| La consueta pausa decembrina 
                  della rivista non ha consentito il commento tempestivo sull’esito 
                  delle elezioni presidenziali americane. Non me ne rammarico 
                  più di tanto: l’urgenza di parlarne e l’impatto 
                  emotivo finiscono quasi sempre per oscurare le ragioni profonde 
                  dell’evento e le conseguenze non immediate che ne conseguono. 
                  Il dato incontestabile e destinato a pesare a lungo è 
                  che al di là dell’Oceano, lo spirito di frontiera, 
                  il fondamentalismo religioso ed una melensa mistura patriottardo-revanchista 
                  hanno prevalso sull’altra America più riflessiva, 
                  meno propensa a scommettere tutto sul rosso e nero della potenza, 
                  sulla protervia della guerra preventiva e del “Dio è 
                  con me, quindi se avanzo seguitemi”.
 Non è un bel vedere quello di un paese che si affida 
                  interamente ad un uomo e ad un’amministrazione che ritengono 
                  il resto del mondo un terreno al quale imporre la propria logica, 
                  fidando esclusivamente sulla potenza terroristico-militare. 
                  Ma questo è il dato con il quale sempre più chiaramente 
                  dovremo fare i conti. Del resto, i dubbi sulla vittoria di Bush 
                  erano pochi, quello che piuttosto ha sorpreso è l’entità 
                  di questa vittoria: la percezione pre-elettorale era che lo 
                  scarto tra i due contendenti non sarebbe risultato così 
                  rilevante. Tre milioni circa di voti sono un divario notevole 
                  e tagliano corto su qualsiasi riserva sull'esito delle elezioni.
 Ma se il trionfo di Bush e dei suoi accoliti è innegabile, 
                  esso pone tutta una serie di questioni di non poca rilevanza, 
                  per quel che riguarda nello specifico l’America, ma anche, 
                  ed è inevitabile, per il potere di pressione che questa 
                  potenza ha per le sorti del mondo e, più limitatamente 
                  (per la dimensione dell’area ma non per il suo peso specifico), 
                  per l’intero assetto dell’Occidente.
 In questa sede ne analizzerò a grandi linee soltanto 
                  due, che mi sembrano di particolare rilievo.
   Senza il minimo senso critico La prima questione è relativa allo stato d’opera 
                  della democrazia in quel paese (e non soltanto). Fatta eccezione per i poteri forti (e oscuri) e per gli interessi 
                  consolidati, la natura del voto che ha portato Bush per la seconda 
                  volta alla Casa Bianca, è di segno fideistico-resistenziale: 
                  l’America è attaccata dal terrorismo fondamentalista 
                  e Bush è il politico che ha avuto meno reticenze nell’affrontarlo.
 L’attentato alle torri gemelle richiedeva una risposta 
                  decisa e Bush l’ha data, attaccando prima l’Afghanistan 
                  e poi l’Iraq. Senza il minimo di senso critico, senza 
                  neppure porsi il problema del rapporto costi/benefici, milioni 
                  di americani, occupati e disoccupati, studenti, cittadini delle 
                  metropoli e contadini dispersi nelle vaste plaghe degli Stati 
                  Uniti hanno scelto senza esitazione il loro condottiero. Vista 
                  da questa angolazione, e soltanto da questa, la legittimazione 
                  del potere conferito all’amministrazione repubblicana 
                  è indubbia: la maggioranza dei cittadini americani, nei 
                  limiti imposti dal vigente sistema elettorale, ha votato per 
                  Bush e Bush sarà chiamato a decidere per tutti. Ma questo 
                  del voto popolare è solo un aspetto, anzi, un passaggio, 
                  obbligato ma non esaustivo per l’attuazione di una società 
                  che intende definirsi democratica: poi c’è la Costituzione 
                  e tutta una serie di istituzioni, interne ed internazionali, 
                  liberamente costituite o alle quali si è liberamente 
                  aderito, che costituiscono limiti ineludibili all’interno 
                  dei quali la volontà popolare può e deve compiutamente 
                  attuarsi.
 Se considerato complessivamente, a me pare che lo stato della 
                  democrazia americana non possa considerarsi ottimale, a principiare 
                  proprio dal sistema elettorale, reso artificiosamente farraginoso, 
                  che seleziona per censo i candidati e costringe i cittadini 
                  più che ad esercitare un diritto, quello del voto appunto, 
                  a doverne ricorrentemente rivendicare la facoltà d’esercizio.
 Un sistema elettorale che istituzionalizza il prepotere di quegli 
                  interessi costituiti che, investendo (e il termine è 
                  proprio) sul candidato più sensibile alle loro aspettative, 
                  legittimamente si attendono che, nel corso del suo mandato, 
                  l’eletto, tali interessi rappresenti e persegua.
 Ma c’è dell’altro. Nel programma dell’amministrazione 
                  Bush, bene amplificato dalla propaganda elettorale, le istanze 
                  dell’integralismo cristiano, cattolico e protestante, 
                  sono state fatte proprie dal programma repubblicano e sono, 
                  di fatto, inserite in atti pubblici. A parte le pittoresche 
                  baggianate delle rivelazioni divine a presidio delle decisioni 
                  del bovaro texano, ci sono atti di governo concreti, già 
                  operativi o minacciati, che stanno lì a dimostrare come 
                  la rappresentanza popolare del governo Bush sia fortemente sbilanciata 
                  a favore di una minoranza, la più retriva, del popolo 
                  americano, quella che si oppone alla ricerca scientifica in 
                  settori chiave della salute e della salvaguardia dell’ambiente, 
                  che nutre sentimenti ostili nei riguardi di negri, meticci ed 
                  omosessuali, che minaccia di rivedere in senso fortemente restrittivo 
                  le norme che regolano il divorzio e l’aborto e così 
                  via dicendo, in un elenco assai lungo e articolato di “promesse” 
                  minacciose.
 Come sappiamo bene noi in Italia, si tratta di istanze d’una 
                  certa chiesa , integralista e certamente minoritaria all’interno 
                  stesso del mondo (minoritario) dei credenti, che tende a distorcere 
                  le funzioni di uno Stato laico in senso confessionale. Tutto 
                  ciò nella presunzione di Verità rivelate che non 
                  trovano diritto di cittadinanza in nessun codice di diritto 
                  pubblico, dall’epoca dei Lumi in poi, per l’ovvia 
                  ragione che emarginerebbero tutti coloro tra i cittadini che 
                  legittimamente non credessero in quelle Verità.
 
  Indifferenza e disprezzo assoluti
 Infine, a rafforzare i dubbi sui comportamenti compatibili 
                  con un sistema di relativa democrazia dell’amministrazione 
                  Bush, c’è l’assoluta indifferenza, quando 
                  non addirittura il disprezzo, verso tutte quelle istituzioni 
                  sovrannazionali, alle quali, a vario titolo, l’America 
                  aderisce, quando queste osino avanzare dubbi o addirittura si 
                  oppongano a decisioni destinate a destabilizzare lo scenario 
                  internazionale. La teorizzazione della guerra preventiva e l’iniziativa 
                  bellica in Iraq offrono un catalogo sufficientemente esaustivo 
                  di come l’amministrazione repubblicana, risultata vincente 
                  alle recenti elezioni, interpreti le norme della democrazia, 
                  che, oltretutto, per eccesso di arroganza, intende esportare. 
                  Alla fine di questo discorso, non vorrei che mi si attribuissero 
                  simpatie per il sistema democratico: il mio intento, in questo 
                  caso specifico ma assai più in generale, in tutto quello 
                  che pratico e scrivo, è quello di dimostrare come le 
                  stesse regole che il mondo capitalistico occidentale si è 
                  dato per la sopravvivenza di una società che sia, almeno 
                  di facciata, credibile, non reggono più. Anzi, finiscono 
                  con il creare più problemi di quanti non ne risolvano, 
                  in una spirale che ne decreterà prima o poi la fine ingloriosa.
 La seconda questione posta dalla rielezione di George Bush riguarda 
                  le conseguenze che essa avrà sullo scenario internazionale. 
                  Non vi è alcuna ragione che induca ad ipotizzare un mutamento 
                  di rotta nelle scelte della Casa Bianca. Anzi l’ascesa 
                  di Condoleeza Rice al segretariato di Stato al posto del più 
                  riflessivo Colin Powell lascia intuire un inasprimento dei conflitti 
                  (militari e non) ingaggiati in questi ultimi quattro anni dagli 
                  Stati Uniti con l’intero mondo arabo ma non solo.
 Si avrà così un’America più aggressiva 
                  ma anche più isolata, costretta ad un angolo per aver 
                  voluto aprire conflitti non solo con gli stati definiti canaglia, 
                  ma anche con alleati tradizionali, gli stati europei (quelli 
                  che contano) contrari ad avventure che giustamente ritenevano 
                  avventate.
 E’ palese che, a meno di una svolta che non si scorge 
                  all’orizzonte, l’amministrazione americana si è 
                  posta nella scomoda posizione di dover dimostrare ai suoi critici 
                  di poter uscire da sola dai bui tunnel nei quali si è 
                  cacciata, per miopia politica, certo, ma soprattutto per cieca 
                  arroganza. In Iraq, per fare l’esempio più pregnante 
                  e attuale, sarà costretta a perseguire la strada senza 
                  uscita della terra bruciata. Dopo Falluja, ormai resa un cumulo 
                  di macerie, sarà la volta delle città curde e 
                  poi a sud nel vivo del territorio sciita. Sarà questa, 
                  se effettivamente attuata, una strategia dissennata che non 
                  porterà da nessuna parte.
 La resistenza si sposterà da una parte all’altra 
                  del Paese e non darà tregua ad una coalizione che non 
                  ha le forze per contrastarne tutte le mosse.
 Progressivamente, il governo Allawi, già minato da contrasti 
                  interni, inviso alla popolazione e sempre più in difficoltà 
                  nel reperire forze per sostenerne l’impegno (gli attacchi 
                  della guerriglia contro i centri di reclutamento cominciano 
                  a dare i loro frutti), svelerà il suo vero volto di pedissequo 
                  esecutore di ordini altrui. Se mai si terranno, le prossime 
                  elezioni di gennaio saranno l’ulteriore farsa di una tragedia 
                  gigantesca che scuote l’intero contesto mondiale. Perché 
                  i nodi finiscono sempre per venire al pettine e il maldestro 
                  tentativo di coalizzare alleati ed ex avversari contro lo spettro 
                  del terrorismo (con consensi taciti o espliciti ad altri genocidi, 
                  come quelli che si perpetuano in Cecenia o nel Tibet) può 
                  semmai sopire ma non sanare i contrasti di fondo che affliggono 
                  il pianeta. La questione ucraina, ad esempio, ha incrinato già 
                  l’idillio tra Bush e Putin.
 È così riemerso un confronto vero e duro sugli 
                  equilibri militari in un settore strategico delicatissimo. Con 
                  il fomentare (o, che è lo stesso, essere percepiti come 
                  coloro che fomentano) il distacco dell’Ucraina dall’area 
                  di influenza russa gli americani mostrano di voler cogliere 
                  l’occasione di un conflitto interno per spostare ancora 
                  più ad est la loro influenza, già consolidata 
                  dalla presenza di loro insediamenti militari in nazioni amiche 
                  come la Polonia.
 Ma anche questo appare un calcolo miope. L’esito del voto 
                  di ballottaggio del 26 dicembre, intanto non è certo 
                  stato un voto plebiscitario a favore di Yuchenko, il candidato 
                  filo occidentale (51,6% contro il 44,4% del suo avversario), 
                  poi rischia di ripristinare un clima da guerra fredda che Bush, 
                  esposto com’è in Medio Oriente, in questo momento 
                  non può proprio consentirsi. Solo che, a prescindere 
                  dalle intenzioni, intanto l’amministrazione americana 
                  dovrà pure giustificare in qualche modo il suo eventuale 
                  disimpegno, dopo aver abbondantemente finanziato, tramite la 
                  solita CIA, il partito del presidente amico e il movimento di 
                  Kiev; poi non potrà evitare che la Russia di Putin avverta 
                  maggiormente il pericolo di un accerchiamento, un accerchiamento 
                  che appare già attuale e minaccioso negli incerti confini 
                  della Federazione (ad oriente Corea, Cina, Mongolia e Kazakistan; 
                  ad occidente Lettonia, Estonia e giù sino alla Ucraina 
                  e alla Polonia).
 Già in un discorso alla Duma del 4 settembre, lo stesso 
                  Putin dichiarava che la Russia è in guerra contro coloro 
                  che, all’interno della Federazione e fuori di essa, brigano 
                  per minare l’unità della nazione. L’allusione 
                  all’America è trasparente.
   La castagna e il fuoco Se questo clima di conflittualità sommersa dovesse perdurare, 
                  neppure gli europei potranno alla lunga sentirsi tranquilli. 
                  Il rimanere coinvolti in un conflitto con il mondo eurasiatico 
                  in assenza di motivazioni incombenti, e, soprattutto, per iniziativa 
                  unilaterale di un solo paese membro della NATO senza una preventiva 
                  valutazione congiunta delle conseguenze: insomma, il vedersi 
                  imbarcati in un’avventura dagli sbocchi difficili da valutare 
                  non sarebbe per i Paesi europei cibo facile da digerire.
 Se a tutto ciò si aggiunge che l’Europa sembra 
                  sempre meno propensa a prestare le proprie mani per togliere 
                  la castagna irachena dal fuoco che la arde, si potranno percepire 
                  appieno le difficoltà che attendono la diplomazia americana 
                  nel prossimo futuro.
 Abbiamo aperto due finestre soltanto per puntualizzare il progressivo 
                  accentuarsi dell’isolamento in cui la politica di Bush, 
                  e dei falchi che la fomentano, costringe la nazione americana. 
                  Ed è un isolamento che aumenta i rischi per quel che 
                  resta della pace nel mondo, perché la percezione di essere 
                  assediati dalla generale diffidenza può indurre a reazioni 
                  inconsulte.
  Antonio Cardella
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