| riflessioni 
  Acqua e potere
 L’aumento del numero e della concentrazione della popolazione 
                  unito all’aumento dei consumi hanno fatto si che ci siano 
                  vasti territori del pianeta con un bilancio idrico negativo 
                  anche in presenza, come si riscontra in alcuni casi, di una 
                  ragionevole disponibilità d’acqua a livello locale. 
                  La gestione dell’acqua appare oggi uno degli obiettivi 
                  economico e “strategico” di principale interesse 
                  a livello globale ed il problema della sua disponibilità 
                  è oggetto di una grande strumentalizzazione. Attraverso 
                  la segnalazione delle terrificanti condizioni riscontrabili 
                  in molti paesi poveri, delle carenze distributive e delle momentanee 
                  siccità dei paesi ricchi si tende, infatti, ad avvalorare 
                  soluzioni nocive per gli interessi delle comunità.
 Con l’acqua si costituisce profitto sia attraverso la 
                  sua vendita, sia con un uso per la produzione di merci; l’agricoltura 
                  industrializzata e l’industria necessitano di sempre maggiori 
                  forniture per l’aumento dei consumi per unità di 
                  prodotto e per il costante incremento della produzione.
 I grandi monopoli hanno dunque bisogno di assicurarsi risorse 
                  a basso costo e si comportano esattamente come nel caso del 
                  petrolio: tentando una gestione diretta e gratuita della risorsa. 
                  L’accaparramento delle risorse è indispensabile 
                  per l’aumento dei profitti e l’ipotesi che esse 
                  possano scarseggiare nel prossimo futuro sollecita un controllo 
                  più stretto, ben oltre le predicate regole del libero 
                  mercato, delle risorse stesse.
 Ad esempio nell’area di una tra le più grandi riserve 
                  di acqua del mondo sita al confine tra Argentina, Brasile e 
                  Paraguay sono da tempo presenti contingenti dell’esercito 
                  statunitense con l’obiettivo formale di una non meglio 
                  chiarita lotta al terrorismo e, come evidenziato dall’inchiesta 
                  del governo di quel paese dopo l’11 settembre, fu anche 
                  ipotizzata una occupazione di quell’area.
 La strategia delle grandi aziende si può sintetizzare 
                  nell’obiettivo di usufruire per ultime, indipendentemente 
                  da ogni interesse comune, della disponibilità di ciascuna 
                  risorsa. Dunque nell’ottica aziendale non è un 
                  problema che la distribuzione dell’acqua sia iniqua e 
                  non sufficiente a gran parte della popolazione planetaria, è 
                  invece un problema il controllo della risorsa necessaria ad 
                  alimentare la propria produzione.
 
  Il mercato globale è controllato da circa duecento 
                  grandi gruppi di aziende, in continuo accorpamento. A nessuno 
                  di questi soggetti importa nulla che non vi sia disponibilità 
                  d’acqua potabile per più di un miliardo di persone, 
                  che si possa morire di sete, che i consumi medi di un abitante 
                  di un paese ricco possono essere cinquecento volte superiori 
                  a quelle di un paese povero. Tutti sono però interessati 
                  a garantirsi le risorse per sostenere la propria produzione. 
                  La strategia degli stati si appiattisce su quella delle grandi 
                  aziende, i cui interessi determinano le politiche nazionali 
                  e subissano i poteri locali. Poteri più lontani, invisibili, 
                  lontani dai cittadini, sempre meno controllabili gestiscono 
                  le istituzioni. Esemplificativa è l’azione dell’Unione 
                  europea da anni maggiormente impegnata a difendere gli interessi 
                  di grandi produzioni (si veda le posizioni prese sui brevetti 
                  dei software, il sostegno alle colture geneticamente modificate, 
                  le norme che limitano la produzione artigianale e locale) che 
                  a rispondere alla richiesta di benessere e di autonomia culturale 
                  e sociale dei suoi cittadini.
 Ma la strategia delle aziende e degli stati è conflittuale 
                  con il benessere delle persone: infatti la salute delle produzioni 
                  e delle comunità locali è connesso, più 
                  che alla disponibilità, alla possibilità di accesso 
                  diretto all’acqua e la mancanza di tale condizione inibisce 
                  ogni autonomia e benessere.
 La gestione dell’acqua, così come praticata diffusamente, 
                  dunque, è (come lo è stato in passato) un ulteriore 
                  strumento per aumentare il potere di pochi su molti, per soggiogare 
                  comunità e metterle in uno stato di sofferenza proprio 
                  in ragione del modello che si vuole applicare.
 Gli abitanti di una megalopoli hanno ridotte possibilità 
                  di sopravvivere se non utilizzando l’acqua che viene fornita 
                  loro dagli enti di gestione delle reti idriche; l’impossibilità 
                  di accedere direttamente alla risorsa da parte degli individui 
                  e la concentrazione della domanda garantisce enormi profitti, 
                  facilita la costituzione di monopoli, costringe alla dipendenza 
                  per un bene primario.
 In questo contesto, quindi, fermarsi all’enunciazione 
                  che l’acqua è un bene comune ed alle richieste 
                  di garanzie per il mantenimento (ove sussista) di tale condizione 
                  senza mettere in discussione il modello insediativo e produttivo 
                  appare limitativo.
 Prima della diffusa affermazione del modello globale, quando 
                  ancora numerose comunità avevano una propria autonomia 
                  e proprie modalità di vita, i rapporti con il bene acqua 
                  erano diversi nei diversi luoghi. Gli insediamenti, la produzione, 
                  gli usi, il numero degli abitanti erano adattati alla disponibilità 
                  di acqua. Anche i sistemi di prelievo (e quindi le quantità 
                  prelevate) erano direttamente connessi con la capacità 
                  delle risorse di rinnovarsi.
 Dal recupero delle brine notturne per i territori aridi, alla 
                  attenta utilizzazione delle acque di pioggia, tutta la cultura 
                  dei popoli era volta alla comprensione delle disponibilità 
                  di acqua. Gli insediamenti erano attenti a non danneggiare le 
                  risorse, a collocarsi nei luoghi più adatti per accumulare, 
                  indirizzare ma non inibire l’uso dell’acqua; l’ambiente 
                  era attentamente capito e, per esempio, anche una piccola depressione 
                  diveniva un sito particolare dove di acqua era abbondante per 
                  le modalità di uso praticata.
 Comunità di individui hanno vissuto in condizioni diverse 
                  solo in ragione di una diversa disponibilità e tipologia 
                  di risorse. Oggi il modello è unico; si basa sul superamento 
                  di queste strette relazioni, sulla possibilità tecnica 
                  di prelevare maggiori quantità, sull’annullamento 
                  delle differenze.
 È necessario ripristinare una relazione diretta tra comunità, 
                  individui e risorse e quindi diversificare i comportamenti in 
                  ragione della loro presenza e disponibilità. Questo è 
                  il primo passo per garantire la conservazione degli ecosistemi 
                  e per sottrarsi ad un potere che diviene sempre più forte 
                  quanto maggiori sono le necessità e i desideri delle 
                  comunità e degli individui che può gestire.
 Il rapporto tra risorse ed autonomia delle comunità è 
                  strettissimo; e l’organizzazione attualmente proposta 
                  è autoritaria, centralizzata e fondata sulla sua indispensabilità 
                  per permettere il livello di consumo imposto. Non per nulla 
                  l’artificializzazione dei sistemi è così 
                  strumentalmente sostenuta: più i sistemi sono artificiali, 
                  più sono necessari infrastrutture e servizi per l’uso 
                  dei sistemi, meno le comunità possono accedere direttamente 
                  alle risorse anche quando, come nel caso dell’acqua, si 
                  tratta del più indispensabile e comune patrimonio.
    testimonianze 
  La dimensione positiva della trasformazione
  Gran parte delle oasi sono sostenute da un impianto antropico. 
                  Sistemi complessi costruiti partendo da una condizione morfologica 
                  favorevole, ad esempio una depressione o il letto di un wadi, 
                  nelle quali sia presente una maggiore capacità di ritenere 
                  le acque. Per le oasi di sabbia il primo elemento che sostiene la presenza 
                  delle oasi è la difesa dalla sabbia ottenuta aumentando 
                  l’altezza, con la continua aggiunta di rami di palma sui 
                  crinali, delle dune esistenti; ad esse è affidato il 
                  compito di proteggere l’avvallamento dalle sabbie portate 
                  dal vento e di ampliare il bacino di raccolta dell’acqua 
                  piovana.
 Il secondo è l’impianto di palmeti: essi, nonostante 
                  consumino acqua per la loro crescita, permettono una significativa 
                  riduzione della evaporazione delle acque raccolte e collaborano 
                  al mantenimento dell’umido.
 A questi due principali elementi, secondo le situazioni e le 
                  culture, si possono aggiungere sistemi di dighe (utili per indirizzare 
                  i flussi delle acque di pioggia –intense ed episodiche- 
                  verso i luoghi prescelti per la raccolta) o la costruzione di 
                  foggara, canali sotterranei connessi con pozzi alla superficie 
                  che raccolgono le acque sotterranee e nei periodi di siccità 
                  condensano l’umidità dell’area.
 La struttura delle oasi è quindi un sistema artificiale 
                  che va in direzione totalmente contraria a quella in cui vanno 
                  normalmente le trasformazioni umane. Esse infatti hanno un segno 
                  marcatamente positivo: perché aumentano la diversità 
                  del sistema in cui si inseriscono, perché non danneggiano 
                  le risorse esistenti, perché contribuiscono a segnare 
                  un miglioramento del benessere delle persone.
 Ma a queste strutture corrisponde un sistema di utilizzazione 
                  che ad esse si adatta. Se vi è una disponibilità 
                  significativa di acqua le oasi sono accompagnate da sistemazioni 
                  agricole diffuse, se l’acqua è ridotta rimangono 
                  piccoli palmeti.
 Se le oasi sono grandi ed agricole, vicino ad esse si collocano 
                  insediamenti stabili che non occupano mai le parti basse, gli 
                  avvallamenti, solitamente più ricchi di acqua, e partecipano 
                  attivamente al sistema. La raccolta delle feci secche e dei 
                  rifiuti organici sono utili per la concimazione e l’arricchimento 
                  biologico dei suoli; il recupero delle acque utilizzate serve 
                  ad umidificare i terreni. La dimensione degli insediamenti è 
                  definita dalla dimensione dell’oasi e dalla capacità 
                  produttiva della stessa.
 Ben diversa è la soluzione attuata nel caso di oasi con 
                  poca acqua e senza agricoltura. Queste sono utilizzate da popolazioni 
                  nomadi, allevatori che non permangono sul medesimo territorio 
                  a lungo, che utilizzano le poche risorse presenti nel deserto 
                  raccogliendole in superfici molto estese al fine di non fare 
                  divenire insostenibile il loro carico su ambiti troppo ristretti. 
                  Sono popolazioni strutturate proprio sui loro animali: un insediamento 
                  tuareg è fatto di tende tessute da lane di cammello, 
                  così come i tappeti (pavimenti delle abitazioni), e di 
                  peli di cammello sono fatte le corde; non hanno bisogno che 
                  di pochi bastoni che portano con loro. Il cammello è 
                  il mezzo di trasporto e fornisce prodotti alimentari (latte 
                  e derivati, ma non viene macellato in quanto la carne avrebbe 
                  un costo ambientale insostenibile) e combustibili. I pascoli 
                  degli animali sono infiniti perché poveri e le oasi utilizzate 
                  per ridotti periodi onde permetterne la ricomposizione della 
                  risorsa.
 Due sistemi diversi caratterizzati dalla chiusura dei cicli 
                  dall’integrazione tra insediamenti produzione e risorse 
                  e dalla grande attenzione a trovare modalità di uso che 
                  non esauriscano le risorse stesse.
 Un interessante punto di riflessione, un esperienza significativa 
                  in un ambiente estremo, il deserto, caratterizzata da una accortezza 
                  nel trasformare che dovrebbe essere patrimonio delle scelte 
                  contemporanee in ragione di una estrema alterazione ambientale 
                  del pianeta.
 
    osservazioni 
                  sulla contemporaneità 
  Le origini
 Nonostante tutte le dichiarate buone intenzioni delle società 
                  contemporanee a proposito della necessità di migliorare 
                  le condizioni ambientali del pianeta, risulta evidente, visti 
                  i risultati, che vi è qualcosa che contrasta le buone 
                  intenzioni. Anche ad una rapida analisi appare il ruolo svolto da una educazione, 
                  diffusa in particolare in alcuni popoli, che vede l’ambiente 
                  come uno strumento per permettere ai singoli individui di ottenere 
                  obiettivi di potere, di ricchezza e attraverso questi di benessere.
 Tale profonda educazione trova le sue radici nella Bibbia e 
                  negli aberranti rapporti tra uomo e natura che in essa si rileggono. 
                  La natura è un mezzo di scambio: per gran parte sono 
                  terre divise o da dividere, bestie da sacrificare per chiedere 
                  favori alla divinità, risorse private o da privatizzare 
                  (in particolare acqua).
 Un rapporto di totale sfruttamento che vede l’uomo al 
                  di sopra e non dentro il sistema ecologico, che lo utilizza 
                  ma, nonostante questo atteggiamento, ne è anche il conservatore. 
                  Nel diluvio, nonostante “le colpe” siano degli uomini 
                  e siano punite tutti gli animali e i vegetali (si salvano le 
                  specie ma non gli individui), è proprio l’uomo 
                  strumento di salvezza (e non di distruzione).
 Le colpe degli uomini si riversano sulla natura perché 
                  essa è a disposizione. E mai una parola di riguardo, 
                  mai il piacere di una osservazione non interessata, la meraviglia 
                  di un fenomeno naturale (che non fosse mezzo divino per impaurire 
                  o glorificare).
 Nulla di male se non fosse considerato il testo sacro da centinaia 
                  di milioni di persone tra le più potenti del mondo
  Tetti
 Durante l’estate diversi uragani hanno interessato la 
                  Florida. Oltre a danni per miliardi di dollari vi sono stati 
                  decine di morti. Gran parte di queste morti sono avvenute in 
                  insediamenti in riva al mare, dove migliaia di famiglie vivono 
                  in roulotte e case mobili. I nuovi poveri. Ma anche abitazioni 
                  stabili sono state distrutte, così come sono stati scoperchiati 
                  alberghi e distrutti ospedali. Gli uragani sono terribili, è vero; ma come le costruiscono 
                  le case da quelle parti? E dato che ogni estate hanno uno o 
                  più uragani quali sono state le misure che mettono in 
                  atto oltre a quelle di allontanarsi quando avvertiti dal satellite 
                  dell’avvicinamento dell’uragano?
 Un abitante di una casa fissa: “sentivo il vento che strappava 
                  i chiodi dal tetto mentre le pareti tremavano”.
  Finalmente
 Finalmente Milano avrà i suoi grattacieli. Era tempo. 
                  Nella gara planetaria tra gli edifici più alti l’Italia 
                  è sempre stata fuori, ma tra le sue città Milano 
                  è quella che più intensamente ci ha tentato in 
                  passato ma da tempo anch’essa ha dovuto soggiacere ad 
                  una popolazione freddina nei confronti di tali prodotti. Ed oggi… finalmente! Se ne sentiva il bisogno. E si sentiva 
                  il bisogno di avere una grande firma; un architetto vero. E 
                  quale è il più vero di tutti se non quello che 
                  ha progettato il “monumento dei monumenti” contemporaneo, 
                  le due nuove torri di New York negli Stati Uniti d’America.
 “È un progetto che lascerà un segno nella 
                  storia” (dice il presidente della Fiera di Milano), è 
                  la dimostrazione del nuovo rinascimento lombardo (sostengono 
                  il presidente della Regione e il sindaco della Città). 
                  Certo, tre grattacieli di 218, 185 e 170 metri, ovvero il doppio 
                  del Duomo e del grattacielo Pirelli, lasceranno il segno.
 E forse sarà così forte da fare dimenticare, nel 
                  tempo, la speculazione che ha motivato lo spostamento della 
                  fiera, gli enormi profitti derivanti dalla rivalutazione delle 
                  aree e dalla costruzione e vendita degli edifici e forse sarà 
                  così forte da fare dimenticare questo atto di sudditanza 
                  culturale verso un modello assolutamente estraneo alla cultura 
                  del nostro paese e forse, ma forse, sarà così 
                  forte da fare dimenticare quest’omaggio ignorante al progettista 
                  prescelto ed alle idee demagogiche e populiste che egli si pregia 
                  di interpretare.
 
  Fuori tema
 Intorno al problema della clonazione hanno espresso parere 
                  in tanti. “Ci risiamo – è l’incipit 
                  dell’articolo di U. Galimberti su di un quotidiano del 
                  12 agosto a proposito della clonazione umana – con i progressi 
                  della scienza e l’impaccio dell’etica che, nell’età 
                  della tecnica, diventa pat-etica, perché si trova ad 
                  affrontare i problemi che i suoi principi, formulati in epoca 
                  pre-tecnologica, non avevano assolutamente previsto”. 
                  La ricerca sulle clonazioni, così come tutte le ricerche 
                  sostenute da interessi economici e militari, vanno avanti per 
                  la loro strada indipendentemente dalle seppur interessanti riflessioni.
 Nessuno a noi, perfidi, ci può rassicurare che alcuni 
                  gruppi di ricerca meno appariscenti abbiano già fatto 
                  l’inimmaginabile.
 La ricerca ci pone di fronte a dei problemi, oggi etici vista 
                  la sperimentalità delle attività, che in futuro 
                  diverranno etici e pratici (pensate alla sola possibilità 
                  di scegliere di clonare Pio duodecimo piuttosto che Giovanni 
                  vigesimoterzo) che non possono essere solo interpretati/constatati 
                  ma sui quali va espressa una effettiva e concreta opposizione.
 Ed allora non appare sufficiente l’elaborazione di Galimberti 
                  (“Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo che 
                  non siano punti occasionali, l’etica del viandante, che 
                  non conosce il suo avvenire, può essere il punto di riferimento 
                  di un’umanità a cui la tecnica ha consegnato un 
                  futuro imprevedibile, e che quindi non può riferirsi 
                  alle etiche antiche, la cui normatività guardava al futuro 
                  come a una ripresa del passato, perché il tempo era iscritto 
                  nella stabilità dell’ordine naturale”) quando 
                  la ricerca è in mano a ricercatori di profitti che usano 
                  strumentalmente tecnici e scienziati che non hanno consapevolezza 
                  di quello che scaturirà dal loro agire, che non si chiedono 
                  chi e come utilizzerà i loro prodotti, e che per la loro 
                  deresponsabilizzazione, nonostante sostengano il contrario, 
                  non hanno quale obiettivo del loro lavoro il benessere dell’umanità.
 A meno di voler partecipare a quell’esteso dibattito internazionale 
                  su etica e tecnica, costruito volutamente “fuori tema” 
                  quasi a rassicurare l’umanità del fatto che la 
                  ricerca si pone dei problemi che esulano l’interesse per 
                  i profitti.
  Dubbi
 È capitato di acquisire un numero del 1995 di Controspazio, 
                  storica rivista di architettura, contenente una monografia sulla 
                  struttura della Fiat (SATA) di Menfi. Diversi articoli, un frullato di frasi di cui si estrapolano 
                  a titolo esemplificativo alcune di quelle che riguardano le 
                  relazioni con l’ambiente: “lo spazio dell’industria 
                  è, al contrario, il risultato di molti saperi, di molte 
                  gerarchie…”; “il progetto di Melfi fotografa 
                  un momento storico in cui l’impatto ambientale come rapporto 
                  con il sito (fisico e antropizzato), diventa “vincolo”, 
                  ma anche “materia” del progetto, quasi misurando 
                  il tempo e le sue ironie, in un luogo che non è molto 
                  distante dai Sassi di Matera (diverse decine di chilometri N.d.R.) 
                  e dalle sue utopie comunitarie”; “dalla distesa 
                  delle colline e dei campi in cui è collocato il complesso, 
                  ai prati e alle aiuole che circondano gli edifici…tutto 
                  concorre a definire una sensazione di spazio disponibile”; 
                  “è però da sottolineare che la realizzazione 
                  ottimale dell’inserimento nell’ambiente richiede 
                  interventi di infrastrutturazione, strade ferrovie, trasporti…”; 
                  “il gigante “fabbrica” perde la sua aggressività 
                  potenziale nel confronto con il sistema collinare che lo affronta, 
                  si fa collina esso stesso, anzi altopiano, piccolo acrocoro 
                  trae dall’ambiente naturale, ma anche dei piccoli manufatti 
                  rurali di antica tradizione, il proprio colore”.
 Ora, lasciando da parte il commento sul linguaggio aulico-confuso 
                  tipico dei critici dell’architettura, considerando comunque 
                  la “marchetta”, ipotizzando pure una limitata conoscenza 
                  tecnica-terminologica delle questioni ambientali, il dubbio 
                  che ci si pone è: ma gli estensori degli articoli hanno 
                  mai visto i centinaia di migliaia di metri cubi costruiti in 
                  un’area industriale di quattro chilometri per tre, inserita 
                  in una vasta vallata senza insediamenti senza porre alcuna attenzione 
                  al paesaggio, agli ecosistemi, alle qualità ambientali 
                  e sociali presenti cancellando tutti i segni e le morfologie 
                  del territorio?
 Ed un altro: i nostri contemporanei vedono il mondo a questa 
                  maniera, senza alcuna capacità di giudizio critico, o 
                  lo fanno solo in alcune preoccupanti condizioni?
  Passato
 Il passato è una gran cosa. Tranquil-lizzante perché 
                  se ne conoscono gli esiti, commovente per quel suo struggere 
                  sulle tragedie e sui luoghi, stabile perché nel ritornarvi 
                  non si è modificato, disponibile alle infinite variazioni 
                  degli stati d’animo della contemporaneità. Il passato è anche il luogo di certo estraneo alle logiche 
                  imperanti; non che non sia stato governato da logiche altrettanto 
                  brutali, ma sono state comunque diverse.
 Può essere il luogo di modelli sociali, insediativi, 
                  comportamentali non più praticati e che spesso mostrano 
                  potenzialità che, se perseguite, avrebbero portato altrove.
 Il passato è quindi anche il luogo del futuro possibile 
                  di un diverso essere.
 È in sintesi un altro territorio non governato da medesimi 
                  criteri del modello globale. In un mondo uniformato dal mercato 
                  al modello unico il passato appare come la Polinesia per Gauguin.
 Ma il passato non è solo uno spazio mentale. Vi sono 
                  ancora luoghi che sono ritenuti vivere nel passato, piccoli 
                  luoghi che molti, seppur involontariamente, partecipano a mantenere.
 Sono luoghi della quotidianità, della parola, della riflessione, 
                  della pratica artigianale e sono luoghi geografici che per caso, 
                  per scelta, per necessità non rispecchiano completamente 
                  i dettami diffusi.
 La società contemporanea ha mostrato un grande interesse 
                  per il futuro. È stato ed è territorio di conquista 
                  di tutti i fabbricanti di merci, è lo scenario inventato 
                  e fittizio per sostenere la vendita di prodotti, è una 
                  dimensione oggi saldamente in mano al mercato e molto ma molto 
                  lontana dal desiderio degli individui.
 Ogni definizione diversa del futuro di quella che viene definita 
                  dal modello assume valenze di antico, di permanenza del passato.
 Il futuro del modello non mantiene nulla del passato, mentre 
                  il futuro degli uomini non può che mantenere modalità 
                  che con l’uomo hanno a che fare e quindi con il suo passato.
 In tale maniera il passato è il carattere fondativo di 
                  un modello di futuro lontano da quello che il modello diffuso 
                  tende a praticare.
 Il passato, e non la vetero nostalgia, è il luogo del 
                  presente che si oppone alle soluzioni praticate.
 
  Tutti al mare
 Mi è recentemente capitato di trovarmi su di un autostrada 
                  toscana una domenica di luglio. Sulla corsia che dall’interno porta verso il mare una 
                  fila di autoveicoli in leggero movimento: trenta, quaranta chilometri 
                  di fila.
 Tutti al mare. Ore di fila in autostrada, ore per cercare parcheggio 
                  e ombrelloni, spiagge affollate, ristoro costoso e stracolmo, 
                  mare inquinato, ore di fila per tornare.
 Conosco questi posti dagli anni cinquanta: non c’era l’autostrada, 
                  non si andava al mare ogni fine settimana.
 Nei giorni festivi ci si riuniva al fresco di alberi, con bevande, 
                  chiacchiere, rimproveri delle madri, giochi [al di là 
                  di una diffusa indigenza] in luoghi piacevoli, noti, affettuosi.
 Quasi certamente il principale meccanismo che “costringe” 
                  le persone a soddisfarsi nell’andare al mare nelle suddette 
                  condizioni, negando pregiudizialmente ogni possibilità 
                  a trovare benessere nello stare è la qualità delle 
                  residenze.
 Orribili. Orribili proprio in quei caratteri che le rendevano 
                  piacevoli.
 Palazzine o case con giardinetti, tutte con molti bagni, molti 
                  spazi coperti, con nessun rapporto con la natura e con una capacità 
                  propria di ridurre le relazioni tra gli individui.
 Del resto le abitazioni sono così anche perché 
                  il fine settimana si può scappare da esse.
  Adriano Paolella antiglo@mclink.it
 La prima puntata di questa rubrica, dedicata 
                  a “Energia e comunità”, 
                  è stata pubblicata sul n. 295 di “A” (dicembre 
                  2003-04). La seconda, dedicata a “Governi, 
                  comunità, mutamenti climatici”, è stata 
                  pubblicata nel n. 296 (febbraio 2004). La terza, “Deindustrializzarsi”, 
                  è stata pubblicata nel n. 298 (aprile 2004). La quarta 
                  puntata, “Fuori”, è 
                  stata pubblicata sul n. 301 (estate 2004). |