|  
                     
                    Dicembre 2004  Sembra che a Milano, in questura, si aggiri un fantasma. 
                      Un mio conoscente, il signor B., mi ha rivelato un episodio 
                      accadutogli non molti giorni fa.
 Venendo di notte dalla stazione centrale si trovò 
                      a passare da via Fatebenefratelli dove, appunto, ha sede 
                      la questura. Guidava lentamente in quella calma notturna 
                      senza traffico quando, staccando gli occhi dalla strada: 
                      ”Toh, guarda, si disse, come si agita al vento quel 
                      lenzuolo!”
 Ma non c’era vento.
 C’era la nebbia. Poca. Una luce fredda priva di colore, 
                      e quella figura bianca sul davanzale della finestra che, 
                      a dire il vero, non dava l’idea di un semplice lenzuolo.
 … che fosse un fantasma?
 Ma i fantasmi bazzicano gli antichi castelli e le case scricchiolanti 
                      nelle brughiere, i quartieri abbandonati anche, ma in pieno 
                      centro cittadino, in questura poi… Mai sentito!
 Per non dire che gli spettri attendono i rintocchi della 
                      mezzanotte prima di venir fuori, è cosa risaputa, 
                      e alla mezzanotte mancava ancora un buon quarto d’ora, 
                      l’orologio parlava chiaro.
 Gli venne in mente persino una poesia di Trilussa dove un 
                      vecchio, lui solo fra tanta gente spaventata, pensa:
 Io senza dubbio vedo che è un lenzuolo ma più che dir la verità da solo
 preferisco sbajamme in compagnia.
 Dunque è un fantasma, senza discussioni.
 Ma… altra storia questa. Provò a darsi una spiegazione sensata: la stanchezza, 
                      il sonno che avanza… Qualche volta la notte proietta 
                      film girati senza cinepresa e per farli dileguare basterebbe 
                      bagnarsi il viso con l’acqua fredda delle fontanelle.
 A trovarne una però! E di bar aperti a quell’ora 
                      neanche l’ombra.
 I palazzi erano bui e quieti, perfino troppo, come se gli 
                      abitanti fossero andati via chissà per quale ragione 
                      misteriosa. Insomma, pareva esserci solo il fantasma.
 Ed eccolo staccarsi dal davanzale, rimanere sospeso, precipitare 
                      nella strada. Lungo disteso sul selciato, come morto.
 Poi si era alzato, era sparito, era riapparso alla finestra 
                      e si era lasciato cader giù di nuovo. Una volta, 
                      due volte, più volte.
 Un fantasma che si suicidava.
 Il signor B. lasciò che il motore si spegnesse e 
                      rimase lì con le mani sul volante, immobile, come 
                      marmorizzato.
 Si sa di morti che restano nel luogo dove sono morti, di 
                      luci che si accendono e inspiegabilmente si spengono, di 
                      passi e voci in case disabitate, anche di spettri affacciati 
                      alle finestre.
 Il signor B. sentiva un brivido percorrergli la schiena.
 Nel palazzo di fronte un balcone si aprì e si richiuse 
                      con sbatacchiare frettoloso, ma nella strada nemmeno un 
                      passante, solo la nebbia e il fantasma. Pareva guardare 
                      verso di lui, ora, verso la macchina. La fissava. Poi si 
                      mosse lentamente, la raggiunse, fece segno di voler salire.
 Come dire di no a un fantasma?
 E aprì la portiera, mise in moto.
 “Dove vuole che andiamo ?” ed era stupito di 
                      avere ancora un fil di voce.
 Non ebbe risposta. Ma improvvisamente, inspiegabilmente, 
                      il signor B. seppe il percorso che doveva fare: piazza della 
                      Repubblica, via Manzoni, il Duomo con la Madonnina, piazza 
                      Castello…
 Una corsa nella notte attraverso la città illuminata, 
                      le statue come sentinelle, la luce cruda dei lampioni, quella 
                      violenta delle insegne. Lui e il fantasma, in macchina.
 Roba da non crederci. Che storia, che storia! Guarda cosa 
                      doveva capitarmi stasera!
 Ma poi di colpo: in una sera come questa, molti anni fa, 
                      in questura, non era successo un fatto strano?
 Sicuro, ma sicuro, ne avevano parlato tivù e giornali!
  
 dicembre 1969  In quella stanza dell’ufficio politico della questura, 
                      in via Fatebenefratelli, al quarto piano, c’erano 
                      il commissario, un ufficiale dei carabinieri, un sottufficiale, 
                      e l’uomo da interrogare. Come aveva trascorso le ultime ventiquattro ore, volevano 
                      sapere.
 Era scoppiata una bomba alla banca dell’Agricoltura, 
                      una strage con decine di morti, feriti, e un ragazzo condannato 
                      alla sedia a rotelle per tutta la vita.
 L’uomo rispondeva calmo, tranquillo: dove aveva trascorso 
                      la giornata potevano testimoniarlo in tanti…
 “Quel giorno, a quell’ora, Pino era al bar.” 
                      Così il barista.
 E il fornaio e il vigile urbano del quartiere: “Abbiamo 
                      giocato a carte, gli abbiamo vinto anche dei soldi.”
 Ma dopo quel volo dal quarto piano il questore dichiara 
                      alla stampa:
 “Il suo alibi non reggeva, non c’erano riscontri, 
                      e l’abbiamo visto alzarsi all’improvviso, aprire 
                      la finestra e buttarsi sotto.”
 “Si è avvicinato alla finestra che era aperta 
                      e inavvertitamente è scivolato giù” 
                      così invece il commissario.
 Un cronista però gli aveva fatto notare che la finestra 
                      era alta e l’uomo non avrebbe nemmeno potuto scavalcarla 
                      con il suo metro e sessantasette di statura.
 Di sicuro l’uomo era morto, l’omicidio veniva 
                      escluso, e il suicidio (era stato dimostrato) era tecnicamente 
                      impossibile.
 Una storia complicata e scritta con lenti di colore diverso.
 Molti affermavano che parlare di suicidio era solo una leggenda 
                      metropolitana; per altri era leggenda metropolitana parlare 
                      di omicidio.
 Ricostruiva i suoi ricordi il signor B., si dimentica, 
                      certo, ma se si dà una scrollatina alla polvere del 
                      tempo tutto ritorna come fosse ieri. Invece era successo 
                      nel dicembre del 69. Il giorno del funerale la strada era piena di folla: bandiere 
                      nere, bandiere rosse, tanta gente senza bandiere; giovani 
                      ma anche anziani, vecchi, sconosciuti, compagni, amici. 
                      E la moglie, piccola, minuta, chiusa in un cappotto lungo.
 Freddo, un gran freddo quel giorno.
 Ripensava a quei fatti il signor B. e continuava a guidare, 
                      accanto al fantasma immobile. Avevano lasciato il centro, 
                      superata Porta Genova, erano già al quartiere Ticinese, 
                      ai Navigli.
 Fredda, quasi bagnata, la luce cambiava. Vie piene di ombre 
                      e di silenzi, case poco illuminate, più lontano una 
                      chiesa e il buio che sostava sull’acqua del canale, 
                      catturava un’ombra che spariva in un portone.
 Il fantasma d’improvviso fece un cenno, indicò 
                      una strada, una casa, una come tante, con i fiori alla finestra 
                      e nel balcone disegni scoloriti di bambini ormai cresciuti.
 Si fermarono. Un gatto miagolò, una saracinesca calò 
                      nel silenzio.
 Anche la casa era immersa nel silenzio, ed era buia, forse 
                      disabitata, ma il fantasma la guardava, guardava quella 
                      casa, e il signor B. guardava lui.
 Lo poteva vedere solo di profilo, e forse per colpa della 
                      luna, apparsa all’improvviso nel triangolo dei tetti, 
                      non capiva se erano giochi di luce o lacrime quelle sul 
                      lenzuolo bianco del fantasma.
   Olga Foti La 
                  casa editrice Net ha ripubblicato, nel mese di novembre 2004, 
                  il libro di Camilla Cederna, Pinelli: una finestra sulla 
                  strage, pagine 176, € 8,00, con l’introduzione 
                  di Enrico Deaglio.  
 Dall’introduzione:Milano, 12 dicembre 1969: una bomba esplode nella Banca dell’Agricoltura 
                  di piazza Fontana causando 17 morti e 85 feriti. La polizia 
                  ferma alcuni esponenti del movimento anarchico, tra cui Pietro 
                  Valpreda e il ferroviere Giuseppe Pinelli che, la notte tra 
                  il 15 e il 16 dicembre, precipiterà da una finestra della 
                  questura milanese. È suicidio, incidente o defenestrazione? 
                  La cronista dell’Espresso Camilla Cederna è tra 
                  i primi ad arrivare sul luogo della tragedia. Nelle settimane 
                  successive continua a occuparsi del caso e, in particolare, 
                  del processo per diffamazione intentato dal commissario Calabresi 
                  contro il giornale “Lotta continua”, dopo la pubblicazione 
                  di una serie di articoli che lo accusavano della morte di Pinelli. 
                  Attraverso interviste, testimonianze e trascrizioni delle udienze, 
                  la ricostruzione della Cederna svela incongruenze e occultamenti 
                  sulle cause della morte del ferroviere anarchico e restituisce 
                  con fedeltà il clima politico di quegli anni: l’ambiente 
                  della questura e quello del tribunale, magistrati frettolosi, 
                  poliziotti elusivi e una Milano grigia e turbata, pattugliata 
                  dalle camionette delle forze dell’ordine.
 “Quella 
                  sera a Milano era caldo ma che caldo che caldo faceva è bastato aprir la finestra una spinta e Pinelli cascò.”
 dalla Ballata di Pinelli.
 |