È evidente 
                    che l’opera di Kafka non possa essere ridotta a una 
                    dottrina politica, di qualunque tipo essa sia. Kafka non produce 
                    discorsi, crea personaggi e situazioni, e nella sua opera 
                    esprime sentimenti, atteggiamenti, un modo di sentire. Come 
                    affermava Lucien Goldmann, il mondo simbolico della letteratura 
                    è irriducibile al mondo discorsivo delle ideologie, 
                    l’opera letteraria non è un sistema concettuale 
                    astratto, come lo sono le dottrine filosofiche o politiche, 
                    bensì creazione di un universo immaginario concreto 
                    di personaggi e di cose. 
                    E tuttavia, ciò non proibisce di esplorare i passaggi, 
                    le connessioni, i legami sotterranei tra il suo spirito antiautoritario, 
                    la sua sensibilità libertaria, le sue simpatie socialiste, 
                    da un lato, e i suoi scritti principali, dall’altro. 
                    Essi rappresentano vie di accesso privilegiate a quello che 
                    potrebbe chiamarsi il suo paesaggio interiore. 
                    Le inclinazioni socialiste di Kafka si manifestano ben presto: 
                    secondo il suo amico di gioventù e compagno di studi 
                    liceali Hugo Bergmann, il giovane Kafka portava, per rendere 
                    manifeste le proprie opinioni, un garofano rosso all’occhiello. 
                    La loro amicizia si era un po’ raffreddata durante l’ultimo 
                    anno di liceo (1900-1901), perché “il suo 
                    socialismo e il mio sionismo erano troppo forti”. 
                    
                    Di che socialismo si tratta? Diverse testimonianze di contemporanei 
                    fanno riferimento alle simpatie che Kafka nutriva per i socialisti 
                    libertari cechi. È in questa direzione, dunque, che 
                    si devono orientare le ricerche, se si vuol conoscere il tipo 
                    di socialismo “troppo forte” (secondo 
                    Bergmann) del giovane Kafka. 
                   Max 
                    Brod, amico e biografo di Kafka
 Max 
                    Brod, amico e biografo di Kafka
                   Simpatie libertarie
 
                    Simpatie libertarie
                  Tre testimonianze di connazionali suoi contemporanei documentano 
                    le simpatie nutrite da Kafka per i socialisti libertari cechi, 
                    e la sua partecipazione ad alcune delle loro attività. 
                    All’inizio degli anni Trenta, Max Brod raccoglie alcune 
                    informazioni da uno dei fondatori del movimento anarchico 
                    ceco, Michal Kacha. Hanno a che vedere con la presenza di 
                    Kafka alle riunioni del Klub Mladych (Club dei giovani), un’organizzazione 
                    libertaria, antimilitarista e anticlericale, frequentata da 
                    diversi scrittori cechi. 
                    La seconda testimonianza è quella dello scrittore anarchico 
                    Michal Mares, che aveva conosciuto Kafka per strada (erano 
                    vicini di casa). Secondo Mares, Kafka aveva partecipato, accogliendo 
                    il suo invito, a una manifestazione contro l’esecuzione 
                    di Francisco Ferrer, l’educatore libertario spagnolo, 
                    nell’ottobre 1909. Nel corso degli anni 1910-12, avrebbe 
                    assistito ad alcune conferenze anarchiche sull’amore 
                    libero, sulla Comune di Parigi, sulla pace e contro l’esecuzione 
                    del militante libertario parigino Liabeuf. 
                    Il terzo documento è rappresentato dai Colloqui 
                    con Kafka (1951) di Gustav Janouch. Questa testimonianza, 
                    che fa riferimento agli scambi avuti con lo scrittore praghese 
                    durante gli ultimi anni della sua vita (a partire dal 1920), 
                    mostra come le simpatie di Kafka per i libertari fossero ancora 
                    vive. Non soltanto definisce gli anarchici cechi “molto 
                    gentili e molto simpatici”, “così 
                    gentili e tanto amabili che non si può non credere 
                    a tutto quel che dicono”, ma le idee politiche 
                    e sociali che egli esprime in queste conversazioni sono ancora 
                    fortemente segnate dalla corrente libertaria. 
                    Non si tratta, in alcun modo, di dimostrare una pretesa “influenza” 
                    degli anarchici praghesi sugli scritti di Kafka. Al contrario, 
                    fu lui, muovendo dalle proprie esperienze e dalla sua sensibilità 
                    antiautoritaria, a scegliere di frequentare, per qualche anno, 
                    le attività di quegli ambienti (e di leggerne alcuni 
                    dei testi). Non vi sarebbe nulla di più erroneo, infatti, 
                    che credere che Kafka abbia voluto trascrivere le proprie 
                    simpatie libertarie nella sua opera letteraria. 
                    Se tra quest’ultima e le prime vi è come un’“aria 
                    familiare”, è perché entrambe riflettono 
                    un che di fondamentale, un atteggiamento esistenziale, un 
                    tratto essenziale del suo carattere. È lui stesso a 
                    definirlo, questo tratto, non senza una certa inflessibile 
                    durezza, una sincerità impietosa, in una lettera alla 
                    fidanzata Felice Bauer del 19 ottobre 1916: “Io, 
                    che spessissimo ho mancato d’indipendenza, ho una sete 
                    infinita di autonomia, d’indipendenza, di libertà 
                    in ogni direzione […]. Qualsiasi legame che non sia 
                    io stesso a creare, è privo di valore, mi impedisce 
                    di andare avanti, lo odio, o sono molto vicino ad odiarlo”. 
                    Un’infinita sete di libertà in ogni direzione: 
                    non si potrebbe meglio descrivere il filo rosso che attraversa 
                    tanto la vita quanto l’opera di Kafka (e soprattutto 
                    quella del periodo inauguratosi nel 1912), e che conferisce 
                    loro una straordinaria coerenza, malgrado la loro tragica 
                    incompiutezza. 
                    Effettivamente, un antiautoritarismo di ispirazione libertaria 
                    attraversa l’insieme dell’opera narrativa di Kafka, 
                    in un movimento di “spersonalizzazione” e crescente 
                    reificazione dell’autorità paterna e personale 
                    nell’autorità amministrativa e anonima. Non si 
                    tratta di una qualche dottrina politica, ma di un modo di 
                    sentire e di una sensibilità critica, la cui arma principale 
                    è l’ironia, l’umorismo, quell’umorismo 
                    nero che è “una rivolta suprema dello spirito” 
                    (André Breton). 
                  
                  Francisco 
                    Ferrer, pedagogista anarchico spagnolo
                   Verso la critica degli apparati di potere
 
                    Verso la critica degli apparati di potere 
                  I primi racconti di Kafka, La condanna e La 
                    metamorfosi, che risalgono al 1912, mettono in scena 
                    l’autorità patriarcale, o, per riprendere un 
                    commento di Milan Kundera in proposito, il “totalitarismo 
                    famigliare”. 
                    Il romanzo incompiuto America (1912-14), fortissima 
                    critica della civiltà industriale capitalista, è 
                    un’opera di transizione: vi sono ancora presenti figure 
                    di stampo patriarcale, ma si vede già apparire il potere 
                    delle strutture gerarchiche. La grande svolta verso la critica 
                    degli “apparati” di morte anonimi è rappresentata 
                    dal racconto Nella colonia penale, scritto poco dopo 
                    America. Nella letteratura universale pochi sono 
                    i testi che presentano l’autorità con un volto 
                    tanto ingiusto e mortifero. Non si tratta del potere di un 
                    singolo individuo (i comandanti, vecchi e nuovi, della colonia 
                    non hanno che un ruolo secondario nel racconto), bensì 
                    di quello di un meccanismo impersonale. 
                    Il contesto del racconto è quello del colonialismo 
                    francese. Gli ufficiali e i comandanti della colonia penale 
                    sono francesi, mentre gli umili soldati, i portuali, le vittime 
                    che devono essere giustiziate sono “indigeni” 
                    che “non capiscono una sola parola di francese”. 
                    Un soldato “indigeno” è condannato 
                    a morte da ufficiali la cui dottrina giuridica riassume in 
                    poche parole la quintessenza dell’arbitrarietà: 
                    “Non si deve mai mettere in dubbio la colpevolezza!”. 
                    La sua esecuzione deve essere compiuta tramite una macchina 
                    da tortura che, trapassandolo con aghi, scrive lentamente 
                    sul suo corpo: “Onora i tuoi superiori”. 
                    
                    Il personaggio centrale del racconto non è né 
                    il viaggiatore che osserva gli eventi con muta ostilità, 
                    né il prigioniero, che non reagisce affatto, né 
                    l’ufficiale che presiede all’esecuzione, né 
                    il comandante della colonia. È la macchina stessa. 
                    
                    Tutto il racconto ruota intorno a questo sinistro apparato 
                    (Erpice), che emerge sempre più, nel corso 
                    della spiegazione molto dettagliata che l’ufficiale 
                    ne dà al viaggiatore, come un fine in sé. 
                    L’Erpice non è fatto per giustiziare l’uomo, 
                    è piuttosto quest’ultimo a essere lì per 
                    l’apparecchio, per fornirgli un corpo sul quale possa 
                    scrivere il suo capolavoro estetico, la sua sanguinosa iscrizione 
                    illustrata da “molti florilegi e abbellimenti”. 
                    L’ufficiale stesso non è un che un servitore 
                    della macchina e, infine, si sacrifica anch’egli a questo 
                    Moloch insaziabile. 
                    A quale concreta “macchina di potere”, 
                    a quale “apparato d’autorità” 
                    sacrificatore di vite umane, pensava Kafka? Nella colonia 
                    penale è stato scritto nell’ottobre 1914, 
                    tre mesi dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. 
                   Kafka 
                    assieme alla fidanzata Felice Bauer
 Kafka 
                    assieme alla fidanzata Felice Bauer
                   La natura alienante dello Stato
 
                    La natura alienante dello Stato 
                  L’ispirazione antiautoritaria è inscritta nel 
                    cuore dei grandi romanzi di Kafka, Il processo e 
                    Il castello, che ci parlano dello Stato (che sia 
                    nella forma dell’“amministrazione” o della 
                    “giustizia”) come di un sistema di dominio impersonale, 
                    che schiaccia, soffoca o uccide i singoli individui. Si deve 
                    ricordare che Kafka non descrive, nei suoi romanzi, Stati 
                    “d’eccezione”: una delle idee principali 
                    (di cui è manifesta la vicinanza con l’anarchismo) 
                    suggerite dalla sua opera è quella della natura alienata 
                    e oppressiva dello Stato “normale”, legale e costituzionale. 
                    Fin dalle prime righe del Processo, è detto 
                    chiaramente: “K. viveva pur in uno Stato di diritto 
                    (Rechstaat), la pace regnava ovunque, erano in vigore tutte 
                    le leggi, chi osava dunque assalirlo in casa sua?”. 
                    Come i suoi amici, i libertari praghesi, egli sembra considerare 
                    qualsiasi forma di Stato, lo Stato in quanto tale, una gerarchia 
                    autoritaria e liberticida. 
                    Una tale interpretazione “critica”, beninteso, 
                    è in flagrante contraddizione con le numerose letture 
                    metafisiche che della rassegnazione di fronte alla “condizione 
                    umana”, in ciò che essa ha di più atemporale, 
                    fanno l’oggetto dei romanzi di Kafka. In un saggio sullo 
                    scrittore, pubblicato nel 1953, Theodor Adorno aveva già 
                    chiuso i suoi conti con questo genere di argomento: “Il 
                    tono della sua opera è quello dell’estrema sinistra; 
                    riducendolo all’eterno umano, già lo si tradisce 
                    in maniera conformista”. Questa nota polemica merita 
                    un commento. Non parla di un messaggio, di una dottrina o 
                    di una tesi, ma di un tono, nel senso musicale del termine. 
                    È poco probabile che Adorno abbia avuto conoscenza 
                    delle testimonianze sulle simpatie libertarie di Kafka. Dunque, 
                    è attraverso una lettura immanente dei testi letterari 
                    che egli giunge a tale conclusione.