|  Radici cristiane? Prego, si accomodi
 Dagli al prete nero! 
                 Tempi duri, per i cristiani d’Europa: mentre gli zii 
                  d’America (lo dice il ragionamento stesso) se la passano 
                  assai bene, nel vecchio continente c’è un’aria 
                  di persecuzione che nemmeno Nerone. Li perseguitano un po’ 
                  tutti, bisogna dirlo. E dire che loro, i cristiani, fanno l’impossibile 
                  per farsi benvolere come dimostra, tanto per fare un esempio, 
                  la recente legge sulla procreazione assistita da loro ispirata, 
                  lodata financo da un mangiapreti come Rutelli. Così, tra un episodio di intolleranza e una prevaricazione 
                  (si pensi all’annosa questione del crocifisso nelle scuole 
                  pubbliche, o al fatto che la curia debba assumersi l’onere 
                  di scegliere gli insegnanti di religione pagati dallo stato), 
                  si è arrivati fino al gesto estremo compiuto, in due 
                  tempi, dal parlamento europeo in spregio di quel filosofo di 
                  Buttiglione Rocco, respinto in favore di Frattini al solo scopo 
                  di aggiungere la beffa al danno.
 I cristiani però, che di persecuzioni se ne intendono, 
                  non sono stati colti di sorpresa.
 Già dalle prime avvisaglie, infatti, hanno capito quanto 
                  gli si stava tramando alle spalle e hanno avuto subito ben chiaro 
                  dove si sarebbe andati a parare: sarà per colpa della 
                  cultura illuministica, sarà per colpa dell’allargamento 
                  a Est (dove, sotto sotto, sono ancora tutti un po’ comunisti) 
                  l’Europa, di loro, non ne vuole più sapere. È 
                  forse vero – lo ha detto anche Paolo Mieli – che 
                  al giorno d’oggi i cristiani sono una minoranza. Si riconoscerà 
                  però che non è questa una buona ragione per perseguitarli, 
                  manco fossero Catari.
 La persecuzione, tuttavia, non spaventa i cristiani più 
                  di tanto. In fondo di santi morti nel proprio letto ce ne son 
                  pochini e, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: 
                  “il martirio è la suprema testimonianza 
                  resa alla verità della fede; il martire è un testimone 
                  che arriva fino alla morte [...]. “Lasciate che diventi 
                  pasto delle belve. Solo così mi sarà concesso 
                  di raggiungere Dio”” (art. 2473). Piuttosto, ciò 
                  che i cristiani non sono abituati a subire è l’altrui 
                  indifferenza, e verso di essa sono perciò disarmati. 
                  Mi martirizzi? E io, alla faccia tua, raggiungerò dio. 
                  Ma se mi lasci a far da tappezzeria, allora sì che vado 
                  in bestia!
 Così, mentre i cristiani hanno superato con relativa 
                  facilità il trauma dello schiaffone a Buttiglione (che 
                  non è Tommaso D’Aquino, in fondo, lo vedono anche 
                  da soli), c’è un tarlo che continua a rodergli 
                  nell’orgoglio, una talpa che gli scorrazza per l’amor 
                  proprio: quelle radici cristiane che l’Europa snobba, 
                  anzi, peggio ancora, ignora.
 Recupero il Corriere della sera del 21 giugno e leggo 
                  di Karol Wojtyla che, durante l’Angelus di domenica 20, 
                  è tornato sul tema delle “radici cristiane dell’Europa”, 
                  o meglio, sul fatto che il preambolo della Costituzione europea 
                  non ne faccia menzione, come lui avrebbe invece fortemente voluto. 
                  Wojtyla, pare divagando dal testo scritto, ha preso a parlare 
                  in polacco e, fuori di sé dalla rabbia, ha gridato: “Ringrazio 
                  la Polonia che nelle sedi europee ha difeso fedelmente le radici 
                  cristiane del nostro Continente, dalle quali è cresciuta 
                  la cultura e la civiltà della nostra epoca. Non si tagliano 
                  le radici dalle quali si è nati!”.
 Mai come in questo caso mi trovo d’accordo con lui, e 
                  non solo per simpatia verso i perseguitati. Wojtyla ha ragione 
                  da vendere, perché la memoria è una cosa seria, 
                  forse la più seria di tutte. Quello che non capisco è 
                  perché si arrabbi tanto. Comunque, nel mio piccolo, provo 
                  ad accontentare l’anziano pontefice con un florilegio, 
                  certo parziale, dei contributi che la Chiesa Cattolica e lui 
                  stesso hanno fornito alla costruzione dell’Europa e, più 
                  in generale, alla “cultura e alla civiltà della 
                  nostra epoca”.
 Contributi cattolici all’Europa  L’exploit del Vaticano nella politica internazionale 
                  moderna è il “Non expedit” del 1874, che 
                  consiste in un esplicito divieto per i cattolici italiani di 
                  partecipare a qualsiasi titolo alla vita politica del Regno 
                  d’Italia. I cattolici dovevano avere soltanto il papa 
                  come sovrano e il diritto canonico come legge, pena la dannazione 
                  dell’anima. Fu abolito nel 1919. Se fosse per le radici 
                  cristiane, quindi, l’Italia non ci sarebbe stata, e l’Europa 
                  avrebbe su per giù la forma del Sacro romano impero. 
                  Saltiamo al 1984 e incontriamo Paul Marcinkus, cardinale al 
                  vertice dello IOR (Istituto di Opere Religiose), una potente 
                  banca coinvolta nelle inchieste sul crollo del Banco Ambrosiano 
                  e, ça va sans dire, nella catena di delitti 
                  e di suicidi dubbi che a questo si accompagnò. Un bel 
                  giorno, i magistrati milanesi decidono di interrogare l’arcivescovo, 
                  il quale oppone però un diritto di immunità. C’è 
                  infatti un articolo del trattato del Laterano (che disciplina 
                  i rapporti tra Italia e Città del Vaticano) che stabilisce 
                  “la non ingerenza negli affari degli enti centrali della 
                  Chiesa” (art. 11), e a quello Marcinkus si appella. I 
                  giudici presentano un ricorso che la Corte di Cassazione respinge: 
                  il trattato garantisce agli alti prelati le stesse immunità 
                  dei diplomatici esteri. A questo punto, Wojtyla potrebbe però 
                  ordinare a Marcinkus di presentarsi in aula, ma non lo fa. È 
                  evidente che le radici cristiane non prevedono il mandato di 
                  cattura europeo.
 Contributi di Wojtyla alla cultura e alla civiltà 
                  della nostra epoca  Se il papa è il vicario di Cristo, è ovvio che 
                  debba andare più dagli ammalati che dai sani. E Wojtyla 
                  ci va, eccome. Eccolo allora contribuire alla cultura e alla 
                  civiltà della nostra epoca a Santiago del Cile nell’aprile 
                  del 1987, in visita pastorale dal generale Augusto Pinochet 
                  dove, come commenta un sito della destra cilena ricco di fotografie 
                  (http://anticomunismo.8m.com/tata4.html), 
                  “due grandi leader anticomunisti si incontrano”. 
                  La più celebre immagine di queste giornate è la 
                  foto scattata il 6 aprile, quando generale e papa si affacciano 
                  assieme da un balcone della Moneda, il palazzo presidenziale 
                  nel quale perì Salvador Allende (presidente del Cile 
                  democraticamente eletto) durante il sanguinario colpo di stato 
                  dell’11 settembre 1973, che portò al potere lo 
                  stesso Pinochet. Pinochet, come si usa, gli presenta la moglie. Wojtyla, se ne 
                  ricorda e per le nozze d’argento gli manda gli auguri, 
                  con una sobria lettera autografa. Infine, quando Pinochet è 
                  catturato in Inghilterra su mandato internazionale spiccato 
                  dal giudice spagnolo Baltasàr Garzon con l’imputazione 
                  di tortura ed omicidio di cittadini spagnoli (1999), Wojtyla 
                  stesso si preoccupa di far giungere alla Camera dei Lord la 
                  propria preferenza perché questa non concedesse l’estradizione 
                  dell’ex dittatore in Spagna, dove i giudici lo attendevano 
                  con le manette pronte. Per il caso “dell’ammalato” 
                  Pinochet, il papa manifesta un vero e proprio accanimento terapeutico 
                  dato che, sempre nel 1999, rivolge una plateale richiesta di 
                  perdono per i crimini da lui commessi, alla quale le Madres 
                  de Plaza de Mayo (l’associazione delle madri delle vittime 
                  del regime argentino) rispondono con una lettera dove si augurano 
                  che, da morto, Wojtyla non riceva il perdono di Dio e vada all’inferno 
                  (Buenos Aires, 23 febbraio 1999).
 Facciamo un passo indietro ma rimaniamo nella cattolicissima 
                  America Latina, dove Wojtyla imperversa. Eccolo infatti, nel 
                  1980, accorrere in aiuto della giunta militare di San Salvador, 
                  minacciata dalle omelie dell’arcivescovo Oscar Romero. 
                  La tesi statunitense, sostenuta dal presidente Jimmy Carter 
                  (ora premio Nobel per la pace), è che la giunta militare 
                  salvadoregna fosse in realtà un debole governo democratico, 
                  strapazzato tra le violenze dell’estrema destra e dell’estrema 
                  sinistra. Le cose non stavano esattamente così, dal momento 
                  che la stessa giunta aveva preso il potere con un colpo di stato 
                  il 15 ottobre 1979, favorita dall’amministrazione Carter 
                  che vedeva nel governo precedente del Salvador, relativamente 
                  democratico e riformista, un ostacolo alle proprie politiche 
                  commerciali e all’egemonia politica sul Centro america. 
                  Secondo fonti ecclesiastiche, dal gennaio 1980 al mese di maggio 
                  dello stesso anno il governo salvadoregno uccise 1844 civili 
                  (alla fine dell’anno arrivarono a circa 10mila). Per Carter, 
                  tutte queste uccisioni erano da addebitare alle citate frange 
                  violente degli opposti estremismi, e ciò giustificava 
                  i generosi aiuti militari che gli Stati Uniti fornivano al governo 
                  “di centro”, impegnato in una faticosa “costruzione 
                  democratica”. Il vescovo Romero non la pensava così, 
                  e il 17 febbraio 1980 scrisse una lunga lettera a Carter nella 
                  quale chiedeva di cessare l’erogazione degli aiuti in 
                  favore della giunta, che descriveva per il regime sanguinario 
                  che era e alla quale attribuiva tutte le responsabilità 
                  per la situazione di terrore e per le uccisioni degli avversari 
                  politici. Carter andò su tutte le furie ed inviò 
                  un messo presso il papa, affinché egli stesso mettesse 
                  a tacere Romero. Nel mese di marzo del 1980 durante l’omelia 
                  domenicale, il vescovo esortò i militari a cessare di 
                  uccidere i propri connazionali, denunciando così in maniera 
                  eclatante le responsabilità del regime. Wojtyla non appoggiò 
                  le posizioni di Romero, ma anzi richiamò a Roma il superiore 
                  dei gesuiti del Centro America. Il 24 marzo 1980 Romero fu assassinato 
                  mentre diceva messa nella cattedrale di El Salvador, colpito 
                  al cuore da una fucilata proveniente dal fondo della chiesa. 
                  Anche in quel caso, Wojtyla non andò oltre la manifestazione 
                  di un formale dolore. Evidentemente, tra i compiti di chi deve 
                  accorrere presso gli “ammalati” rientra anche quello 
                  di fregarsene dei “sani”, quando non addirittura 
                  quello di prenderli a calci.
 Un grande papa, un accorato appello  Al posto di Wojtyla, bisogna ammetterlo, non molti avrebbero 
                  fatto altrettanto. Non è da tutti, infatti, insistere 
                  perché si inserisca nel preambolo di un documento ufficiale 
                  (un trattato internazionale, per di più) l’elenco 
                  degli episodi criminali dei quali si è direttamente responsabili, 
                  o le dimostrazioni che quel documento è contrario alle 
                  intenzioni dell’organizzazione che si governa. Giunto, 
                  verosimilmente, ai limiti naturali del proprio pontificato, 
                  non solo il vicario di Cristo ha assunto su di sé tutti 
                  i peccati del mondo, ma vuole, anzi pretende, che di essi sia 
                  fatto formale inventario, come in un autodafé, 
                  quella confessione pubblica dei condannati che molti suoi predecessori 
                  tanto apprezzavano. Da laico, per così dire, non stimo 
                  Wojtyla. Ma se provo a immaginarmi cristiano, di fronte al suo 
                  sdegno dell’Angelus del 20 giugno non posso che 
                  cadere in ginocchio. E mi viene dal cuore dire: accontentatelo, 
                  smettete di ignorare i cristiani e scrivete sulla costituzione 
                  europea tutto quello che hanno fatto quando non erano una minoranza, 
                  anche a costo di dovervi aggiungere dieci, cento, mille pagine.  Persio Tincani
  
                    Passera e la finanza etica
 Che ci faceva Corrado Passera, presidente di Banca Intesa, 
                  alla Giornata nazionale della finanza etica, lo scorso 20 novembre 
                  a Bologna? Domanda più che legittima, specie da parte 
                  di chi rammenti che il gigantesco gruppo bancario è stato 
                  oggetto di una recente campagna di pressione denominata Manca 
                  Intesa. I gruppi promotori contestavano i disinvolti finanziamenti 
                  al commercio d'armi e la partecipazione a un devastante progetto 
                  di oleodotto da Baku (Azerbaigian) a Ceyhan (Turchia) via Tbilisi 
                  (Georgia). Passera è stato invitato proprio per i segnali 
                  d'attenzione mostrati verso la campagna. Ha promesso che non 
                  finanzierà più il commercio d'armi e che lascerà 
                  il progetto d'oleodotto. Banca Intesa sta attuando queste promesse, 
                  anche se tutto avverrà gradualmente. Lo stesso presidente 
                  ha precisato, durante la tavola rotonda alla Giornata bolognese, 
                  che potrebbero rimanere finanziamenti indiretti al commercio 
                  d'armi, ma che in questo caso saranno resi noti sul sito dell'istituto. 
                  Ad ogni modo Passera è stato in qualche modo 'premiato' 
                  per queste decisioni con l'invito a discutere con interlocutori 
                  di prim'ordine, come il presidente di Banca Etica Fabio Salviato 
                  e il procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, nell'ambito del 
                  principale evento nazionale organizzato dal movimento della 
                  finanza alternativa. Dal suo punto di vista è stato un 
                  bel successo, che in qualche modo lo ripaga delle scelte compiute 
                  e gli permette di correggere un'immagine deturpata dalla campagna 
                  Manca Intesa. La scelta compiuta dagli organizzatori, naturalmente, 
                  è molto discutibile. L'invito può essere visto 
                  come un intelligente gesto d'apertura di fronte ai risultati 
                  raggiunti dalla campagna, ma anche come un'eccessiva concessione 
                  a un manager e a un gruppo che sono ancora lontani dal tenere 
                  comportamenti accettabili sul piano politico e sociale.
 Va comunque riconosciuto che si è trattato solo dell'invito 
                  a un dibattito, e non di un abbraccio, per cui diversità 
                  e distinzioni di ruolo sono rimasti ben chiari a tutti. Tant'è 
                  che alla fine, più che l'invito in sé, è 
                  stato l'andamento del dibattito a suscitare dubbi e sconcerto. 
                  Passera ha esordito con un'affermazione in apparenza amichevole 
                  e importante. Quando il moderatore gli ha dato la parola accennando 
                  al piccolo spazio che la finanza etica si è guadagnata 
                  in questi anni in Italia, Passera ha esclamato che "tutta 
                  la finanza, e non solo una piccola parte, deve essere etica" 
                  e da lì è partito con l'elenco di quanto Banca 
                  Etica già sta facendo in questa direzione, passando dall'oleodotto 
                  al miliardo di euro stanziato per finanziamenti agevolati alla 
                  ricerca sulla base di un accordo con imprese e università. 
                  Né Vigna né, purtroppo, Salviato, hanno incalzato 
                  a dovere Passera, così nessuno ha messo in rilievo l'ambiguità 
                  dell'affermazione iniziale del presidente di Banca Intesa. La 
                  sua idea che tutta la finanza debba (e possa) essere etica è 
                  un evidente artificio retorico, che nasconde un equivoco, lo 
                  stesso sul quale lavorano le maggiori banche italiane quando 
                  propongono fondi etici, libretti etici, investimenti etici, 
                  tutte sigle che nascondono nella totalità dei casi semplici 
                  operazioni di carità o normali strumenti finanziari solo 
                  un po' abbelliti con una mano superficiale di vernice "socialmente 
                  responsabile" .
 Il movimento della finanza etica ha raggiungo risultati importanti 
                  ed è solo nella fase iniziale del suo cammino. Ma l'inquinamento, 
                  anche semantico, del suo messaggio da parte di soggetti esterni 
                  è piuttosto evidente. Come fa il risparmiatore a distinguere 
                  fra tante proposte che si dichiarano etiche? Come si fa a capire 
                  qual è la vera alternativa finanziaria? Su questo terreno 
                  il movimento dell'altra finanza avrà molto da lavorare. 
                  E dovrà agire su più terreni. Sia su quello – 
                  proprio di Banca Etica – del confronto con gli altri attori 
                  del mercato, e quindi con l'offerta di proposte di risparmio, 
                  d'investimento e d'impiego del denaro che possano dare del filo 
                  da torcere a un sistema bancario vorace e iniquo. Sia sul terreno, 
                  più arduo ma di grande spessore, della costruzione di 
                  un modo di concepire e utilizzare il denaro davvero alternativo: 
                  è il campo d'azione delle Mag, del microcredito, delle 
                  cooperative che raccolgono risparmio fra i soci.
 In tutti questi anni di lotta al neoliberismo, abbiamo capito 
                  che la formazione di una cultura alternativa al pensiero unico 
                  capitalista è un'esigenza fortissima, che deve accompagnare 
                  la costruzione di spezzoni di un'altra economia. Lungo questo 
                  percorso è importante agire e parlare con il massimo 
                  di chiarezza e trasparenza, respingendo tutti i tentativi di 
                  inquinare le acque e di far credere che tutta la finanza possa 
                  essere etica se solo qualche "buon" manager lo vorrà. 
                  La finanza etica, intesa in questo modo, sarebbe così 
                  annacquata da perdere ogni sapore e ogni motivo d'interesse 
                  per chi è cosciente della natura rapace e distruttiva 
                  dell'apparato economico e finanziario che domina il mondo. A 
                  Corrado Passera potremmo anche riconoscere la buona volontà 
                  e la capacità di ascoltare gli avversari, ma niente di 
                  più.
  Lorenzo Guadagnucci
   
                    Dallo sciamano allo showman
 Splendida terra la Valle Camonica: uno spettacolare concentrato 
                  di monti, vallate, torrenti e un fiume, l’Oglio, a tagliarla 
                  in due fette prima di tuffarsi nel Lago D’Iseo, apparente 
                  avamposto per chi giunge da sud. E ne arriva di gente durante 
                  tutto l’anno. Le terme sono note in tutto il Paese e i 
                  parchi naturali dell’Adamello e dello Stelvio fanno da 
                  giusto corollario agli ospiti e ai villeggianti più curiosi 
                  se decidono, in una delle possibili escursioni, di visitare 
                  le incisioni rupestri: oltre 10.000 configurazioni che hanno 
                  alimentato misteriose leggende di antiche figure e riti sciamanici. 
                  Parte proprio da qui il festival della canzone umoristica (Festival 
                  della canzone umoristica d’autore, 2a edizione, Valle 
                  Camonica, luglio-settembre 2004) dove Nini Giacomelli, ideatrice 
                  della manifestazione, ad un’intenzionalità più 
                  spirituale ha associato parecchie note di spirito facendo così 
                  nascere Dallo sciamano allo showman. Quest’anno 
                  la direzione artistica è stata affidata ad una figura 
                  di grande autorevolezza, Sergio Bardotti, affiancata dagli organizzatori 
                  del Club Tenco che hanno contribuito non poco all’innalzamento 
                  qualitativo della manifestazione. Durante il periodo estivo 
                  si sono previsti diversi appuntamenti nelle località 
                  di Borno, Bienno, Ponte di Legno e Breno che hanno fatto quasi 
                  da introduzione al festival vero e proprio che si è tenuto 
                  a Darfo Boario Terme a metà settembre.  
 Nicola 
                  Arigliano e Flavio Oreglio (foto di Stefano Starace) Qui si sono dati appuntamento Enzo Jannacci e Nanni Svampa, 
                  Osvaldo Ardenghi e il gruppo degli Oz (Orkestra Zbylenka), quartetto 
                  formato da Gilberto Tarocco, Sandro Di Pisa, Giuseppe Boron 
                  e Fabio KoRyu Calabrò. Oppure, sempre in tema specificamente 
                  umoristico, gli Opus Est, Beppe Altissimo, Francesco Baccini, 
                  Leonardo Manera, Flavio Oreglio, I Nuovi Cedrini, Vittorio Viviani, 
                  Andrea Di Marco, Bibi Bertelli, Quellilì. Di contorno, 
                  la mostra fotografica di Roberto Coggiola con commenti curati 
                  da Sergio Sacchi, “Lo Shomano”, portata in dote 
                  dal Premio Tenco e che si mostrerà anche nelle serate 
                  finali di settembre come pure quella della pittrice Marina Sassi 
                  sui nativi-americani. Poi una serie di incontri/convegni cui 
                  partecipano oltre ai già citati anche Enrico de Angelis 
                  e Vincenzo Mollica. Ovviamente più nutrite le tre serate 
                  conclusive con un’ulteriore mostra di Sergio Staino ed 
                  una serie di incontri pubblici parecchio interessanti con studiosi, 
                  antropologi, ricercatori, psichiatri e due veri sciamani: David 
                  Carson, scrittore lakota, per parecchi anni vissuto nelle riserve 
                  Cheyenne in Montana e Nadia Stepanova, presidente degli sciamani 
                  buriati e membro del consiglio interreligioso dell’Unesco. 
                  Quest’ultima darà vita, con i volontari del posto, 
                  ad un vero rito sciamanico. Piuttosto affollate le serate musicali 
                  con l’attore/musicista Flavio Oreglio nella parte del 
                  conduttore interessato. Nell’esordio, lo humor è 
                  socialmente utile con i “giovani” Freddy, Andrea 
                  Rivera e Fabrizio Casalino, più tranquillizzante con 
                  i Quartettomanontroppo, audacemente corrosivo con i Serenauti: 
                  Roberto Freak Antoni, Marco Carena, Pongo e Fabio KoRyu Calabrò, 
                  ancora lui, per fortuna. Meno giovani e più certezze 
                  dalla seconda serata: Carlo Fava (finalmente comincia a raccogliere 
                  i frutti di una lunga semina), il consolidato Pierfrancesco 
                  Poggi e il televisivo, e non sempre brillante, Max Tortora si 
                  inchinano, come tutti, ad un magnifico Nicola Arigliano, grande 
                  sciamano dello swing made in Italy. Ultima sera e ottime performance 
                  nell’ordine di Giorgio Conte, perfetto gentiluomo e maestro 
                  di musica, Andrea Di Marco, che i Cavalli Marci siano con te, 
                  Vinicio Capossela, finalmente tornato ad essere lo sciamano/musicista 
                  che più amiamo.  Stefano 
                  Starace
  
 Vinicio 
                  Capossela (foto di Stefano Starace)
                    Dalla lotta al fascismo alla ricostruzione
 “Virgilio Antonelli 1904/2004: un anarchico livornese 
                  dalla lotta al fascismo alla ricostruzione” è il 
                  titolo dell’iniziativa che si è svolta a Livorno 
                  il 27 novembre u.s., in occasione dei cento anni dalla nascita 
                  di Virgilio Antonelli, anarchico, perseguitato politico antifascista, 
                  partigiano, organizzatore sindacale. L’opera di Virgilio percorre momenti importanti della 
                  storia del movimento operaio italiano e livornese in particolare, 
                  la sua figura è rappresentativa dell’impegno anarchico 
                  per la libertà e l’uguaglianza, contro la monarchia, 
                  il fascismo, la guerra e il regime clerico-fascista che ha dominato 
                  in Italia dopo la II guerra mondiale.
 Durante il biennio rosso (1919-1920) Virgilio Antonelli aderisce 
                  giovanissimo al gruppo Falange Ribelle, aderente all’UAI; 
                  partecipa ai moti di piazza e, di fronte al nascente fascismo, 
                  aderisce agli Arditi del Popolo.
 Minacciato ripetutamente, è costretto a girare armato; 
                  per la sua attività subisce carcere e confino dal 1923 
                  al 1927 e, successivamente, dal 1931 al 1936. Durante il “soggiorno” 
                  all’isola di Ventotene, partecipa alla rivolta dei confinati 
                  contro i soprusi degli aguzzini fascisti.
 
 Virgilio 
                  Antonelli  Tornato a Livorno, partecipa alla riorganizzazione dell’anarchismo 
                  nei primi anni di guerra; farà parte, dopo l’8 
                  settembre, del primo comitato clandestino di liberazione per 
                  la componente libertaria, seguendo l’attività militare. 
                  Fra le azioni a cui partecipa, assieme ad altri anarchici livornesi 
                  fra cui anche i fratelli Romolo ed Egisto, la liberazione di 
                  32 ostaggi rastrellati dai tedeschi e trasportati a Bologna, 
                  e la liberazione, durante un allarme aereo, dei deportati da 
                  un vagone piombato diretto in campo di prigionia. Dopo la liberazione, avvenuta il 19 luglio 1944, gli anarchici 
                  livornesi partecipano attivamente alla ricostruzione della città, 
                  delle fabbriche, del porto devastati dai bombardamenti. Virgilio 
                  Antonelli partecipa alla costituzione del Consorzio cooperativistico 
                  dei lavoratori del porto, organismo che dovrebbe superare la 
                  vecchia organizzazione ereditata dal fascismo e gestire tutte 
                  le attività portuali; svolge contemporaneamente attività 
                  sindacale come coordinatore regionale della Federazione dei 
                  lavoratori portuali.
 La restaurazione capitalistica metterà fine al tentativo 
                  di gestione operaia del porto, limitando l’autogestione 
                  all’avviamento al lavoro dei facchini. Nello stesso tempo 
                  il Partito Comunista metterà sotto controllo, a fini 
                  elettorali, gli organismi di massa fra cui i sindacati: i non 
                  allineati, e in primo luogo gli anarchici, saranno emarginati.
 In questi anni è intenso anche l’impegno per favorire 
                  la ripresa del movimento anarchico. Dopo la costituzione della 
                  Federazione Anarchica Livornese, Virgilio partecipa al congresso 
                  di Carrara del 1945, che costituirà la Federazione Anarchica 
                  Italiana.
 Negli anni successivi prenderà parte attiva alla campagna 
                  contro il regime franchista spagnolo e collaborerà ad 
                  “Umanità Nova”, occupandosi soprattutto dei 
                  problemi dei lavoratori portuali.
 Nel 1965 assume l’incarico della Commissione di Corrispondenza 
                  della FAI. Costretto ad abbandonare l’impegno attivo per 
                  motivi di salute, continuerà a seguire la vita della 
                  Federazione ed “Umanità Nova” fino alla morte, 
                  nel 1982.
 L’iniziativa si è svolta nella sala del Centro 
                  di documentazione sull’antifascismo e la resistenza (G. 
                  C.), e vi hanno assistito un centinaio di persone. Hanno portato 
                  i loro saluti la Commissione di Corrispondenza della FAI, l’amministrazione 
                  comunale e l’Associazione Perseguitati Politici Antifascisti. 
                  Altri messaggi sono arrivati, fra cui quelli della redazione 
                  di “A” rivista anarchica. Dopo una breve introduzione, 
                  i relatori hanno contribuito a chiarire i vari episodi della 
                  vita di Virgilio.
 Marco Rossi ha illustrato la situazione politica a Livorno all’indomani 
                  della prima guerra mondiale, il sovversivismo, di cui gli anarchici 
                  erano gran parte, che animava le masse, l’opposizione 
                  al fascismo che il regime non è mai riuscito completamente 
                  a domare e che aveva una dimensione di massa.
 Giorgio Sacchetti ha affrontato il periodo del confino, sottolineando 
                  le continue e vessatorie persecuzioni messe in pratica dagli 
                  aguzzini, che gli impedivano persino di corrispondere con la 
                  madre e i familiari.
 Tiziano Antonelli si è occupato dell’attività 
                  sindacale, illustrando sia il tentativo di dare un’organizzazione 
                  diversa al porto con il consorzio cooperativistico, sottolineandone 
                  le potenzialità anticapitalistiche, sia l’attività 
                  sindacale vera e propria, che ha visto Virgilio membro di punta 
                  della corrente anarchica all’interno della Federazione 
                  dei lavoratori portuali, attiva fino agli anni ’60.
 Italino Rossi ha ripercorso gli anni dell’attività 
                  nella FAI, ricordando come la Federazione Anarchica Livornese 
                  propose la mozione sindacale approvata al Congresso di Carrara 
                  del 1945, che darà vita, negli anni successivi, ai Comitati 
                  di Difesa Sindacale di cui Virgilio Antonelli fu animatore. 
                  Il relatore ha anche ripercorso il dibattito interno alla federazione 
                  a cavallo degli anni ’50 e ’60 che ha visto Virgilio 
                  protagonista.
 La serata si è conclusa nel salone della Federazione 
                  Anarchica Livornese, a cui hanno partecipato molti dei presenti 
                  il pomeriggio.
 La manifestazione è riuscita grazie al contributo e all’impegno 
                  delle figlie, Alba e Lina, e degli altri compagni della Federazione 
                  Anarchica Livornese.
  L’incaricato
 Virgilio 
                  Antonelli
                    Non abbassare la guardia
 Il 25 novembre, al processo contro Fabrizio Acanfora, (ne abbiamo 
                  riferito sullo scorso numero) 
                  la dirigenza di Trenitalia non si è presentata. Non si 
                  è neppure preoccupata di fornire una giustificazione 
                  della sua assenza e questo comportamento si commenta da sé. 
                  A Roma, invece, c'erano decine di ferrovieri, di autoferrotranvieri, 
                  di lavoratrici e lavoratori di altri comparti venuti a dimostrare 
                  la propria solidarietà con il compagno Fabrizio Acanfora 
                  e la propria indignazione per l'attacco portato al diritto di 
                  espressione ed alle libertà sindacali in questo Paese. 
                  Intanto continuano a giungere firme e messaggi di sostegno, 
                  anche da molto lontano. Siamo molto colpiti da questa dimostrazione 
                  di solidarietà e ringraziano quanti, in Italia ed all'estero, 
                  hanno voluto contribuire a questa battaglia di civiltà 
                  che, lo ricordiamo, è soltanto all'inizio.
 Alle compagne ed ai compagni ricordiamo infatti che la repressione 
                  nei posti di lavoro, in Italia, è molto forte e che non 
                  riguarda i soli ferrovieri. Sarà necessaria quindi la 
                  più ampia mobilitazione permanente, anche internazionale, 
                  per respingere questo attacco e per creare le condizioni di 
                  una ripresa reale delle lotte dei lavoratori.
 Il nostro augurio è che quanti stanno partecipando alla 
                  campagna di solidarietà con Fabrizio Acanfora non abbassino 
                  la guardia, proseguano uniti nella lotta per salari, diritti, 
                  democrazia sindacale. In questo senso andrà il nostro 
                  impegno.
 Genova, 27 novembre 2004   Comitato Fabriziounodinoi Rete dei Ferrovieri in Lotta
   
                    Ma perché anche i cani?
 Intervista con una animalista che ha partecipato alla manifestazione 
                  antimilitarista di Mestre del 13 novembre 2004 (a cura di Virginia 
                  Silvestri).  Se non sbaglio quel giorno le manifestazioni contro 
                  il vertice NATO erano più di una…  Sì, erano almeno tre. Quella dei disobbedienti al Lido, 
                  quella di Rifondazione Comunista e altri gruppi a Venezia (anche 
                  con le barche) e quella di Mestre, organizzata da un coordinamento 
                  antimilitarista di anarchici e libertari (Coordinamento Veneto 
                  dei Senza Patria). Inutile dire che questi erano i più 
                  “scoperti” non avendo assessori in Comune (come 
                  Caccia dei Verdi e Cacciari di Rifondazione) a cui rivolgersi 
                  per essere in qualche modo tutelati, garantiti nel poter esercitare 
                  un diritto costituzionale senza essere preventivamente criminalizzati. 
                  All’assemblea preparatoria si era prevista la partecipazione 
                  di almeno duemila persone; invece alla fine eravamo circa quattrocento. 
                  Il clima da subito era apparso molto pesante, intimidatorio. 
                  Polizia e carabinieri erano due o tre volte il numero dei manifestanti 
                  e avevano un atteggiamento alquanto duro, sebbene la manifestazione 
                  fosse assolutamente pacifica. Tieni presente che erano almeno 
                  dieci anni che non veniva organizzata una manifestazione del 
                  genere a Mestre.
 Ti risulta che ci fossero accordi preventivi sullo 
                  svolgimento della manifestazione?  Da quanto mi è stato riferito i patti erano che ci avrebbero 
                  “scortati” schierandosi in testa e in coda al corteo, 
                  senza i “cordoni” laterali. Invece poi hanno continuamente 
                  cercato di rinchiuderci completamente, anche dai lati. È 
                  in questi frangenti che sono nate tensioni dato che i manifestanti 
                  cercavano (con successo, devo dire) di impedire la formazione 
                  dei cordoni. Le manganellate sono state date proprio a chi si 
                  opponeva ai cordoni laterali, ad una vera e propria “blindatura” 
                  del corteo. Verso la fine ha cominciato a diluviare e la tensione 
                  è scemata.  Mi parlavi dei cani. Quanti ne hai visti?  Personalmente ne ho visti due (ma da testimonianze raccolte 
                  successivamente i cani erano almeno cinque o sei), stazza da 
                  pastore tedesco, uno di color bruno e un altro completamente 
                  nero. Naturalmente erano al guinzaglio di due tutori dell’ordine 
                  e hanno abbaiato con tutte le loro forze per tutto il corteo, 
                  almeno per due ore. Alla fine erano sgolati, sbavavano. Sinceramente mi hanno fatto 
                  pena. Penso sia la cosa che mi ha colpito maggiormente perché 
                  la considero una sofferenza imposta ai cani. Immagina come dovevano 
                  sentirsi quelle povere bestie in mezzo alle grida, al baccano, 
                  ai petardi…Anche se sono addestrati (ma sarebbe interessante 
                  sapere come li addestrano…) le manifestazioni sono sicuramente 
                  una situazione di stress, di paura… È comunque 
                  una violenza contro i cani, contro la loro natura.
 Probabilmente li esibiscono per spaventare le persone, per farle 
                  desistere dal partecipare a certe manifestazioni. Ma mi chiedo 
                  cosa accadrebbe se, in caso di disordini, il cane venisse liberato 
                  o comunque usato contro i manifestanti. A mio avviso si pongono 
                  due problemi: quello dell’incolumità dei manifestanti 
                  e anche di quella dei cani stessi…
 Il sabato successivo ci sono state le cariche a San 
                  Polo d’Enza, davanti a “Morini” (dove altri 
                  cani vengono allevati per i laboratori della vivisezione). Cosa 
                  hai pensato?  Che, in qualche modo, quello che stavo vedendo era l’epilogo. 
                  Anche se le due situazioni erano naturalmente diverse (e anche 
                  i partecipanti) è indicativo che nei confronti di alcuni 
                  settori dei movimenti (gli anarchici, gli animalisti, i no-global…, 
                  diciamo i meno omologati) si applichi sempre il metodo sperimentato 
                  nel luglio 2001 a Genova.   Virginia 
                  Silvestri
   
                    Ricordando Marie-Christine, Beaumont e il CIRA
 Il 13 dicembre scorso, a Losanna, è morta Marie-Christine 
                  Mikhailo, storica fondatrice (con altri, tra cui la figlia Marianne 
                  Enckell) del CIRA, il Centro Internazionale di Ricerche sull’Anarchismo 
                  che da mezzo secolo rappresenta una delle “istituzioni” 
                  e degli snodi umani e culturali del movimento anarchico a livello 
                  mondiale. I funerali si sono svolti venerdì 17, con la numerosa 
                  e intensa partecipazione di amici, compagni, parenti provenienti 
                  dalla Svizzera, dalla Francia e dall’Italia. Dopo, ci 
                  si è ritrovati nella storica sede di rue Beaumont, dove 
                  Marie-Christine viveva e dove ha sede il CIRA: in tanti abbiamo 
                  ricordato spezzoni di umanità di una vita – quella 
                  di Marie-Christine – che tante altre ha influenzato con 
                  il sorriso, l’attività, la parola.
 Alle compagne e ai compagni del CIRA, e in particolare a Marianne, 
                  le condoglianze della nostra redazione.
  
  Marie-Christine 
                  Mikhailo in una foto di Jean Mayerat
 Ho conosciuto Marie-Christine e Marianne una quindicina 
                  d’anni fa, la prima volta che sono stato al CIRA, dopo 
                  aver letto un articolo che mi aveva incuriosito su un quotidiano 
                  locale che parlava dell’esistenza della biblioteca, senza, 
                  peraltro, indicarne l’indirizzo (!). Le due donne formavano una coppia straordinaria e in un certo 
                  modo sorprendente per me, un adolescente che aveva in testa 
                  una certa idea dell’anarchia. Pensavo di trovare un covo 
                  di agitatori in una cantina buia, a onta del nome pomposo di 
                  “Centro internazionale di ricerche sull’anarchia”, 
                  mentre nei fatti fui accolto in modo cortese e amichevole nell’ex 
                  fienile della magnifica dimora di Beaumont, generosamente messo 
                  a disposizione da Marie-Christine, restaurato e trasformato 
                  per ospitare la biblioteca da un’allegra brigata di compagni 
                  di varia provenienza : una vicenda che ancora ignoravo del tutto. 
                  Come non restare sorpreso e colpito da quelle due donne calme 
                  e posate, madre e figlia, la prima che si era avvicinata all’anarchia 
                  in età matura, la seconda fin da ragazza. Insieme costituivano 
                  una sorta di memoria vivente, non solo conoscevano in modo eccellente 
                  i fondi della biblioteca potevano vantare una cultura generale 
                  straordinaria, ma anche perché padroneggiavano entrambe 
                  un numero impressionante di lingue, alcune anche poco comuni.
 Ne ero rimasto intimidito e sorpreso e di questa prima visita 
                  conservo solo un vago ricordo. Ciò nonostante, ritornai 
                  regolarmente a Beaumont. Grazie alla biblioteca, alle sue conferenze, 
                  ai video, agli incontri nella caffetteria, nacque così 
                  una solida amicizia, cui contribuirono agli inviti spontanei 
                  a cena di Marie-Christine e del suo affascinate compagno Stoyadin, 
                  come pure certi lavoretti occasionali per sistemare la cantina 
                  o svuotare il congelatore e, molti anni più tardi, la 
                  cura dell’orto quando Stoyadin non aveva più nemmeno 
                  la forza di piantarvi qualche cipolla.
 Nel corso del tempo le spedizioni in biblioteca hanno favorito 
                  numerosi incontri, di visitatori o visitatrici, amici del posto 
                  o di famiglia, gente di ogni età e orientamento. Tra 
                  i momenti particolarmente simpatici resta naturalmente la paella 
                  cotta al fuoco di legna da Vicente e gustata in compagnia sul 
                  retro della casa, all’ombra degli alberi da frutto del 
                  giardino. Mi viene in mente in particolare quella volta in cui 
                  qualcuno lanciava sguardi inquieti verso le case vicine, mentre 
                  l’amico Bösiger raccontava con una voce stentorea 
                  e vibrante delle azioni clandestine compiute nel corso degli 
                  anni trenta a sostegno dei rivoluzionari spagnoli.
 Di Marie-Christine conservo l'immagine di una donna generosa, 
                  colta, sensibile, ospitale e aperta. Aveva sempre tempo per 
                  scambiare due chiacchiere con i visitatori e le visitatrici 
                  del CIRA e non era raro vederla, nella caffetteria, davanti 
                  a un tè e a qualche biscotto, mentre raccontava una storia 
                  o un aneddoto su qualche personaggio conosciuto o sulle vicende 
                  del Centro o della casa di Beaumont e della pensione che vi 
                  aveva tenuto per qualche anno. Con gli occhi scintillanti e 
                  lo sguardo vivo, la sua conversazione era sempre interessante. 
                  I racconti si concludevano in genere con qualche secondo di 
                  silenzio, dopo di che Marie-Christine si rimetteva al lavoro.
 Sempre indaffarata, nonostante l’età, ci teneva 
                  a dare un suo contributo al funzionamento regolare del centro. 
                  In particolare curava la corrispondenza e le piaceva usare una 
                  carta intestata con l’immagine di una vecchietta con in 
                  mano una bandiera anarchica, una sorta di ammiccamento autobiografico. 
                  Anche molto tempo dopo il suo “pensionamento” ufficiale 
                  dal CIRA, continuava a venire tutti i giorni in biblioteca, 
                  quanto meno per sfogliare i giornali e le riviste appena uscite, 
                  e spesso per fare molte altre cose.
 Dopo due infarti che la lasciarono purtroppo gravemente menomata 
                  nel 2002, si poteva ancora vedere nei suoi occhi quel lampo 
                  d’intelligenza, quella sete di conoscenza, quando le si 
                  offrivano i quotidiani locali. Per tante volte aveva dato il 
                  via a discussioni e a riflessioni sugli avvenimenti che toccavano 
                  il movimento libertario e si era interessata dei fatti del giorno 
                  del territorio di Losanna.
 Pur essendo di origine alto-borghese, Marie-Christine conduceva 
                  un’esistenza molto modesta con il suo compagno, sempre 
                  al lavoro, consumando pasti frugali con le verdure dell’orto, 
                  accendendo la luce solo alla sera, non si sa se per un atto 
                  di probità antinucleare o semplicemente per un’abitudine 
                  legata ai tempi in cui l’elettricità non era penetrata 
                  in tutti gli spazi della vita quotidiana. La porta di casa non 
                  restava mai chiusa a chiave e a Marie-Christine piaceva ricordare 
                  quella volta in cui un ladro colto sul fatto aveva preferito 
                  darsi alla fuga senza accettare l’invito a pranzo che 
                  gli era stato rivolto.
 Nella bella stagione la sua tavola era rallegrata da bellissimi 
                  mazzi di fiori. Marie-Christine adorava i fiori e i loro colori, 
                  simboli della vita. Aveva invece orrore del sibilo lugubre delle 
                  sirene della protezione civile che collaudava le proprie installazioni: 
                  quel suono le ricordava i tempi orribili della guerra a distanza 
                  di mezzo secolo.
 Lascio a chi è più anziano di me il compito di 
                  parlare del suo impegno per la causa della pace del rispetto 
                  dei diritti umani all’interno di diverse associazioni, 
                  come dell’aiuto che si era sentita di offrire ai disertori 
                  della guerra d’Algeria, accontentandomi di raccontare 
                  qualche fatto più recente cui ho assistito.
 Forse qualcuno si ricorda ancora di averla scorta in campagna, 
                  ormai quasi ottantenne, nel primo pomeriggio di un giorno di 
                  novembre del 1993 (se non mi sbaglio), alla partenza di una 
                  manifestazione non autorizzata a sostegno degli spazi autogestiti 
                  del cantone di Losanna. Ed altri non si saranno dimenticati 
                  i gustosi tortini che preparava per la tradizionale “abbuffata 
                  del mercoledì” negli spazi occupati della Colline, 
                  dove le capitava di mangiare intorno al forno a legna circondata 
                  da qualche decina di punk e di cani. Per non parlare delle assemblee 
                  generali e delle conferenze del CIRA, quando accoglieva i visitatori 
                  e sussurrava all’orecchio di Stoyadin, che era diventato 
                  sordo, un riassunto delle discussioni.
 Con la sua scomparsa abbiamo perso una compagna di una gentilezza 
                  e di una generosità infinite, perennemente impegnata 
                  per gli altri, prima che gli anni e la malattia la sopraffacessero.
  Chris
  Marie-Christine 
                  e Marianne, agosto 2002
 |