accennato alle opere letterarie di Wittig, 
                  ma parlare di questa scrittrice scindendo le sue teorie filosofiche 
                  dalle sue opere creative, sarebbe limitante. Non ha scritto moltissimo, ma fin dal primo romanzo ‘L’Opoponax’, 
                  – premio Medicis in Francia, nel 1964 –, suscitò 
                  interesse. In una delle ultime interviste, rilasciata a Lesbia, 
                  disse che non avrebbe scritto se non avesse letto gli autori 
                  del nuovo romanzo francese, prima fra tutti Nathalie Sarraute. 
                  De “L’Opoponax” scrissero Mary McCarthy 
                  e Margherite Duras. Rimane in mente del libro, non solo e non 
                  tanto la trama (l’amore tra due ragazzine, l’infanzia, 
                  la libertà interiore), ma la scrittura limpida, continua, 
                  fluida, nonostante la brevità delle frasi e quel restituire, 
                  sapientemente-amorevolmente-semplicemente, l’infanzia, 
                  anche con una parola che sa essere/dare infanzia. “L’Opoponax” 
                  gioca con la nostra credulità di bambini ex bambini, 
                  ma in fondo felicemente ancora pieni di stupore. Wittig non 
                  ci consola di nulla. Forse già allora incanto e ferocia 
                  la accompagnavano. I tre proiettili di carabina che Valerie 
                  regala a Catherine sono il preludio alle bambine-guerrigliere 
                  de “Le guerrigliere”.
 Quando ho saputo della morte di Wittig, ho ripreso in mano i 
                  suoi libri (pochi usciti in italiano) e particolarmente “L’Opoponax”. 
                  Mi venne da pensare subito, che era già tutto lì 
                  dentro: scrittura, coraggio, eroismo, lesbismo, ironia, ribellione 
                  ai codici, eccetera. Le farei torto però, se mi fermassi 
                  a questo.
 “Non utilizzano 
                  delle iperboli delle metafore per parlare dei loro sessi, non 
                  procedono per accumulazioni o per gradazioni. Non recitano lunghe 
                  litanie, il cui motore è un’imprecazione senza 
                  fine. Non si sforzano di moltiplicare le lacune in modo che 
                  nel loro insieme significano un lapsus volontario. Dicono che 
                  tutte queste forme designano un linguaggio sorpassato. Dicono 
                  che bisogna ricominciare tutto. Dicono che un grande vento spazza 
                  la terra. Dicono che il sole sta per alzarsi”.   
                  Le guerrigliere “II corpo lesbico” uscì in traduzione 
                  italiana per le Edizioni delle Donne nel 1976, tre anni dopo 
                  la sua uscita in Francia. Scriveva Elisabetta Rasy nella nota 
                  introduttiva: “Monique Wittig recita il percorso di una 
                  ricognizione del corpo che è ‘lesbico’ e 
                  non ‘femminile’ perché il corpo femminile 
                  è il corpo della donna visto e usato dall’uomo 
                  – un feticcio, cioè, per la donna – e il 
                  corpo lesbico è il corpo della donna visto e vissuto 
                  dalla donna, come nei sogni l’omosessualità è 
                  autoerotismo, cioè, ancora una ricognizione, una scoperta”. 
                  Facendo esplodere il ‘corpo lesbico’ Wittig lo riscrisse 
                  con una brutalità e passione sconosciute fino ad allora 
                  nella letteratura femminista e pre-femminista. La voce del libro pare propagarsi per intensità e rimbalzare 
                  sul corpo riorganizzandolo, dopo averne bucato la cecità 
                  portandolo davanti se stesso. Non vi sono nomi propri nel ‘corpo 
                  lesbico’. Le amanti franano una nell’altra, l’una 
                  contro l’altra, l’una vicina all’altra, come 
                  le ‘detentrici’ del fuoco, della “geenna dorata 
                  adorata nera” in cui è inutile chiedere aiuto, 
                  perché nessun aiuto verrà, non una potrà 
                  salvarti da un desiderio così gridato, così ferito, 
                  così voluto che pagina per pagina scavalca il dicibile. 
                  Una lesbica mai detta prima prende quindi corpo nel romanzo 
                  di Wittig e si afferma affermando la fermezza del proprio desiderio, 
                  spogliando il corpo di ogni orpello, di ogni bugia. Il processo 
                  di spogliazione appare come smembramento, l’arte amatoria 
                  deborda nel cannibalismo (o così fa credere ), ma di 
                  volta in volta il corpo si ricompone, è intero, è 
                  due corpi che si cercano e prendono e ricominciano sempre da 
                  capo; corpi universalizzati non tanto o non solo nella loro 
                  rivolta, ma nella loro totalità, nel loro essere interamente 
                  erotizzati: “tecton=costruttori, generatori” (Beatriz 
                  Preciado) (4).
 II ‘viaggio interminabile’ di Wittig, il ‘Viaggio 
                  senza fine’ è portato nella parola oltrepassando 
                  ogni parola, liberando le frasi dalla zavorra romantica, sentimentale, 
                  perché ne rimanga la carne come segno di un ricominciamento 
                  che parla per grida o risate, per odori-umori-profumi, per il 
                  toccare delle mani, della bocca, per lo scuotersi, per lo sforzo 
                  di inabissarsi e riemergere dai luoghi più segreti di 
                  ognuna, ma rinominandoli come se venissero strappati al negativo 
                  di una fotografia e riconsegnati alla luce, alla gioia.
 Wittig non lascia nulla d’intentato per significare il 
                  corpo lesbico e renderlo non superabile. “Da qui in poi 
                  – pare dire – potrete fingere di non vederci, ma 
                  non ci troverete mai nel vostro ordine”. Se ne “Le 
                  guerrigliere” le bambine inventano comunità 
                  lesbiche, creandole e distruggendole e ricreandole, ne “II 
                  corpo lesbico” si nasce dalle nostre ossa, dai muscoli, 
                  dai nervi, ma senza più potersi immaginare come corpo 
                  guardato dall’altro, corpo appreso da altri sguardi.
 “Per 
                  farla passare da alknarintya (donna selvaggia) a. nguanga (donna 
                  tranquilla, accondiscendente al desiderio dei maschi), dalla 
                  frigidità (?) all’erotismo d’oggetto dall’omosessualità 
                  all’eterosessualità, la femmina deve essere sottoposta 
                  alla forza: violentata, conquistata, castrata” (Roheim, 
                  citato da Paola Tabet in DWF n° 23/24).  Ne Le Guerrigliere, in un breve capitolo, c’è 
                  una descrizione della clitoride che è un preludio a quanto 
                  Wittig scriverà anni dopo. Non è un caso che i 
                  suoi romanzi siano passati sotto silenzio. Wittig usa la scrittura 
                  per non coincidere con nulla, tantomeno con la mente eterosessuale. 
                  La scrittura è quindi diretta, intensa e pare penetri 
                  nel corpo per infrangerne la subordinazione a qualcosa di appreso, 
                  qualcosa che lascia in una confusione che fa sì che diventi 
                  possibile la colonizzazione del corpo. Un corpo è colonizzato 
                  con lo stupro, con i ricatti familistici e affettivi, con la 
                  violenza domestica, ma anche con l’im-posizione (naturalizzata) 
                  di istituzioni (matrimonio-prostituzione) che ne veicolano la 
                  socializzazione. Questo avviene per gradi, ma ininterrottamente; 
                  la ripetizione di schemi porta a far sì che tutto questo 
                  sembri naturale. Porta anche a un’atrofia dell’immaginazione, 
                  della possibilità di immaginare altro. Leggere Il Corpo Lesbico è leggere gli strappi 
                  con cui una scrittura luminosa e pazzesca riesce a ricrearne 
                  l’integrità. Dal negativo della fotografia (dal 
                  nero dello sguardo), all’immagine di un corpo che ricompone 
                  la propria libertà, la riscrive (toccandola), rendendosi 
                  vivo.
 “La donna” non è più questo corpo; 
                  la lesbica è la figura portatrice di una voce che è 
                  “la mia voce intenta a raddoppiare la tua voce”.
 Teresa de Lauretis scrive che per fare una lesbica ci vogliono 
                  due lesbiche e il desiderio lesbico “significa precisamente 
                  lo spiazzamento del significante paterno e l’aggiramento 
                  della legge che preclude al soggetto donna l’accesso al 
                  corpo femminile”. E continua: “II desiderio lesbico 
                  è legato al desiderio di un’altra donna perché 
                  è desiderio di un corpo femminile negato, perduto o espropriato; 
                  ma quel corpo perduto o negato non è il corpo della madre 
                  bensì l’io-corpo del soggetto stesso, la cui perdita 
                  equivale a non essere. Nel desiderio per l’altra donna 
                  il soggetto nega o supera quella perdita e ritrova l’io-corpo 
                  insieme con quello dell’altra. A parer mio quindi, il 
                  desiderio lesbico non è pre-edipico, né fallico 
                  o maschile e nemmeno isterico: è perverso”. Con 
                  “perverso” ovviamente la De Lauretis intende “né 
                  patologico, né immorale, ma che esce dallo schema pulsionale 
                  coatto tra padre e madre proprio dell’isteria e quindi 
                  eccede lo schema binario dell’Edipo (sui generis)”.
 La lesbica di Wittig non è l’effetto di un divieto, 
                  ma eccede quello schema binario e irrompe sulla scena usando 
                  la precarietà della lingua per riarticolare una lingua 
                  che la renda un soggetto (soggetto universale). Il corpo frammentato 
                  nei discorsi e negli sguardi del potere, nel suo discorso viene 
                  ricostituito e interroga il proprio bisogno, se stesso e il 
                  proprio significato politico con “la forza della citazione” 
                  (J. Butler).
 Wittig rende la lesbica visibile, ma ci ricorda che “se 
                  il desiderio omosessuale è il desiderio del simile è 
                  vero anche che è desiderio di altro”. Il suo riscrivere 
                  i classici della letteratura come classici lesbici (Il Don 
                  Chisciotte in “Viaggio senza fine” 
                  e La Divina Commedia in “Virgile, non”), 
                  è parte di questo viaggio, di un desiderio altro.
 
   Femminismo cyborg “La scrittura 
                  del cyborg parla del potere di sopravvivere, che non deriva 
                  dall’innocenza originaria, ma dalla conquista degli strumenti 
                  che marchiano il mondo, che le ha marchiate come «altro». 
                  Questi strumenti sono spesso storie riscritte, nuove versioni 
                  che spiazzano e ribaltano i dualismi gerarchici delle identità 
                  naturalizzate: rinarrando le storie originarie, di autori cyborg 
                  sovvertono i miti dell’origine centrali alla cultura occidentale. 
                  Tutti siamo stati colonizzati da quei miti, dalla loro brama 
                  di compiersi nell’apocalisse”.  Donna 
                  Haraway  In “The Straight Mind” (Il pensiero 
                  eterosessuale) Monique Wittig traccia una prima parte della 
                  mappa con cui si misurerà con il linguaggio. Parlando 
                  dell’insieme dei discorsi che ingenerano altri discorsi 
                  (“la linguistica ingenera la semiologia e la linguistica 
                  strutturale, la linguistica strutturale ingenera lo strutturalismo 
                  che ingenera l’inconscio strutturale”), mette in 
                  rilievo come “l’insieme di questi discorsi produce 
                  una statica confusionale per gli oppressi, che fa loro perdere 
                  di vista la causa materiale della loro oppressione e li immerge 
                  in una sorta di vuoto astorico”. Questo fa sì che questi discorsi producano una lettura 
                  “scientifica della realtà sociale, nella quale 
                  gli esseri umani sono dati come invarianti, intoccati dalla 
                  storia e immuni dai conflitti di classe, con una psiche identica 
                  per ciascuno di essi perché geneticamente programmata”.
 II saggio citato è del 1978 e a distanza di una decina 
                  di anni – sempre in America – pare fargli eco Haraway 
                  (che leggo ora insieme a Wittig – da una all’altra: 
                  dalla Lesbica ai Saperi Situati): “La scrittura è 
                  in primo luogo la tecnologia dei cyborg, superfici incise del 
                  tardo ventesimo secolo. La politica dei cyborg è la lotta 
                  per il linguaggio, contro la comunicazione perfetta, contro 
                  il codice unico che traduce perfettamente ogni significato, 
                  dogma centrale del fallogocentrismo” (Manifesto Cyborg). 
                  E Wittig: “Questi discorsi ci negano ogni possibilità 
                  di creare le nostre proprie categorie. Ma la loro azione più 
                  feroce è l’inflessibile tirannia che essi esercitano 
                  sul nostro io fisico e mentale. Quando usiamo il supergeneralizzante 
                  termine ‘ideologia’ per designare tutti i discorsi 
                  del gruppo dominante, releghiamo questi discorsi nell’ambito 
                  delle idee irreali, dimenticando la violenza materiale (fisica) 
                  che essi direttamente esercitano sulle persone oppresse...”.
 Ed è Haraway a ricordarci che “le dispute sui significati 
                  della scrittura sono un aspetto importante della lotta politica 
                  contemporanea: abbandonare il campo può essere mortale”. 
                  In molti altri punti Haraway e Wittig si incontrano e dall’una 
                  all’altra corre il pensiero rileggendole: “Quindi 
                  è nostro compito e soltanto nostro, definire quel che 
                  chiamiamo oppressione in termini materialisti, rendere evidente 
                  che le donne sono una classe, il che vuoi dire che la categoria 
                  ‘uomo’ come la categoria ‘donna’ sono 
                  categorie politiche ed economiche, non eterne”. (Donna 
                  non si nasce, 1981, Wittig).
 Così il cyborg: “è una creatura di un mondo 
                  post-genere: non ha niente da spartire con la bisessualità, 
                  la simbiosi pre-edipica, il lavoro non alienato o altre seduzioni 
                  di interezza organica ottenute investendo una unità suprema 
                  di tutti i poteri delle parti” (Haraway). È qui 
                  che ravviso una diversità di vedute tra il femminismo 
                  cyborg e la lesbica di Wittig, perché quest’ultima 
                  propende ancora all’umano, in senso idealistico (Wittig 
                  è di cultura umanista), mentre Haraway vive in un universo 
                  che è Scienza e dove le categorie dell’umano e 
                  del post-umano sembrano propendere infine per quest’ultimo.
 È certo però che la lesbica di Wittig mette a 
                  tal punto in crisi i linguaggi e i sistemi eterosessisti che 
                  non è nemmeno facile ricondurla pari pari all’umanesimo, 
                  per quanto rivisto.
 Wittig era consapevole di cosa significa ‘la costruzione 
                  sociale dei corpi’ e Haraway non solo ne è consapevole, 
                  ma ci invita a confrontarci con una costruzione dei corpi che 
                  dal punto in cui siamo potrebbe portarci, o avanti, o totalmente 
                  indietro.
 Credo di poter dire che entrambe hanno cercato di inventare 
                  una nuova po-litica (forse Haraway con più seguito), 
                  ma Wittig, 30 anni fa, si è scontrata con il mito della 
                  ‘Donna’ e della ‘differenza’ uscendone 
                  perdente.
 Viene ora riletta con quella impossibile nostalgia che si deve 
                  alle grandi, ma anche con l’impressione che danni irreparabili 
                  siano stati compiuti facendo passare un termine e un’ideologia 
                  reazionaria (la differenza sessuale) per un avanzamento.
 In Italia è arrivato poco della polemica che altrove 
                  ha imperversato e io stessa sono testimone dell’interesse 
                  e dell’entusiasmo che nelle nuove generazioni di lesbiche 
                  italiane suscita il pensiero di Wittig. Non bisogna però 
                  dimenticare che lei scriveva certe cose decenni fa e ora si 
                  può sì assumerle come parte dei nostri discorsi, 
                  ma senza dimenticare che altre mappe si sono aggiunte nel frattempo 
                  e leggerle, intersecandole, è fondamentale.
 In questo contesto è utile, per esempio (ed è 
                  stato fatto), rileggere Teresa de Lauretis e la sua lesbica 
                  né pre-edipica, né maschile, né isterica, 
                  con il cyborg di Haraway che, come ricordato sopra, è 
                  "creatura di un mondo post-genere”.
 La scrittura come sopravvivenza è parte integrante di 
                  ogni discorso contro il potere. Oggi non possiamo esimerci dal 
                  pensare che la parola ‘potere’ designa molti poteri 
                  e noi come marginali (veri marginali in questo mondo di somiglianti), 
                  dobbiamo riconoscere che molte parole (sinistra-differenza-multiculturalismo) 
                  designano più che un’alternativa solo altre ‘énclavi’, 
                  terreno di coltura per fondamentalismi-tagliatori di teste-risorgenti 
                  intolleranze; e che i corpi delle donne sono usati dai fondamentalisti 
                  perché su di loro venga di nuovo e di nuovo scritto il 
                  discorso che vogliono continuare a imporci: l’inferiorità.
 La complicità con questi discorsi non è solo letale, 
                  ma in ultima analisi è contro ogni diritto umano fondamentale 
                  e contro il mondo a venire.
 La presunta ‘divinità’ di certi assunti, 
                  parte integrante di ogni discorso fondamentalista, è 
                  esautorata da altre scoperte (non conosciute o tenute nascoste); 
                  per quanto riguarda la rivelazione che concerne il Corano, a 
                  titolo di esempio, “nel 1972 i lavoratori che restauravano 
                  la grande moschea di Sana, nello Yemen, scoprirono un’enorme 
                  pila di manoscritti semimarci, che misero in sacchi e conservarono.
 Tra quei fogli consunti, gli studiosi, scoprirono pagine di 
                  testi coranici risalenti ai primi due secoli dell’Islam.
 Sorprendentemente, alcuni contenevano varianti della versione 
                  oggi accreditata, offrendo interessanti indizi sulla storia 
                  testuale del libro sacro dell’Islam” (Matthew Battles).
 Secondo tutte le correnti dell’Islam invece, la versione 
                  del Corano non è mai cambiata dagli inizi, ma è 
                  stata ‘fedelmente’ trascritta. Con ‘fedelmente’, 
                  come con ogni estratto della parola fede, è possibile 
                  a quanto pare lavorare molto d’immaginazione.
 “La lingua scaglia covoni di realtà 
                  contro il corpo sociale” (Wittig).  Ne ‘Il Cavallo di Troia’ Wittig dà 
                  la sua visione della scrittura e di cosa essa possa significare. 
                  “Ogni opera letteraria è, al momento della sua 
                  produzione, come il cavallo di Troia. Ogni opera che ha una 
                  forma nuova funziona come una macchina da guerra, perché 
                  il suo intento e il suo scopo sono demolire le vecchie forme 
                  e le regole convenzionali. Un’opera simile si produce sempre in territorio ostile. 
                  E più questo cavallo di Troia appare strano, non-conformista, 
                  inassimilabile, più gli occorre tempo per essere accettato. 
                  Alla fin fine viene adottato e in seguito funziona come una 
                  mina, qualunque sia la sua lentezza iniziale. Scalza e fa saltare 
                  la terra in cui è stato piantato.
 Le vecchie forme letterarie alle quali siamo abituati alla lunga 
                  sembrano antiquate, inefficaci, incapaci di operare trasformazioni” 
                  (Wittig).
 La macchina da guerra di Wittig non ha nulla a che vedere con 
                  ogni sorta di scrittura impegnata o scrittura femminile, per 
                  la scrittrice francese infatti anche la scrittura ‘femminile’ 
                  è una formazione mitica così come ‘la Donna’ 
                  (‘formazione immaginaria’) e in quanto tale è 
                  messa in campo per confonderci. Wittig parla di due elementi 
                  con cui ogni scrittore ha a che fare: il primo, il corpus delle 
                  opere passate e presenti, l’altro ‘la materia bruta’. 
                  “Per la scrittura le parole sono tutto.
 Molti scrittori l’hanno detto e ripetuto, (...) e anch’io 
                  lo dico: nella scrittura le parole sono tutto. (...) Le parole 
                  giacciono là come una materia bruta a disposizione dello 
                  scrittore proprio come l’argilla è a disposizione 
                  dello scultore.
 Le parole sono ognuna di loro come il Cavallo di Troia. Sono 
                  delle cose, delle cose materiali, e allo stesso tempo hanno 
                  un senso. Ed è perché hanno un senso che sono 
                  astratte. Sono un condensato di astrazione e di concretezza 
                  e in questo sono completamente diverse da tutti gli altri medium 
                  di cui ci si serve per creare arte” (Il Cavallo di Troia).
  Lo shock delle parole   Ma, perché “in letteratura le parole ‘siano’ 
                  date da leggere nella loro materialità”, è 
                  necessario operare “una riduzione sul linguaggio che lo 
                  spoglia del suo senso allo scopo di trasformarlo in un materiale 
                  neutro – cioè materia bruta”. Senza questa 
                  operazione si rischia di impantanarsi non solo nel vecchio, 
                  ma nel mediocre. A tal proposito ricordo un consiglio della 
                  poeta e scrittrice Mariella Bettarini, che, invitandomi a lavorare 
                  le parole ‘con più severità’, mi metteva 
                  in guardia dal cadere nel fare ‘diario’, non più 
                  in là insomma dell’autocoscienza. “Per Schklovski, un formalista russo, le persone smettono 
                  di vedere i diversi oggetti che le circondano, gli alberi, le 
                  nuvole, le case. Li riconoscono senza guardarli veramente. E 
                  secondo Schklovski il compito dello scrittore è di ricreare 
                  la prima visione delle cose nella sua potenza, in contrasto 
                  con il banale riconoscimento che se ne fa tutti i giorni. Ciò 
                  che lo scrittore ricrea è effettivamente proprio una 
                  visione, ma non si tratta di quella delle cose ma piuttosto 
                  della prima visione delle parole, nella sua potenza. (...) È 
                  quello che io chiamo fare centro con le parole” (Wittig).
 Una simile visione della letteratura dovrebbe rendere giustizia 
                  a Monique Wittig, permettendo anche a chi la denigra per opportunismo 
                  ideologico di riconoscere l’ampiezza del respiro che la 
                  sosteneva e la guidava. Lo shock delle parole proveniva per 
                  la scrittrice non dai concetti, ma dalle parole stesse, da come 
                  erano/sono disposte. Il lavoro sulle parole/con le parole è 
                  quello che fa la letteratura. Nella letteratura “le parole 
                  ci vengono rese intere. La letteratura può insegnarci 
                  qualcosa che può servire in qualunque altro campo: quando 
                  le parole lavorano, la forma e il contenuto non possono essere 
                  disso-ciati perché dipendono dalla stessa forma, la forma 
                  della parola, una forma materiale”. Ma perché in 
                  letteratura possa darsi una macchina da guerra, cioè 
                  un’opera realmente innovativa, è necessario che 
                  il punto di vista dell’autore si faccia da ‘particolare’, 
                  universale".
 “L’impresa più essenziale e strategica del 
                  lavoro di ogni scrittore consiste nell’universalizzare 
                  questo punto di vista” (Wittig).
 L’opera di Proust, come quella Djuna Barnes, 
                  sono da questo punto di vista, per Wittig, perfettamente riuscite. 
                  “Più il punto di vista è particolare e più 
                  l’impresa di universalizzazione esige un’attenzione 
                  sostenuta agli elementi formali che sono suscettibili di essere 
                  aperti alla storia come i temi, i soggetti del racconto e contemporaneamente 
                  alla forma globale del lavoro” (ibidem).  Il duro lavoro con le parole è dovuto anche al fatto 
                  che, come scriveva Virginia Woolf, la loro caratteristica più 
                  ‘sorprendente’ è ‘il loro bisogno di 
                  cambiare’. Troppo devono dire e infinite sono le narrazioni 
                  del mondo che le aspettano (e noi con loro) perché non 
                  cambino. In questo senso è grazie “a questa loro 
                  complessità che esse sopravvivono" (V. Woolf).    Parole non solo 
                  per me Questo scritto non sarebbe completo, però, se in sintonia 
                  con la prassi femminista e lesbica a cui tanto devo, non vi 
                  aggiungessi una nota personale. Una nota sulla lettura. Ho avuto 
                  (ho), un rapporto con i libri – nella loro materialità 
                  e non solo testualità – molto intenso. Il desiderio 
                  di scrittura è sempre stato nel doppio senso di scriverla 
                  e leggerla. La storia che racconto non ha nulla di eccezionale, 
                  ma oggigiorno è bene ricordarla proprio perché 
                  tutto è più facile. Alla fine degli anni ’70 e nei primi anni ’80, trovare 
                  in Italia letteratura lesbica era difficile. In tal senso ricordo 
                  “II pozzo della solitudine” della Hall e più 
                  in senso lato “La Ragazza di nome Giulio” di Milena 
                  Milani, che sfiorava il tema. Li lessi con grandi aspettative. 
                  Scovai Wittig (il Corpo Lesbico) nella Libreria delle Donne 
                  di Milano (si era già a metà anni 80, in pieno 
                  riflusso) e in via Dogana stazionavano con le loro tenute alla 
                  moda i paninari, imperversavano i discorsi revisionisti e le 
                  Timberland, le idee cominciavano a scarseggiare.
 Leggere libri con la parola ‘lesbica’ o ‘lesbico’ 
                  a caratteri grandi sulla copertina vivendo in famiglia, era 
                  un’impresa non da poco. Non ancora effettivo il coming 
                  out, ricoprivo i libri (ricopertinandoli) con una spessa carta 
                  verde da pacco (e tali sono rimasti, in memoria). In una delle 
                  postfazioni a “Elementi di Critica omosessuale” 
                  di Mieli, uno studioso (mi pare americano), auspicava che la 
                  nuova edizione degli “Elementi”, potesse ormai essere 
                  letta e lasciata in bella vista sul tavolo di casa, per la visione 
                  di amici e parenti.
 Venti anni fa questo semplice atto era a tal punto difficile 
                  che si era presi da un’angoscia esistenziale che ricordo 
                  e potrei descrivere ancora oggi. I libri erano però letti 
                  con debita sottolineatura. L’entusiasmo e l’amore 
                  per corpi e parola correvano nel segreto dei discorsi e dei 
                  gesti, fatti con le amiche di militanza. In tal senso “Il 
                  corpo lesbico” di Wittig, divenne un corpo – 
                  letteralmente – e da lì, data la pazienza e la 
                  ricerca, mai lontane dalla vita, che molte intrapresero intorno 
                  e dentro i libri non tradotti o poco tradotti di Monique Wittig. 
                  La biblioteca per molto tempo mi ha messo in difficoltà, 
                  e perché la vivevo solo come un posto per studenti, e 
                  perché fruire libri di argomento lesbico in pubblico 
                  era imbarazzante.
 Prevaleva così l’acquisto in libreria e la lettura 
                  privata-appartata. Molta acqua doveva passare sotto i ponti 
                  perché l’orizzonte personale, prima e poi politico 
                  si allargassero. Nel frattempo vi sono stati gli anni trascorsi 
                  a Firenze e poi in altri posti e proprio gli anni a Firenze 
                  – con l’Amandorla, Liana Borghi e le altre compagne, 
                  li chiamo affettuosamente gli anni del ‘rinascimento (lesbico) 
                  fiorentino’, quando ho avuto modo di ascoltare i discorsi 
                  – prima capendoci poco, poi di più – che 
                  sono anche in questo scritto. Da scrittura a scrittura, in un 
                  gioco di citazioni e rimandi impegnativo, se le parole sono 
                  anche forma d’amore, è alla nostra narrazione collettiva 
                  – che in senso ampio comprende il “rinascimento 
                  fiorentino”, di cui ho parlato sopra, ma anche il CLI 
                  degli anni di Rosanna Fiocchetto e Giovanna Olivieri e i gruppi 
                  di ragazze incontrate lungo la strada lunghissima, percorsa 
                  attraversando linguaggi/speranze/emozioni/ amicizie/politiche/desideri/sogni/amori/amore 
                  e soprattutto vivendo sui confini, da margine a margine, in 
                  un conflitto, una tensione interiore da cui non si esce vincenti, 
                  ma cambiate – , che do queste pagine, consegno ‘parole’ 
                  che sono o vorrebbero essere non solo per me.
  Nadia Augustoni
 *Ringrazio Silvia Paradisi per la traduzione di 
                  “Il Cavallo di Troia” e Rosanna Fiocchetto per quella 
                  di “The Straight Mind” da lei già fatta uscire 
                  nella ‘Bollettina’ del CLI, 1990. Ringrazio Rosanna 
                  Fiocchetto anche per il materiale fornitomi su Monique Wittig 
                  (testi di interviste, articoli, segnalazioni e per l’introduzione 
                  da lei fatta per ‘Brogliaccio, per un dizionario delle 
                  amanti’, di cui parlo all’inizio di questo testo). 
                  Inoltre la ringrazio per avermi permesso di usare la bibliografia 
                  di W/ittig da lei compilata . Ringrazio le amiche che hanno 
                  letto questo testo dandomi utili consigli.  Note 1. 
                  Queste notizie sono in ‘I sessi sono due ‘ Di A. 
                  Fouque, Pratiche Editrice 1999. Altre notizie le devo a Rosanna 
                  Fiocchetto: nel I970 tre femministe francesi fecero un’azione 
                  all’Arco di Trionfo, depositarono una corona di fiori 
                  al monumento al milite ignoto recando un biglietto con la scritta: 
                  ‘ metà degli uomini sono donne’. L’episodio 
                  è noto, meno i nomi delle tre militanti: Monique Wittig, 
                  Margareth Stephenson (Namascar Shaktini), Cristiane Rochefort. 
                  Il manifesto ‘Combat pour la libération de la femme’ 
                  è di Monique Wittig, Gilles Wittig, Margareth Stephenson 
                  e Marcia Rothenburg.
 2. Tutte le citazioni di Leo Bersani a seguire, sono tratte 
                  da “Homos” 1994, Pratiche Edizioni.
 3. Non bisogna dimenticare infatti che Wittig proveniva dall’ambito 
                  del femminismo francese, particolarmente di quello che si definiva 
                  ‘femminismo materialista’ (Christine Delphy) e non 
                  è mai stata o diventata antifemmi-nista pur essendo stata 
                  tra le prime a criticare costruttivamente le teorie essenzialiste 
                  di Luce Irigaray e altre. Nell’introduzione a “The 
                  Straight Mind ringrazia e riconosce il debito che ha con le 
                  femministe francesi dell’area di “Questions Feministes”, 
                  tra loro anche l’italiana Paola Tabet.
 4. La differenza tra il pensiero di Wittig e quello di B. Preciado, 
                  J. Butler e Teresa de Lauretis è soprattutto sulla questione 
                  identitaria. Wittig postula il ‘soggetto’ lesbica, 
                  le altre teoriche propendono per una politica non identitaria 
                  o postidentitaria. Sottolineo più avanti comunque come 
                  la lesbica di Wittig sia un soggetto destabilizzante per l’eterosessismo, 
                  molto più, a volte, dell’inafferrabile non-soggetto 
                  queer.
 5. La polemica tra M. Wittig e Hélène Cixous fu 
                  accesa. Cixous è tra le più note esponenti di 
                  quel filone di pensiero denominato ‘scrittura femminile’. 
                  Vedere anche: “II Riso della Medusa” di H. Cixous, 
                  in Critiche femministe e teorie letterarie, Clueb, Edizioni 
                  Bologna 1997.
    
                  
                     
                      | Bibliografia 
                         Bersani 
                          Leo, 1994 – Homos – Edizioni Pratiche 
                          Parma I999 Battles M., 2004 – Biblioteche una storia 
                          inquieta – Carocci Editore
 Bhabha Homi, 2004 – II Diritto alla Scrittura, 
                          in La debolezza del più forte: globalizzazione 
                          e diritti umani – Mondadori
 Butler Judith, 1990 – Scambi di Genere 
                          – Sansoni, 2003
 Butler Judith, I991 – Corpi che contano 
                          – Feltrinelli, 1996
 De Lauretis Teresa 1994 – Pratica d’amore 
                          – La Tartaruga, 1996
 1996 – Sui Generis – Feltrinelli 
                          1999 – Soggetti Eccentrici – Feltrinelli
 Fiocchetto Rosanna 2003 – Introduzione a "Brogliaccio 
                          per un Dizionario delle amanti" di prossima 
                          uscita
 Fouque Antoinette 1999 – I sessi sono due 
                          – Pratiche editrice, Parma Haraway Donna, 1996 
                          – Manifesto Cyborg – Feltrinelli
 Mieli Mario 1979 – Elementi di Critica Omosessuale 
                          – Feltrinelli, 1999
 Milena Milani – La ragazza di nome Giulio 
                          – Mondadori
 Rothblatt Martine 1995 – L’Apartheid 
                          del sesso – II Saggiatore,1997
 Tabet Paola – Riproduzione imposta, sessualità 
                          mutilata, in DWF, n 23/24, 1985
 Hall R. 1928 – II Pozzo della solitudine 
                          – Rusconi
 Wittig Monique 1969 – Le Guerrigliere 
                          – Edizione pirata a cura de "Le lesbacce 
                          incolte" 1995 Bologna
 1973 – II corpo lesbico – Edizioni 
                          delle Donne 1976
 1964 – L’Opoponax – Einaudi 
                          1966
 1992 – The Straight Mind – non 
                          tradotto
 Woolf Virginia 1937 – II Mestiere delle Parole, 
                          in "Come si legge un libro?”, Baldini e Castoldi 
                          1999
 Preciado Beatriz 2000 – Manifesto Contra-sessuale 
                          – II Dito e la Luna
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