| Quattrodialoghi
 Nel 1903, la polizia dello Zar segnalava Bogdanov e Lenin come 
                  i due rivoluzionari “più pericolosi in assoluto” 
                  (1). Insieme, uno in Russia e l’altro 
                  dalla Svizzera, guidarono la neonata fazione dei bolscevichi 
                  durante la Rivoluzione del 1905 – una rivoluzione fallita, 
                  come è noto, ma importante per la formazione dei “soviet”. 
                  Nel 1909, Lenin diede lo storico calcio al tavolo scrivendo 
                  e pubblicando in tutta fretta Materialismo ed empiriocriticismo; 
                  e, soprattutto, lasciando il compagno a meditare sull’ipotesi 
                  di “suicidarsi, dopo essere stato escluso dai piu’ 
                  importanti comitati di partito” (2).
 Bogdanov, che fu “lo scrittore di gran lunga più 
                  produttivo e popolare della socialdemocrazia russa”, accanto 
                  a Plechanov (3), continuò a 
                  lavorare, deprecando la Rivoluzione d’Ottobre – 
                  prima e dopo i fatti –, e subendo anche un arresto nel 
                  1923 (4), fino alla morte – 
                  che lo colpì, in modo non del tutto chiaro, quando aveva 
                  cinquantacinque anni, nel 1928.
 Sotto il regime di Stalin, di pari passo con la canonizzazione, 
                  a massimo riferimento gnoseologico del marxismo, proprio della 
                  summenzionata opera che Lenin aveva concepito e scritto contro 
                  di lui, le sue opere furono “fatte sparire” dalla 
                  circolazione (5).
 Ben poco dei suoi scritti è oggi accessibile a chi, perlomeno, 
                  non conosca il russo. Comunque, sul finire degli anni ’80, 
                  Ernst von Glasersfeld si reca ad un convegno per parlare del 
                  suo “costruttivismo radicale”, e, grazie a un collega 
                  russo venuto in possesso di un volumetto sfuggito alla censura, 
                  scopre che Bogdanov esprimeva, dice Glasersfeld, “con 
                  chiarezza ed eleganza eccezionali, alcune riflessioni che sono 
                  di fondamentale importanza nel costruttivismo” – 
                  anticipando una serie di argomentazioni con cui i filosofi della 
                  scienza “si sono spesso scontrati”, dagli anni ’50 
                  in poi (6).
 Il volume in tal modo fortunosamente recuperato e appena tradotto 
                  in italiano, per la prima volta, a cura di Felice Accade (7), 
                  è intitolato Quattro dialoghi su scienza e filosofia. 
                  Fu pubblicato nel fatidico anno della rottura con Lenin, il 
                  1909.
 Ma più che rispondere direttamente a Lenin (8), 
                  direi che forse questi dialoghi trasfigurano la loro vicenda 
                  umana, oramai disperatamente in crisi, raccontando di due personaggi: 
                  un “marxista funzionario del Partito” il primo, 
                  chiamato A, e “un vecchio propagandista” il secondo, 
                  chiamato B.
 Il primo personaggio, una parodia che rovescia il Lenin che 
                  improvvisamente si chiude nella biblioteca pubblica di Londra 
                  (come già Marx) per ridurre il suo divario di erudizione 
                  rispetto a Bogdanov e attaccarlo sul piano filosofico, si presenta 
                  così:
  A: Mi scusi se l’importuno. Anche se non ci conosciamo 
                  affatto, mi permetto di chiedere aiuto e consiglio a un competente 
                  par suo. Mi piacerebbe studiare filosofia. Come devo cominciare?
 B, il personaggio a cui è affidato il sapere di Bogdanov, 
                  acconsente al dialogo, che entra subito nel vivo dei tormenti 
                  filosofici di A, che, in realtà, aveva già iniziato 
                  a studiare:   A: ammettiamo pure che esista un essere esterno, che esista 
                  la conoscenza, che il soggetto e l’oggetto ne siano la 
                  condizione... Ma perché tutto questo? E se la conoscenza 
                  è necessaria, qual è il suo posto? E una volta 
                  letto tutto quanto c’è da leggere, se si cerca 
                  un riscontro, che rapporto c’è...
  B: Credo di aver capito. Siamo partiti con il piede sbagliato. 
                  Per lei la filosofia è una questione di vita, non di 
                  cose da leggere. Non potevo saperlo.
 B sottopone ad A domande su domande, come da tradizione platonica 
                  – ma esse, a differenza di quelle del presunto Socrate, 
                  sono finalizzate a confezionare la proposta di un “monismo 
                  scientifico”; un punto di vista che, gradualmente, sarebbe 
                  destinato a sostituire, paradossalmente, proprio quella “filosofia” 
                  che A voleva studiare – e, soprattutto, “vivere”. 
                  A, marxista e funzionario del Partito, rispondendo alle domande, 
                  deve collocare la filosofia nella “sovrastruttura” 
                  – come “coronamento dell’ideologia”; 
                  mentre le “forze produttive” della società 
                  si troverebbero nella sua “base”.
 B passa a chiedergli, allora, se egli sa qualcosa della “capacità 
                  di lavoro dell’uomo”: per arrivare, passando per 
                  “tutta la struttura organizzata dell’uomo”, 
                  alla “teoria della lingua” e “al problema 
                  della sua nascita e della sua evoluzione”, su cui, ovviamente, 
                  inchioda il suo interlocutore:
  B: Come lei sa, la parola è lo strumento della comunicazione 
                  (...). E, in quanto marxista, lei sa bene che se un lavoratore 
                  non padroneggia i suoi utensili saranno questi a padroneggiare 
                  lui.
 Il primo dialogo si chiude con una battuta, da parte di A, 
                  che messo di fronte alla propria ignoranza non si offende affatto, 
                  mentre, al contrario – apprezza il suggerimento:   A: e adesso mi metterò a studiare l’alfabeto... 
                  delle forze produttive.
 Ernst von Glasersfeld trova una notevole “congruenza” 
                  fra le tesi di Bogdanov e il suo “costruttivismo radicale”. 
                  Soprattutto allorquando Bogdanov, “con riferimento all’esperienza” 
                  che Glasersfeld considera “il concetto fondamentale del 
                  suo pensiero”, afferma che non si devono considerarne 
                  gli “elementi” come “indipendenti dall’essere 
                  umano”. Per entrambi, in breve, “non ci sono elementi 
                  a priori, visto che è l’uomo stesso a 
                  determinarli e definirli, isolandoli nel flusso dell’esperienza” 
                  (9). Gli “elementi dell’esperienza” (parole di 
                  Ernst Mach) sono sempre ulteriormente analizzabili, provenendo 
                  dal “lavoro” (categoria fondamentale in Karl Marx), 
                  sia individuale – di soggetti pensanti –, e sia 
                  collettivo – di appartenenti a movimenti culturali e politici, 
                  famiglie, comunità linguistiche, classi sociali e così 
                  via.
 Il concetto di “cultura proletaria”, proposto da 
                  Bogdanov partendo dal Marx che faceva di ogni pratica (socializzata) 
                  un criterio di “verità” e dal Mach che scomponeva 
                  tutta l’esperienza in “elementi” e loro “combinazioni”, 
                  era alla base della rivoluzione costruttivista-bolscevica che 
                  non ci fu – stroncata dal dogmatismo di Lenin.
 Per il “costruttivismo radicale” di Glasersfeld 
                  come per Bogdanov, in conclusione, è cruciale la lotta 
                  degli atteggiamenti sensati – solitamente propri della 
                  vita quotidiana – contro i misticismi-autoritarismi – 
                  tutelati dagli pseudo-problemi della filosofia.
  Francesco Ranci
 Note: 
                 
                  Massimo Stanzione, Selezione, organizzazione e metodo 
                    scientifico in A.A. Bogdanov; in Quattro dialoghi 
                    su scienza e filosofia di A.A. Bogdanov, Odradek, Roma, 
                    2004, p. 63. 
                  Massimo Stanzione, cit., p. 63.
                  Silvano Tagliagambe, Bogdanov tra costruttivismo e scienza 
                    dell’organizzazione; in Quattro dialoghi, 
                    cit., p. 95. 
                  Daniela Steila, Scienza e rivoluzione. La recezione 
                    dell’empiriocriticismo nella cultura russa (1877-1910), 
                    Le Lettere, Firenze, 1996. 
                  Ernst Von Glasersfeld, Prefazione a Quattro dialoghi, 
                    cit., p. 7. 
                  Ernst Von Glasersfeld, Prefazione a Quattro dialoghi, 
                    cit., pp. 7 e 10. 
                  A.A. Bogdanov, Quattro dialoghi su scienza e filosofia 
                    – con scritti di Ernst von Glasersfeld, Massimo Stanzione 
                    e Silvano Tagliagambe, Odradek, Roma, 2004. Con presentazione 
                    del curatore, Felice Accame. 
                  A. Bogdanov (et al.), Fede e scienza, Einaudi, 
                    Torino, 1982. 
                  cfr. Ernst Von Glasersfeld, Prefazione a Quattro dialoghi, 
                    cit., p. 7. 
                    Acrobati Acrobati 
                  di vita quotidiana senza applausi fra eroiche guerre mai dichiarate
 eppure sofferte in recinti prigioni
 camuffate di pietose attenzioni.
 Tortuosi 
                  percorsi ginnici liberi consigli mentali
 propensi a correggere sbagli
 e centrare possibili, vicini, bersagli.
 Cacofoniche 
                  immagini estetiche prodotte da suoni scomposti
 fra spine con rose coltivate
 in pentagrammi di note stonate.
 Nascondersi 
                  vorrebbe Cyrano all’amore il pronunciato naso
 componendo amabili versi
 ma passa parola a terzi.
 Nasconderci 
                  ci hanno provato poi, comodo e appropriato, non più
 guardarci lontano…diversamente
 abili…che nome strano
 Ma le parole 
                  feriscono con un sorriso più di uno storpio detto da cattivo
 se la differenza è tra un noi e quelli là
 quale 
                  consiglio , allora, mi dà? Lasciarci giocare la vita.
 Siamo acrobati…tutto un hoplà!
 16 settembre 2004  Jules Élysard
   Guerra, terrorismoe Stato di polizia
 Nulla è 
                  pieno quanto l’assenza tagliata da una luce caliginosa
 sull’opaca, densa, superficie a specchio
 la paura vi scivola lenta e minacciosa
 rigandola con triste esperienza.
 Neppure 
                  il silenzio fa la sua parte quando nessuno vi presta più orecchio,
 quando il rumore cala spietato, ingombrante
 su occhi smarriti che guardano il tetto
 … dove andare?…cosa fare?
 E tocca, 
                  tocca ricordarle…strazianti immagini indicibili di volti senza sorriso,
 in fogli quotidiani distrattamente orribili
 alla ricerca di un perché, di un motivo
 per quegli urli, quei dolori, quei pianti.
 Nomi, date, 
                  luoghi, sofferta geografia di una pietà ormai morta, di sentimenti
 da tempo sepolti, giacché liberi orizzonti
 mentali non erano rinchiusi altrimenti
 tra guerra, terrorismo, e stato di polizia.
 11 settembre 2004   Jules Élysard
   Prima edizione,Prima Internazionale
 Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione, scritta 
                  da Giampietro “Nico” Berti, al libro di James Guillaume 
                  L’Internazionale. Documenti e ricordi (1864-1878). 
                  Edito dal Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo.
 
                  
                    |  |  “La prima edizione dell’Internazionale 
                  fu pubblicata a Parigi, in quattro volumi, tra il 1905 e il 
                  1910. Una seconda edizione ha visto la luce, sempre a Parigi, nel 
                  1985. Quella che viene qui presentata è la prima versione 
                  in lingua italiana, la quale, pertanto, sconta un secolo di 
                  ritardo rispetto all’uscita originaria dell’opera. 
                  Tuttavia il lavoro di Guillaume risulta ancora oggi fondamentale, 
                  non certo sotto il profilo strettamente storiografico, dato 
                  che la bibliografia sul tema annovera ormai un numero elevato 
                  di ricerche importanti, ma perché costituisce una fonte 
                  “classica”, e per certi versi insuperabile. Guillaume, 
                  infatti, ha fuso insieme la documentazione archivistica e la 
                  documentazione bibliografica (libri, opuscoli, memoriali di 
                  vario genere), intrecciando i resoconti giornalistici e gli 
                  articoli tratti dai periodici dell’epoca, brani di opere 
                  e di testi ufficiali, lettere di vari personaggi e molti ricordi 
                  personali e altrui.
 Specialmente l’intreccio delle memorie rende l’opera 
                  interessante perché l’insieme dei particolari e 
                  degli aneddoti più curiosi e i più diversi ha 
                  una grande capacità evocativa, offrendo una panoramica 
                  assai “ravvicinata” degli uomini e degli eventi 
                  del periodo. Il risultato di questo intreccio oggettivo-soggettivo, 
                  steso volutamente con metodo il più possibile filologico 
                  e descrittivo, è stato la delineazione di un quadro pressoché 
                  completo di ciò che è avvenuto dal 1864 al 1878 
                  (anche se buona parte della ricostruzione storica riguarda la 
                  Svizzera).
 Se scorriamo l’indice di quest’opera possiamo agevolmente 
                  constatare come siano cronologicamente riportati tutti i principali 
                  avvenimenti dell’associazione. Sono descritte le vicende 
                  dei congressi internazionali svoltisi a Ginevra, Losanna, Bruxelles 
                  e Basilea, la Conferenza di Londra del 1871 e il congresso dell’Aja 
                  dell’anno successivo. Non sono tralasciati avvenimenti 
                  “laterali” quali i congressi della Lega della pace 
                  e della libertà, e fatti locali riguardanti soprattutto 
                  l’ambito elvetico, peraltro importante, essendo di per 
                  sé un ripetuto luogo di incontro fra i maggiori esponenti 
                  internazionalisti…
 Molte pagine sono dedicate alla guerra franco-prussiana e alla 
                  Comune di Parigi perché costituiscono un momento decisivo 
                  per la storia delle organizzazioni operaie e socialiste. Dopo 
                  il congresso dell’Aja, che di fatto pone fine alla Prima 
                  Internazionale, la ricostruzione di Guillaume si focalizza soprattutto 
                  sulla nascita e sugli sviluppi del movimento anarchico, specialmente 
                  per quanto riguarda l’Italia e la Spagna, due Paesi nei 
                  quali l'anarchismo si esprime con vari tentativi insurrezionali 
                  seguiti da inevitabili repressioni governative.
 Complessivamente gli anni che vanno dal 1872 al 1878 trattano 
                  della genesi anarchica riguardante l'aspetto ideologico e l'aspetto 
                  organizzativo; una genesi che imprime quei caratteri fondamentali 
                  che determineranno gran parte della storia futura del movimento.
 Naturalmente con l’Internazionale Guillaume non ha avuto 
                  la pretesa di presentare un'opera “obiettiva”, immune 
                  da ogni forma di soggettività. Il solo fatto di darle 
                  come sottotitolo Documenti e ricordi testimonia questa consapevolezza. 
                  Ci troviamo infatti di fronte ad un'interpretazione che risente 
                  della personale angolazione dell'autore, la quale è data 
                  soprattutto dalla forte accentuazione anti-politica volta a 
                  sottostimare il vero senso dello scontro tra marxismo e anarchismo, 
                  così come esso è emerso dal 1864 al 1872. Sia 
                  ben chiaro: lo scontro è ampiamente documentato (per 
                  certi versi anche troppo), ma lo è entro un'ottica di 
                  tipo “etico”, vale a dire che la contrapposizione 
                  viene delineata rilevando i comportamenti scorretti da parte 
                  di Marx e dei marxisti contro gli anarchici.
 Al di là della evidente unilateralità di tale 
                  impostazione – che comunque documenta fatti veri e sempre 
                  taciuti da quasi tutta la storiografia marxista – va osservato 
                  che Guillaume finisce per sottovalutare il ruolo leaderistico 
                  e tutto “partitico” svolto da Bakunin e dallo stesso 
                  Marx. Un ruolo, per l'appunto, che è stato eminentemente 
                  politico e sul quale si sono giocate le sorti della Prima Internazionale. 
                  La vera posta in gioco, infatti, era la determinazione politica 
                  da imprimere all'organizzazione operaia, da parte di due concezioni, 
                  quella marxista e quella anarchica, che non avevano alcuna possibilità 
                  di mediazione.
 La presente introduzione ruota attorno alla centralità 
                  di questa contrapposizione, che peraltro costituisce l'interesse 
                  maggiore dell'opera. Delineeremo quindi alcuni aspetti fondamentali, 
                  analizzando soprattutto tre punti: 1) l’opposta interpretazione 
                  delle fonti ideologiche originarie dell'associazione che dovevano 
                  legittimarne l'esistenza, 2) l’opposta interpretazione 
                  della guerra franco-prussiana e della Comune di Parigi; 3) l’opposta 
                  interpretazione del ruolo che avrebbe dovuto assumere l’Internazionale 
                  nella lotta del movimento operaio e socialista contro il capitalismo 
                  e contro lo Stato”.
  Giampietro “Nico” Berti
 
                  
                     
                      | Dal 
                          catalogo delle edizioni del CSL Camillo Di Sciullo 
                           Collana 
                          Biblioteca del “Pensiero” 1) Francesca Piccioli, Virgilia D’Andrea, 
                          storia di un’anarchica, pp. 192, € 10,00
 2) Luigi Corvaglia, Psicopatologia della libertà, 
                          pp. 208, € 10,00
 3) Ugo Fedeli - Giorgio Sacchetti (a cura di), Congressi 
                          e convegni della Federazione Anarchica Italiana (1944-1995), 
                          pp. 560, € 18,00
 4) Edoardo Puglielli, Abruzzo Rosso e Nero, 
                          pp. 272, € 12,00
 5) Leone Tolstoj, Per l’uccisione di re Umberto, 
                          pp. 80, € 8,00
 6) James Guillaume, L’Internazionale documenti 
                          e ricordi (1864-1878), 4 tomi per complessive pp. 
                          2160, € 80,00
 7) Fabio Palombo, Camillo Di Sciullo, anarchico 
                          e tipografo di Chieti, pp. 96, € 10,00
 8) Luigi Balsamina, Antonio D’Alba, storia 
                          di un mancato regicida, pp. 128, € 10,00
 Collana 
                          Quaderni dei CSL Camillo Di Sciullo 1) G.P. Maximoff, Gli anarcosindocalisti nella rivoluzione 
                          russa
 2) Kreszentia Mühsam, Il calvario di Erich 
                          Mühsam
 3) Luigi Compolonghi, Amilcare Cipriani.
 4) Domenico De Simone, Banca del movimento
 5) Pierre Ansart, Proudhon, il socialismo come autogestione
 Per 
                          richieste CSL Camillo Di Sciullo C. P. 86, 66 100 Chieti
 email: fab.pal@libero.it
 |    Chiavi 
                  che aprono il cuore
 Riflessioni a margine di “Le chiavi di casa”, 
                  il nuovo film di Gianni Amelio.
 Eccoci dunque al cinema, sedute nel freddo della sala condizionata, 
                  e sì che l’autunno incombe, ma tant’è, 
                  l’aria condizionata oramai sembra più indispensabile 
                  dell’aria stessa, attente e curiose dopo l’abboffata 
                  di recensioni al buio, le ricche commozioni veneziane, i naufragati 
                  pronostici degli inviati speciali. Eccoci, io e mia figlia Maria Elena, insieme ad altri quattro 
                  gatti, all’ultima proiezione in un sabato che, al solito, 
                  consuma i propri fasti in pub sempre più zeppi e rumorosi, 
                  nell’inarrestabile movida che persino la nostra 
                  liberale sindachessa di Alleanza Nazionale incoraggia e promuove.
 Ho appena consegnato le chiavi di casa ad un distratto spettatore 
                  che le aveva abbandonate sul divano rosso della saletta d’attesa 
                  e mi auguro per ricompensa un bel chiasmo con le metaforiche 
                  chiavi di Amelio, sperando di non dovermi sorbire l’ennesimo 
                  strabiliante idiot savant del cinema che lava le coscienze 
                  e fa sentire tutti più buoni.
 Altrochè! Queste chiavi, cari spettatori, son grimaldelli 
                  che le scassinano le coscienze, che tengono a disagio sul bordo 
                  della comoda poltrona di prima visione, che additano ed accusano 
                  ogni indifferente e lagnosa normalità.
 Queste chiavi aprono il cuore, sì, ma non consentono 
                  di chiudere il cervello né di uscire dal cinema piagnucolosi 
                  e rasserenati.
 Intanto gli attori. Bravissimi, ancor più bravi perché 
                  sono per la maggior parte del film solo in due, padre e figlio, 
                  e tengono costantemente tempo, espressività e recitazione 
                  a livelli altissimi. Il misuratissimo, spaventato, stranito 
                  Kim Rossi Stuart (il padre), è bellissimo, e se ne impippa, 
                  Andrea Rossi (il figlio) è stupefacentemente naturale, 
                  ed io dico che se un ragazzino affetto da tetraplegia spastica, 
                  e che con il cinema non ha mai avuto a che fare, riesce ad apparire 
                  “vero” su di un set cinematografico, può 
                  voler dire solo che è un bravo attore. Quanto a Charlotte 
                  Rampling, meriterebbe l’oscar quale miglior attrice non 
                  protagonista per avere, con la propria grandezza artistica, 
                  donato dignità e visibilità a tutte le madri sconfitte 
                  dalla crudeltà del caso, ed anche la corona di miss mondo 
                  quale più bella ultracinquantenne che giammai fece iniettare 
                  nel suo splendido volto una sola goccia di silicone!
 E veniamo al film.
 È uno splendido film triste e calmo, come occorre che 
                  sia quando il tema trattato è quello di una diversità 
                  difficile, dolorosa, faticosissima. Ragazzi, qua non siamo dalle 
                  parti di Rain Man e neanche da quelle di Shine. 
                  Qui non ci sono grandi talenti che riscattino l’handicap, 
                  qua nessuno suona il pianoforte, nessuno fa straordinari calcoli 
                  matematici, nessuno scopa o va a ballare. La sola abilità 
                  del piccolo disabile è quella di pestare furiosamente 
                  sul game boy!
 C’è un bambino di 15 anni, Paolo, che cammina col 
                  trespolo, e ci fa una fatica boia, c’è un padre, 
                  Gianni, che è scappato per un tempo inaudito e forse 
                  torna solo perché è riuscito a fare un altro figlio 
                  “normale”, ad avere una vita normale (Gianni è 
                  innamorato e felicemente sposato ed ha un bambino di otto mesi), 
                  ma non saprà mai, il regista giustamente non glielo fa 
                  sapere, se potrà recuperare il tempo smarrito e rimediare 
                  alla passata vigliaccheria. A quest’uomo capita all’improvviso 
                  di dover affrontare le proprie responsabilità, esattamente 
                  come capita nella vita, e lo fa con un coraggio continuamente 
                  interrotto dall’ansia e dall’incertezza, e con una 
                  dolcezza che fa male al cuore.
 Ci sono due esseri umani, ignoti l’uno all’altro, 
                  che partono per un viaggio della speranza in una città 
                  straniera, che si scoprono ed imparano ad amarsi (meravigliosamente 
                  pregne di fisicità le scene in cui padre e figlio si 
                  abbracciano, mangiano, fanno il bagno insieme): l’uno, 
                  il bambino disabile, il debole, lo sfortunato, con una forza 
                  che è la forza di chi prende la vita per quello che offre 
                  e la percorre come una lunga strada sconosciuta e affascinante 
                  (commovente l’impavida fuga di Paolo nella città 
                  aliena, straordinario quel suo stare in piedi e assorto tra 
                  le scosse dell’autobus); l’altro, l’adulto 
                  sano, l’uomo bello e gentile, il padre che ha tradito 
                  ma sa tornare, e rimanere, con la fragilità di ogni uomo 
                  che si dibatte fra la necessità e la paura di amare.
 Gianni Amelio è stato da sempre interessato alle realtà 
                  difficili calate in un preciso contesto storico-sociale, e forse 
                  per tale suo impegno può essere considerato in un certo 
                  senso l’ultimo dei neorealisti (esemplare la scelta di 
                  far recitare la parte del disabile ad un autentico disabile, 
                  a tal proposito lo stesso Amelio ha dichiarato di non aver pensato 
                  un solo momento di usare un vero attore “anche se sapevo 
                  di andare incontro ad un possibile fallimento tecnico”), 
                  non meno però che allo scandaglio del rapporto tra adulti 
                  e bambini, tra genitori e figli (Il ladro di bambini, 
                  Colpire al cuore), ed ogni volta ha saputo coniugare 
                  egregiamente il dramma dell’esistenza quotidiana con quello 
                  dell’incomunicabilità umana, ma questa volta tocca 
                  a mio parere il suo punto più alto.
 Si è detto che questo film è la storia del difficile 
                  rapporto tra padre e figlio, tanto più difficile perché 
                  il figlio è un diverso e non c’è nessuna 
                  donna a mediare o a lenire (se si esclude la breve apparizione 
                  della madre di un’altra disabile, impersonata dalla Rampling, 
                  di per sé nient’affatto consolatoria), ma io ritengo 
                  che sia altro e più.
 Io penso che il tema centrale di questo film, il suo fondamentale 
                  motivo ispiratore, sia proprio l’handicap e che Amelio 
                  sia riuscito a far diventare la storia di Paolo, un diverso 
                  come tanti che ci passano accanto, senza che noi “normali” 
                  gli dedichiamo più che un fugace pensiero solidale, la 
                  storia di tutti noi, e l’ha fatto attraverso il personaggio-simbolo 
                  di Gianni, il padre indifferente per 15 anni, così come 
                  indifferenti siamo noi rispetto al dolore ed alle difficoltà 
                  degli altri. Gianni rappresenta proprio noi, gli spettatori 
                  che alla fine del film se ne vanno nella vita vera, e, restando 
                  dietro lo schermo, sembra avvertirci: attenti, è questa 
                  la vita vera!
  Maria Teresa Crespini (con la preziosa consulenza di Maria Elena Lega)
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