Saranno 
                    gli esiti tardivi del calore agostano, ma in questo autunno 
                    ancora mite, davanti al computer che mi consente di scrivere 
                    queste note, ho come la sensazione che siano piombati sulle 
                    mie spalle tutti i limiti di un commentatore che non voglia 
                    limitarsi a interpretare un fatto o una notizia ma pretenda 
                    (e il termine è certamente appropriato) di spingersi 
                    su un poggio più alto per intercettare un panorama 
                    un poco più vasto. 
                    Il fatto è che più passa il tempo più 
                    è difficile decifrare il senso delle cose che accadono 
                    attorno a noi. Sembra che si vada progressivamente impoverendo 
                    quel bagaglio di civiltà politico-giuridica e di onestà 
                    intellettuale (nel senso che a sostegno di qualsiasi tesi 
                    debbano rispettarsi almeno le norme dell’analisi logica, 
                    con un soggetto e un predicato alla base di qualsiasi ulteriore 
                    argomentazione), quei codici di razionalità che, nel 
                    bene e nel male, l’occidente ha accumulato in secoli 
                    di conflitti tutt’altro che indolori. 
                    Ma vi è un aspetto del tutto inedito, rispetto ad analoghi 
                    periodi oscuri che certamente sono stati ricorrenti nel nostro 
                    passato prossimo e remoto, ed è la difficoltà 
                    obiettiva di individuare alternative all’esistente che 
                    non siano conseguenti a eventi incontrollabili e certamente 
                    non auspicabili, come quelli ipotizzati dalle varie correnti 
                    catastrofiste. Voglio dire che, guardando le cose come stanno 
                    senza alcuna concessione consolatoria, all’interno del 
                    pensiero e della pratica occidentali – che sono quelli 
                    che nella fase attuale contano – non si riesce a trovare 
                    un’esperienza culturale o politica che si ponga come 
                    antagonista al corso degli eventi, un corso caratterizzato 
                    dal prevalere della logica capitalistica anche in aree geopolitiche 
                    ove tale logica sembrava dovesse essere quanto meno arginata. 
                    Parlo ovviamente di quell’area euro-asiatica le cui 
                    tradizioni culturali e le realtà sociali sembravano 
                    (e sono) incompatibili con le logiche del mercato e dell’accumulazione, 
                    anche quando, contraddizione in termini, a perseguirle siano 
                    le strutture stesse dello stato. Il riferimento è soprattutto 
                    alla Cina, la cui evoluzione sembra acquisire il peggio del 
                    sistema capitalistico, forse nella convinzione illusoria che, 
                    raggiunti determinati obiettivi in termini di potenza economica 
                    e militare, poi il resto dei problemi, quelli sociali in prima 
                    linea, si potranno via via risolvere. È l’illusione 
                    coltivata nella Russia del 1924 con l’esperimento (fallito) 
                    della Nuova Politica Economica. Così Pechino si sta 
                    sviluppando alla stregua di molte capitali del sud-est asiatico, 
                    cattedrali di vetro e acciaio che si elevano ad altezze vertiginose, 
                    con affitti che variano dai quarantamila agli ottantamila 
                    yuan (dai 4 agli 8 mila euro al mese), mentre il livello medio 
                    dei salari è di 2.500 yuan (250 euro), con la prospettiva 
                    sociale disastrosa di provocare la crescita di un ceto medio 
                    d’assalto, di cui una parte minima assurgerà 
                    al benessere e avrà accesso alle stanze dei bottoni 
                    nella media e alta burocrazia di stato, mentre la parte rimanente 
                    condurrà vita stentata, in preda a frustrazioni annichilenti, 
                    come già avviene nei templi del capitalismo maturo. 
                    Per non parlare del proletariato e del sottoproletariato urbano 
                    e rurale, le cui sorti potremmo prefigurare guardando dentro 
                    le mura di casa nostra. 
                   La gestione dell’esistente
 
                    La gestione dell’esistente 
                  Ebbene, sfiorando appena questo scenario, ci 
                    si accorge che, per quanto si scruti l’orizzonte, non 
                    si riesce a cogliere alcun segno, non dico di alternativa 
                    radicale, ma neppure del sano, anche se insufficiente, antagonismo 
                    che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso. 
                    Lo scontro tra le forze politiche, in occidente, si incentra 
                    sulla possibilità/necessità di gestire l’esistente, 
                    con una propensione a raccogliere il consenso della parte 
                    moderata e conservatrice delle varie realtà nazionali 
                    per ottenerne i mandati di rappresentanza. 
                    Io mi meraviglio sempre della meraviglia degli osservatori 
                    politici quando rilevano che la differenza tra Bush e Kerry 
                    è solo una differenza di stili: poi – si sorprendono 
                    – sono simili in tutto. Certo, Kerry è persona 
                    bene educata e meno rozza del suo antagonista, così 
                    cerca di far riflettere i suoi connazionali sull’obiettiva 
                    esistenza del resto del mondo, fatto che Bush ha sempre trascurato, 
                    con la connivenza – non dimentichiamocelo mai – 
                    di almeno la metà dell’opinione pubblica americana. 
                    Questa consapevolezza di non essere soli nel pianeta non muta 
                    di molto il nucleo della politica di dominio di una futura, 
                    eventuale, amministrazione democratica. Anche per Kerry la 
                    guerra in Iraq va continuata, ma con un maggiore coinvolgimento 
                    delle istituzioni internazionali, che è poi quello 
                    stesso che adesso chiede Bush, alla ricerca di qualcuno che 
                    lo aiuti ad uscire dal tunnel iracheno nel quale ci ha cacciati 
                    tutti. Anche per Kerry i soldi per la sicurezza vanno trovati 
                    e opportunamente spesi, ma si guarda bene dallo specificare 
                    che cosa intende per sicurezza: non dimentichiamo che la politica 
                    aggressiva dei neocon repubblicani è stata 
                    ed è tuttavia giustificata dalla presunta necessità 
                    di difendere il benessere e la sicurezza del popolo a stelle 
                    e strisce. Così si è giustificata la guerra 
                    all’Iraq, così si è sostenuta la necessità 
                    della guerra preventiva. Kerry ha anche affermato che la sua 
                    eventuale amministrazione avrebbe attuato una politica sociale 
                    meno discriminatoria, tale da salvaguardare i più deboli: 
                    sono dichiarazioni certamente nobili, ma andrebbero indicate 
                    anche le procedure per attuarle. Ma qui viene la parte dolente 
                    e difficilmente districabile. L’America viaggia con 
                    un debito pubblico che ha raggiunto e superato i 500 miliardi 
                    di dollari ed un disavanzo della bilancia dei pagamenti che, 
                    per il 2004, si valuta intorno a 45 miliardi di dollari. La 
                    crescita del Pil è del 2,8%, la più bassa dal 
                    primo trimestre del 2003 (1,9%), con una disoccupazione che 
                    i dati ufficiali danno al 6% (dati edulcorati da un sistema 
                    di rilevazione quanto mai originale, per non dire altro). 
                    In una situazione del genere, i soldi per un’equa politica 
                    sociale potrebbero venire soltanto dalla riduzione delle spese 
                    militari (che per il 2004 sono previste in 380 miliardi di 
                    dollari = 760 mila miliardi delle vecchie nostre lire), da 
                    una politica restrittiva del credito e della spesa pubblica 
                    e da un inasprimento del sistema fiscale, soprattutto nei 
                    riguardi delle imprese e delle rendite finanziarie. In poche 
                    parole una politica ad alto rischio di recessione che non 
                    credo Kerry voglia correre. 
                    Come si vede, a prescindere dalle più o meno buone 
                    intenzioni, se si va al fondo della questione, Kerry non costituisce 
                    una reale alternativa all’attuale amministrazione repubblicana, 
                    a meno che non ribalti la strategia complessiva e della politica 
                    estera e della politica interna americane, il che è 
                    impensabile oltre che assai difficile da progettare per chi, 
                    come lui, non mette in discussione il sistema. Perché, 
                    anche questo non bisogna dimenticare, anche Kerry, come Bush, 
                    riceverà il mandato per governare, ammesso che ci riesca, 
                    dai poteri forti che hanno sponsorizzato la sua candidatura. 
                  
                   Vivacchiare vessando
 
                    Vivacchiare vessando 
                  Mutatis mutandis le cose non vanno 
                    molto diversamente in Europa. In mancanza di un vero progetto 
                    alternativo, in una fase di bassa crescita se non proprio 
                    di recessione, ciascuna nazione si arrangia come può. 
                    Rastrella le risorse per vivacchiare vessando le categorie 
                    più deboli ma più numerose, in barba a qualunque 
                    politica sociale, che anzi viene progressivamente smantellata, 
                    nell’illusoria speranza di far quadrare i conti. Conti 
                    che non possono tornare perché i deficit che i governi 
                    si trovano a dover gestire dipendono in larga misura dal collasso 
                    dei sistemi produttivi, dall’incapacità di avviare 
                    politiche che incrementino gli investimenti pubblici e privati 
                    e li indirizzino verso impieghi virtuosi sottraendoli alla 
                    speculazione. Che è un bel pretendere in un’area 
                    economicamente vetusta, che perde il confronto con le altre 
                    economie, che non investe in innovazione e che offre un dibattito 
                    politico più simile ad una farsa che ad una tragedia 
                    Qualcuno, se può, deve spiegarmi quali alternative 
                    alla destra siano costituite dalla sinistra di Blair o di 
                    Schröder. Per non parlare di quella italiana letteralmente 
                    terrorizzata di dover ricevere e gestire l’eredità 
                    pesante del governo Berlusconi. 
                    L’illusione, in America come in Europa, è che 
                    in un’economia globalizzata sia possibile governare 
                    il contingente astraendosi dal contesto. Ormai le esigenze 
                    delle aree più progredite e in via di espansione sono 
                    assai simili e le risorse per soddisfarle limitate, per di 
                    più precarizzate dai conflitti regionali a loro volta 
                    alimentati da dissennate velleità di dominio, che non 
                    portano da nessuna parte se non a prospettive disastrose 
                    Allora non è da Kerry o da una fantomatica sinistra 
                    europea che può venire la quadratura del cerchio e 
                    neppure, purtroppo, dalle realtà emergenti in Asia, 
                    che stanno facendo le carte false per imitarci in ciò 
                    che di peggio siamo riusciti a combinare. 
                    Si può sperare che una qualche soluzione possa essere 
                    offerta da quello che viene definito il terzo mondo, dall’Africa 
                    e dall’America Latina, soprattutto, dove, in zone ancora 
                    limitate, si producono esperienze di associazionismo comunitario 
                    che poco hanno a che vedere con i modelli che sono consueti 
                    nei sistemi consolidati. Certo, si tratta di esperienze che 
                    hanno bisogno di tempo per affinarsi e consolidarsi, minacciati 
                    costantemente dai loro governi fantocci sostenuti dal neocapitalismo 
                    occidentale e dai ricatti del FMI, del WTO e simili. 
                   Contro i modelli capitalista e statalista
 
                    Contro i modelli capitalista e statalista  
                  Per quanto possa far sorridere, considerate 
                    le difficoltà in cui ci dibattiamo, noi anarchici potremmo 
                    dar loro una mano, Perché siamo l’unica forza 
                    politica occidentale che ha sempre combattuto contro i modelli 
                    politico-organizzativi ed economico-sociali proposti sia dal 
                    capitalismo che dalle varie forme di statalismo. Possiamo 
                    farlo non certamente tentando di esportare le nostre esperienze, 
                    che sono sempre ed ovviamente legate al contesto in cui ci 
                    muoviamo, ma favorendo in ogni modo il dibattito laddove, 
                    per ragioni diverse, convergono forze antiglobalizzazione, 
                    all’interno delle quali soprattutto i paesi dell’America 
                    Latina e africani tentano di affermare una loro specificità 
                    ed una volontà di lotta contro i vari neocolonialismi. 
                    Ci serve, a questo scopo, affinare le conoscenze di realtà 
                    associative che sono in atto in Chiapas, in Ecuador, in Perù, 
                    in Bolivia, ma anche in Congo, nella Costa d’Avorio 
                    e così via.