|  Note 
                    d’autore
 Verso la metà di dicembre dell’anno scorso, 
                    in una bella giornata di sole, si è svolta a Montebelluna 
                    (Treviso) una manifestazione musicale di grande interesse, 
                    atipica rispetto alle altre peraltro rare occasioni perché 
                    caratterizzata, oltre che dallo sventolare esplicito della 
                    bandiera arcobaleno della pace, dall’alternarsi sul 
                    palco di un grande numero di musicisti partecipanti. Un giro di musicisti dai nomi piccoli e medi, indipendenti 
                    e comunque abituati ad arrangiarsi, avvezzi alle soste veloci 
                    agli autogrill e ad espressioni come “rimborso spese”. 
                    Gente insomma che non rabbrividisce d’incredulità 
                    pronunciando la parola magica “autoproduzione”, 
                    e che sta a proprio agio a stringere mani nei piccoli club 
                    e nelle piazze a cantare a distanza zero da chi ascolta. Un 
                    elenco breve: Paolo Capodacqua, Renzo Zenobi, Marmaja, Goran 
                    Kuzminac, Gang, Alberto Cantone, Renato Franchi, Tupamaros 
                    e molti altri.
 La “cosa” era organizzata dall’associazione 
                    trevigiana Liocorno, da tempo occupatissima a promuovere la 
                    canzone d’autore nostrana con passione ardente e sincera 
                    frammista ad un altrettanto sincero e serio impegno militante.
 Ore ed ore di canzoni quindi, a formare un vasto lago di musica 
                    e parole buone a cui abbeverarsi: di quella giornata è 
                    bella testimonianza il cd collettivo “Note d’autore”, 
                    pubblicato recentemente da Liocorno in collaborazione con 
                    Storie di Note, raccogliendo da quelle registrazioni un solo 
                    contributo per ciascuno dei partecipanti.
 Viene fuori così che, proprio come in quel pomeriggio 
                    di sole d’inverno abbiamo ascoltato ed applaudito gli 
                    uni e gli altri, l’accostamento tra certi vecchi leoni 
                    come Gualtiero Bertelli e Goran Kuzminac e autori più 
                    nuovi come Alberto Cantone (comunque ben conosciuto lì 
                    in zona per la lunga esperienza radiofonica) non è 
                    per nulla stridente. I più giovani insomma non hanno 
                    fatto la figura dei parenti poveri, anzi sembrava quasi che 
                    le pause tra un’esibizione e l’altra assomigliassero 
                    a riti di passaggio, cariche com’erano di rispetto (da 
                    una parte) ed orgoglio (dall’altra) per tutte le parole 
                    e tutte le visioni che passano da una generazione alla successiva 
                    sempre agitandosi in testa, mai sopite, mai risolte o messe 
                    a tacere.
 Il cd offre molto più che una semplice collana di canzoni: 
                    è un bel gioco di intrecci (con Paolo Capodacqua che 
                    accompagna alla chitarra oltre alla propria anche la voce 
                    di Claudio Lolli, e il mandolino di Guido Frezzato dei Marmaja 
                    che prende a braccetto i fratelli Severini ed il Townes VanZandt 
                    risvegliato da Andrea Parodi) ed una lunga dichiarazione d’amore 
                    e riconoscenza (Claudio Lolli a cantare il sogno interrotto 
                    di Giancarlo Cesaroni, i Tupamaros a stringere forte le mani 
                    di Alex Zanotelli).
 Non vi descriverò le canzoni una per una perché 
                    sono tutte belle e ben fatte e si ascoltano volentieri, ma 
                    mi soffermerò sullo straniamento e la sorpresa provate 
                    per Lino Straulino, animale schivo e imprendibile che da anni 
                    canta e suona il blues migliore, blues che odora di solitudine 
                    di bosco e di montagna, blues che non puoi comprare nei negozi 
                    ma che ti salta addosso alla schiena e ti entra in testa, 
                    ti morde l’anima e ti graffia il cuore.
 Contatti: Associazione Liocorno, tel. 333 8039028, sito web: 
                    www.liocorno.net.
 Marmaja 3 Rubando la prima frase della prima canzone di questo cd, “la 
                    mia anima vola a sud” per fermarsi a pochi chilometri 
                    da qui sulla strada di Rovigo, a guardare una foto di Elia 
                    Mantovani attaccata sul muro.
 Non so raccontare il mio disorientamento, e vi lascio immaginare 
                    il mio disagio ogni volta che prendo in mano questo cd: non 
                    so ascoltare queste canzoni senza che mi si agiti dentro un 
                    groviglio di spine e malessere, senza che mi si annodi per 
                    bene la gola e mi esca un sospiro.
 Rubando la prima frase della prima canzone di questo cd “la 
                    mia anima vola a sud”, fermandosi per stringere le mani 
                    di Elia e ricordarlo che suona in mezzo ai suoi compagni. 
                    È stato bello conoscerlo. Poche parole sempre, il sorriso 
                    aperto che gli contagiava gli occhi.
 La prima cosa di lui che mi aveva colpito era il suo modo 
                    di prendere tra le mani la chitarra: le portava rispetto, 
                    come fosse una specie di chiave per aprire le porte di timidezza 
                    dietro le quali si nascondeva. E la chitarra tra le sue mani 
                    diventava serpente e lanciafiamme, lui suonava come se spingesse 
                    palate di carbone nel fuoco della locomotiva, come se dalle 
                    sue mani dipendesse la vita delle canzoni del suo gruppo. 
                    Beh, non aveva torto, dopotutto.
 Dopo che Elia se n’è andato, i Marmaja non saranno 
                    certo più gli stessi che ascoltate in questo cd (cercatevi 
                    le informazioni da voi, su www.marmaja.com). 
                    Avranno i piedi su strade in salita, e sarà certo difficile 
                    tornare a guardarsi dritti negli occhi in sala prove.
 Non molleranno: aspettateveli di ritorno, come una cometa. 
                    E aspettateveli diversi, perché dentro a questo pezzo 
                    di plastica rotondo è intrappolata solo una loro maschera, 
                    che hanno già gettato e cambiato.
 Del resto, non era mica facile chiuderli nelle gabbie di genere, 
                    loro che hanno sputato sguaiatamente sul piatto del folk da 
                    cui avevano mangiato fino alla cena precedente.
 
  Loro che si sono innamorati perdutamente del 
                    rock da strada e poi si sono lasciati sedurre dall’eco 
                    di una sirena puttana di nome Sudamerica, che gli mordeva 
                    le orecchie suggerendo passione e languore e voglia di fuga. 
                    Loro che sono migrati in cerca di fortuna su una barca in 
                    rovina, a beccare mangime in mano ai cantautori divenuti statue, 
                    per poi mordere inevitabilmente quelle stesse mani e riprendere 
                    il volo, ingrati, ridendo.
 Ridendo forte, anche in faccia alla morte.
 Una canzone senza finale Il mio vecchio caro amico e compagno Stefano Giaccone non 
                    finirà mai di stupirmi, nel bene e nel male. C’eravamo 
                    lasciati che lui s’era un po’ incazzato con me 
                    per via della mia incapacità a scavalcare gli scrupoli 
                    e trovargli un po’ di spazio qui dentro per “Tutto 
                    quello che vediamo è qualcos’altro”, il 
                    suo cd dell’anno scorso.
 Non una vera e propria incazzatura, a voler essere onesti, 
                    piuttosto uno di quei momenti di reciproco mandarsi affanculo 
                    che movimentano l’esistenza e danno un buon sapore agrodolce 
                    alla vita.
 Restando in tema d’onestà, quel cd non mi aveva 
                    convinto. Lo trovavo (e tuttora lo considero tale) un’altra 
                    di quelle mezze occasioni sprecate che Stefano ci aveva propinato 
                    dai tempi del suo notevole “Le stesse cose ritornano”: 
                    le vecchie canzoni diluite in arrangiamenti che alle mie orecchie 
                    suonano poco convinti, quelle nuove un po’ troppo artificiali, 
                    cantate e raccontate con una faccia da prendere a sberle, 
                    tipo avete presente quel sorriso da Gatto del Cheshire che 
                    Alessio Lega si appiccica addosso quando ha le visioni mistiche 
                    di Léo Ferré che gli accarezza il testone e 
                    gli dice bravo...
 Viene fuori adesso questo cd “Una canzone senza finale” 
                    (Santeria, distr. Audioglobe), sforzo congiunto di Stefano 
                    e di Mario Congiu (autore e polistrumentista torinese di grande 
                    talento), e al mio caro e vecchio amico e compagno Stefano 
                    mi verrebbe da mollare una bella legnata in testa per avermi 
                    fatto aspettare così a lungo. Perché questo 
                    è il cd che mi sono sempre aspettato da lui e che per 
                    mille motivi non era mai uscito.
 
  Proprio come il breve “Ospiti immortali sono arrivati” 
                    (e come i due suoi recenti cd-rom duplicati casalinghi) anche 
                    questo è essenzialmente un cd di canzoni scritte da 
                    altri. Questo per Stefano è un sogno ricorrente sin dai tempi 
                    di Franti, che in mezzo ai voli alti delle proprie composizioni 
                    infilavano volentieri, per un misto di affetto e rispetto 
                    e senso di testimonianza, cover di Robert Johnson, Bob Dylan, 
                    di Lou Reed e dei Banshees (li ho sentiti con le mie orecchie, 
                    i vecchi ruggenti Franti in cantina, che infondevano vita 
                    nuova a “Spellbound”…) e di chissà 
                    chi altri.
 La scelta degli autori è orientata stavolta verso nomi 
                    grossi tipo Fossati, De Gregori e De André, misti a 
                    nomi più piccoli e più nuovi come quelli di 
                    Lalli, Perturbazione, Truzzi Bros., tutte canzoni che Stefano 
                    strappa in pezzi, sgretola, rovina e mastica e sputa senza 
                    mostrare alcun rispetto né pietà: basti per 
                    esempio la “Canzone della triste rinuncia” che 
                    qui dentro non è assolutamente più riconducibile 
                    a Guccini ma suona addirittura come un outtake del “Giardino 
                    delle quindici pietre”, tanto Stefano l’ha saputa 
                    trasformare in un qualche cosa di profondamente, intimamente, 
                    radicalmente suo.
 Tutte frantumate, le canzoni, ma non violate. Ci sono dentro 
                    tra le tante quella “Le storie di ieri” che risale 
                    alla collaborazione tra De Gregori e De André e che 
                    Stefano suona dal vivo da anni rubandone un goccio alla volta, 
                    una “Vedrai vedrai” di Luigi Tenco spettrale ed 
                    evocativa (del resto il contributo di Stefano e Mario era 
                    una delle poche cose ascoltabili dell’orrido tribute 
                    album “Come fiori in mare”), c’è 
                    “La mia faccia” di Lalli presa di peso dal sottovalutato 
                    album degli Ishi, c’è “Il monumento” 
                    di Jannacci in una versione lunare che rende tangibile lo 
                    spaesamento che si prova nell’arrivare in una stazione 
                    sconosciuta, c’è una “Lindbergh” 
                    di Fossati che non vola, ancorata al suolo da immaginari cavi 
                    d’acciaio.
 Il titolo del cd è stato ritagliato da un verso di 
                    “Ti ho visto in piazza” dei poeti mezzopunk fricchettoni 
                    scalcagnati torinesi Truzzi Broders, una canzone nobilitata 
                    dall’inclusione nella colonna sonora del film “I 
                    nostri anni” di Daniele Gaglianone (passato a Cannes 
                    un paio d’anni orsono), e dalla bella riscoperta post-Genova 
                    G8 2001 ad opera dei Frontiera.
 Ideologicamente non riconducibile ad una pura e semplice manciata 
                    di reinterpretazioni, e per questo difficile da raccontare 
                    in due parole, questo cd di Stefano e Mario è un catalogo 
                    di mostri di stupefacente bellezza e tristezza sconfinata, 
                    di quella tristezza annoiata che ti mettono addosso certe 
                    vecchie canzoni o la malinconia umida dell’autunno, 
                    quei pomeriggi passati da soli in casa col telecomando in 
                    mano a saltare tra un vecchio film e una partita, indecisi 
                    tra una bottiglia di whiskey e una di birra.
 Un grande spaventoso Frankenstein messo assieme con pezzi 
                    di cantautori monumentali da museo e punk sporco da strada 
                    e centro sociale senz’acqua, con fotografie di gente 
                    già morta e graffiti a spray di gente giovane che ha 
                    tutta la vita davanti, cose vecchie strasentite e magari dimenticate 
                    e roba nuovissima mai tirata fuori dal cellophan.
 Un lavoro che gronda sangue, malessere e delirio, testimonianza 
                    d’un amore sconfinato tutto consumato nello spazio breve 
                    tra testa e cuore, righe di matita scritte nervosamente su 
                    un blocnotes per fermare un giro di fumo nella sua strada 
                    dai polmoni al soffitto, per trasformare un incubo antico 
                    di tre minuti in una canzone che, stavolta no, non morirà 
                    mai più.
   Marco Pandin L’estate 
                    scorsa se ne sono andati due Compagni Musicisti, Elia dei 
                    Marmaja e Marco dei Tupamaros, entrambi cari amici nostri 
                    com’erano amici cari tra loro. Elia Mantovani è 
                    scomparso improvvisamente, portato via da quella stessa sfortuna 
                    che per prendersi Marco Sghedoni ci ha messo un anno. Tutt’e due erano schivi, posizionati nella seconda fila 
                    del palco ai concerti, ma non meno che fondamentali nella 
                    chimica e nella storia dei rispettivi gruppi.
 Elia e Marco lasciano posti vuoti che nessuno saprà 
                    riempire.
 A loro va il ricordo più caro e commosso, e il ringraziamento 
                    più sincero per la generosità e l’impegno 
                    che hanno sempre saputo dimostrare.
 Un abbraccio forte ai Marma e ai Tupa: perché non mollino, 
                    perché la determinazione e i sogni siano più 
                    forti delle lacrime.
 
 
                     
                      | Musica 
                          a cui voler bene
 Iniziamo 
                          con Robotradio Records, nuova iniziativa di Stefano 
                          Paternoster, nome noto dell’editoria underground 
                          musicale italiana. La prima uscita si materializza come 
                          un CD ma è molto di più: infatti il progetto 
                          di Robotradio è quello di mettere a confronto 
                          2 gruppi per ogni CD, 2 videoclip di animazione legati 
                          ai brani di cui sopra e il design del tutto affidato 
                          a un fumettista-grafico. Devo dire che tutto qui è 
                          di alto livello: la musica che vede Red Worms’ 
                          Farm (da Padova) e The Paper Chase (Dallas, USA). Punk 
                          e indie rock molto storto, per chi ama Fugazi e VanPelt/Lapse 
                          (tra i migliori continuatori dello spirito punk alternativo 
                          americano, con I Karate) per I primi o la furia cattiva 
                          dei vecchi Birthday Party, per I secondi. Red Worms’ 
                          Farm e The Paper Chase sono sulla scena da anni ormai 
                          e hanno prodotto vari CD, per Southern Rec e Fooltribe, 
                          ancora 2 etichette molto apprezzate nel campo indipendente. 
                          I video sono stati affidati a Nicola Fontana (Fountainhead), 
                          la grafica di copertina e booklet a Alessandro Baronciani. 
                          Come detto livello creativo e risultato complessivo 
                          veramente alto e, riportando le parole dal volantino 
                          introduttivo “Robotradio è un gioco. Come 
                          molti giochi nasce dal desiderio di fare qualcosa di 
                          divertente con le cose più belle e curiose che 
                          si trovano per casa”, vi invito a condividere 
                          questo spirito scrivendo a Robotradio records c.p. 62 
                          38015 Lavis (TN) oppure stefano@robotradiorecords.com. 
                          Di Jonson Family ho parlato spesso e ci ritorno stavolta 
                          per citare la loro ultima uscita (forse, visto la velocità 
                          con la quale tirano fuori nuovi oggetti da ascolto). 
                          Cove è un gruppo prevalentemente strumentale, 
                          molto forte, intenso. Questo minicd (Hi-watt) è 
                          la conferma di questa direzione, quindi siamo nel regno 
                          di Slint, Codeine e Sonic Youth. Hanno già varie 
                          uscite alle spalle con la loro etichetta, questa si 
                          aggiunge al catalogo di Jonson Family, sempre più 
                          cornerstone dell’indipendenza inglese di questi 
                          ultimi anni. Le canzoni dei Cove hanno dei bei titoli 
                          tipo “Thelonious Monk vs Melodious Funk”. 
                          Fate fare un giro al topo su www.jonsonfamily.com. 
                          Alla prossima.
  Stefano Giaccone
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                          a Milano dal 1971.  Per 
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