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                  “La velocità 
                    è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica 
                    ha regalato all’uomo” (1). 
                    È fuor di dubbio che una delle caratteristiche che 
                    connotano maggiormente il fenomeno definito come globalizzazione 
                    sia la velocità, risultato di quella che Harvey definisce 
                    “compressione spazio-temporale” (2). 
                    Spazio e tempo rappresentano coordinate filosofiche imprescindibili 
                    per orientare la nostra visione del mondo (Weltanshauung) 
                    e sono state da sempre oggetto di speculazione teoretica e 
                    campo di studi scientifici. Tra le espressioni più 
                    significative della meccanica classica infatti si può 
                    sicuramente annoverare v=s/t , nella quale la velocità 
                    (costante) viene misurata tramite la relazione spazio/tempo. 
                    Operando un ribaltamento di senso, è possibile considerare 
                    s/t un soggetto unico e inscindibile, il quale ha certamente 
                    tra le sue implicazioni la misurazione della velocità, 
                    ma è anche, se letto in modo non quantitativo, stimolo 
                    per nuovi spunti. Questo cambio di prospettiva permette di 
                    mettere in evidenza come la relazione spazio/tempo sia il 
                    tronco sul quale si innestano i tentativi dell’uomo 
                    di rendere il mondo un “globus”, di abitarlo, 
                    viverlo e conoscerlo nella sua interezza e finitezza. In un mondo ipertecnologico, lo scorrere più o meno 
                    fluido delle nostre vite dipende in gran parte da una ferrea 
                    organizzazione, tanto sul lavoro quanto nel “tempo libero”, 
                    aggredito dall’industria dell’evasione. A ciò 
                    corrisponde una compressione dei tempi ed una continua verifica 
                    di essi attraverso la consultazione di strumenti (orologi, 
                    cronometri), veri e propri metronomi che dettano in maniera 
                    inflessibile i ritmi delle nostre esistenze.
 Se tutto questo è valido per gli abitanti che sono 
                    in possesso dei requisiti tecnici richiesti dall’incompiuto 
                    “villaggio globale”, non dobbiamo però 
                    pensare che la misurazione accurata del tempo fosse meno importante 
                    nei secoli precedenti.
 
  Ovestizzazione agli inizi
 In particolare, con l’apertura marittima dell’impero 
                    britannico, avviata già nel ’500 da Elisabetta 
                    I, e l’enorme sviluppo dell’arte della navigazione 
                    che doveva individuare rotte sicure da percorrere tra l’Europa 
                    e le Americhe, la determinazione precisa dell’ora divenne 
                    di fondamentale importanza. Se ai tempi di Colombo l’ovestizzazione 
                    era solo agli inizi e la misurazione del tempo assai rudimentale, 
                    il perfezionamento dell’orologio marittimo permise di 
                    conoscere con sempre maggior esattezza il punto esatto del 
                    “globus” nel quale si trovava un vascello 
                    e di avere, di conseguenza, una cartografia attendibile. Una 
                    migliore conoscenza dello spazio indagato doveva essere accompagnata 
                    da una lettura del tempo più accurata. Ma perché divenne così importante per i navigatori 
                    di alcuni secoli fa conoscere l’ora con esattezza? Allora, 
                    con gli strumenti a disposizione, si poteva facilmente stabilire 
                    la latitudine, ma non si era in grado di fare altrettanto 
                    con la longitudine. In altre parole si poteva conoscere su 
                    quale parallelo si stava navigando, ma non su quale meridiano.
 Per conoscere la longitudine occorreva quindi sapere con precisione 
                    l’ora del luogo in cui ci si trovava e l’ora del 
                    porto di partenza: ottenuto lo scarto si conosce la distanza 
                    geografica (un’ora equivale a un ventiquattresimo di 
                    giro, ovvero quindici gradi) (3).
 La misurazione del tempo è, se vogliamo, l’ineludibile 
                    peccato originario che si commette ogni volta che vogliamo 
                    allontanarci da un luogo conosciuto: dall’affermare 
                    “quel posto dista tre o quattro giorni di cammino” 
                    siamo arrivati a dire “sarò a New York tra otto 
                    ore”.
 Se oggi avvertiamo tutto il peso della compressione spazio-temporale, 
                    è senz’altro utile sapere da dove provengano 
                    i ritmi frenetici che ci troviamo ad affrontare. Arrivano 
                    da un tempo in cui l’orologio pareva essere uno strumento 
                    di ausilio alle nostre vite, salvo poi trasformarsi nel cuore 
                    pulsante tachicardico della globalizzazione (non a caso Heidegger 
                    evidenziava il carattere destinale della tecnica come soggetto 
                    del compimento della traiettoria nichilista della civiltà 
                    occidentale).
 Siamo di fronte al paradosso di uno strano senso di colpa 
                    che ci assale se ci abbandoniamo ad attività ludiche, 
                    “oziose”; veniamo bollati come “perdi-tempo”, 
                    comunque esseri asincronici che abitano un mondo che va più 
                    veloce.
 Se perdersi in mare aperto o in mezzo a un bosco era comunque 
                    un’esperienza, spesso drammatica, che misurava la consapevolezza 
                    di sé, il poter ritrovare con sicurezza un’isola 
                    per commerciarne le ricchezze ha dato il via agli scambi economici 
                    in grande stile, fino ad arrivare alle transazioni finanziarie 
                    in tempo reale di oggi, dove l’orologio comanda contemporaneamente 
                    l’apertura della Borsa e la sveglia del broker lontano 
                    mille miglia.
 Se Bangalore in India si trova sull’antimeridiano di 
                    New York, gli studi di pratiche legali della Grande Mela possono, 
                    all’ora di chiusura, passare in tempo reale il lavoro 
                    ai loro colleghi indiani e trovarlo già pronto l’indomani 
                    mattina nei loro computer, dando luogo ad una catena di montaggio 
                    virtuale non prefigurabile nemmeno in piena era fordista.
  
  Multiverso mediatico
 L’azione in “tempo reale” si ha, in natura, 
                    nello spazio contiguo e limitato della diretta interazione 
                    tra gli agenti. L’azione a distanza porta fatalmente 
                    alla sofferenza di quella parte di noi che ancora affonda 
                    le sue radici nella terra e nei suoi ritmi “stagionali”. 
                    Accusiamo i sintomi tipici del Jet-lag senza aver compiuto 
                    voli transoceanici, in quanto siamo trasportati continuamente 
                    in ipotesi di realtà lontane e ri-gettati ogni volta 
                    sulla poltrona di casa, senza avere coscienza fino in fondo 
                    degli effetti a lungo termine derivanti dal continuo “abitare” 
                    virtualmente altri luoghi. Visione rilanciata anche da Giacomo 
                    Marramao che nota come “[…] la suggestione esercitata 
                    dalle immagini-movimento (cinematografiche, televisive o web) 
                    del multiverso mediatico globale su individui e gruppi coinvolti 
                    in un’esperienza di universale sradicamento produce 
                    oggi il paradosso dell’invenzione del primordialismo 
                    da parte di comunità immaginate che hanno perduto il 
                    senso del luogo” (4). 
                    La compattazione dello spazio ad opera dei vari Leviatani, 
                    come già prefigurava Hobbes, comporta fenomeni di migrazioni 
                    umane attraverso corridoi e passaggi obbligati dalla blindatura 
                    delle frontiere, provvedimento che, ad esempio, ha già 
                    da tempo impedito l’osmosi tradizionale che permetteva 
                    i movimenti delle popolazioni nomadi come i Rom e i Sinti, 
                    ridotti oggi ad una vita stanziale in campi o, come in Spagna, 
                    in complessi appositamente costruiti. Oltretutto, non è esatto bollare le popolazioni nomadi 
                    come uomini senza radici: esse sono al contrario dotate, come 
                    le piante epifite, di particolari radici aeree che permettono 
                    loro di avvilupparsi temporaneamente alle radicate culture 
                    che incontrano. Recuperare l’idea del nomadismo è 
                    recuperare il senso del viaggio, non più visto come 
                    partenza ed arrivo ma come percorso in sé, ricco di 
                    occasioni, pericoli, meraviglia.
 Rendersi conto che la misurazione del tempo è legata 
                    indissolubilmente al nostro orientamento fisico nel mondo, 
                    può consentire un recupero e una migliore donazione 
                    di senso a quella condizione di sradicamento e gettatezza 
                    che contraddistingue le nostre esistenze.
  Giuliano Cortopassi
 Note 1. M. Kundera, La lentezza, Adelphi, 
                  Milano 1995 2. D. Harvey, The Condition of Postmodernity, Oxford 
                  1989
 3. Vedi il bel libro di D. Sobel, Longitudine, Rizzoli, 
                  1997
 4. G. Marramao, Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, 
                  Torino 2003
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