| Misurarsi sulle ragioni della nostra militanza 
                  di Cosimo Scarinzi
 Quando, 
                  con la pubblicazione di un mio articolo, 
                  si è aperta la discussione fra diversi compagni sulla 
                  questione sindacale non immaginavo né la varietà 
                  né la profondità delle questioni che sarebbero 
                  state sollevate. È, a mio avviso, evidente che fra i compagni impegnati 
                  in campo sindacale è forte l’esigenza di misurarsi 
                  sulle ragioni profonde della nostra militanza e spero che quest’esigenza 
                  sia condivisa anche da molti che non sono intervenuti siano 
                  o meno “sindacalisti”.
 Ritengo, a questo proposito che, se è vero che il sindacalismo 
                  ha delle specificità che non possono essere eluse, le 
                  questioni sollevate abbiano una valenza più vasta e riguardino 
                  tutti i terreni dello scontro sociale.
 Sebbene io sia un interlocutore di diversi dei compagni intervenuti, 
                  è innegabile, ed è un bene, che lo scambio di 
                  opinioni mi vede come una delle parti in causa e non mi ritengo 
                  né in dovere né in obbligo di affrontare l’assieme 
                  dei problemi sollevati.
 Mi 
                limiterò a ricapitolare quelli che mi sembrano gli snodi 
                della discussione in corso: 
 
                  1. 
                  l’esigenza di proporre e praticare un sindacalismo 
                    di segno libertario. Condivido pienamente, a questo proposito, 
                    quanto Claudio Strambi fa rilevare a Cristiano Valente. Se 
                    è innegabile che nemmeno il miglior sindacato può 
                    essere il luogo ove si afferma l’autogoverno sociale 
                    visto che un sindacato è un’associazione di lavoratori 
                    sul terreno della società capitalistica e statale è 
                    altrettanto vero che l’indifferenza alle forme organizzative, 
                    dal punto di vista libertario, comporta, nonostante le migliori 
                    intenzioni, l’abbandono di quella continua critica pratica 
                    alle relazioni sociali dominanti che è lo specificum 
                    dell’anarchismo i genere e di quello classista in particolare; 
                  2. 
                  la necessità di una riflessione seria sul nesso fra 
                    organizzazione sindacale e movimenti di lotta. Non si insisterà 
                    mai a sufficienza, a questo proposito, sulla centralità 
                    dell’inchiesta. La lotta degli operai di Melfi, per 
                    stare ad un esempio ben presente ai compagni, ci dice sul 
                    rapporto fra organizzazione formale dei lavoratori e organizzazione 
                    di lotta molto di più di quanto possiamo trovare in 
                    un buon manuale sulle forme organizzative migliori. Appare, 
                    in questa vicenda, con limpida chiarezza, la differenza fra 
                    sindacato come struttura che organizza lavoratori atomizzati 
                    e rete dei picchetti come comunità operaia che si riconosce 
                    come tale. Nello stesso tempo, i limiti derivati da decenni 
                    di inquadramento burocratico sono altrettanto evidenti; 
                  3. 
                  non posso, a questo proposito, che concordare con alcune 
                    note di Pietro Stara e Maurizio Montecchi sull’opportunità 
                    di tenere presente la differenza fra i settori di classe che 
                    esprimono le diverse organizzazioni sindacali, sui meccanismi 
                    dell’inquadramento statale e padronale, sulla quotidiana 
                    pratica sindacale. Ogni discussione sul sindacalismo, se tale 
                    vuole essere, deve assumere il sindacato (i sindacati) per 
                    quello che è/sono senza appiattimenti ma anche senza 
                    cattive astrazioni e fughe nel voler essere; 
                  4. 
                  un filo rosso che attraversa la discussione è la 
                    questione della relativa necessità e della natura sociale 
                    dell’apparato sindacale. Chi, a mio avviso, lo ha posto 
                    con maggior secchezza e radicalità è Simone 
                    Bisacca che propone una netta divisione fra tecnostruttura 
                    ed organizzatori sindacali. Una divisione che, a mio avviso, 
                    assume come necessario un’“assunzione libertaria” 
                    della divisione tecnica del lavoro ma rimanda, e sarà 
                    necessario tornare su questo punto, all’intreccio fra 
                    divisione tecnica del lavoro e gerarchie sociali che vi si 
                    appoggiano. Credo che non si debba, a questo proposito, cercare 
                    rifugio in una qualche ortodossia e che, al contrario, proprio 
                    l’esplicita assunzione della complessità del 
                    problema sia condizione necessaria per discuterne a fondo 
                    e, soprattutto, per trovare soluzioni efficaci ed interessati; 
                  5. 
                  infine, lo sollevano esplicitamente Pietro Stara e Stefano 
                    Capello ma tutti i compagni vi si richiamano in qualche modo, 
                    vi è il nodo dello sviluppo di una cultura politica 
                    libertaria e di una robusta corrente sindacalista che vi si 
                    riferisca. In questo senso si è lavorato molto, con 
                    esiti alterni, e molto da fare resta. Lo stesso spazio che 
                    A Rivista Anarchica dà alla discussione sui 
                    problemi che andiamo affrontando è un contributo prezioso 
                    in questo senso. 
                  Cosimo Scarinzi
 Far male al nemico
 di Simone Bisacca
 Caro Cosimo, non stiamo argomentando una critica del sindacalismo alternativo 
                  nel senso di argomentazione del fondamento del sindacalismo 
                  alternativo. Ciò che vi mosse e che vi muove (o ciò 
                  che ci muove e che ci mosse) è irrilevante sul piano 
                  dell’efficacia dell’agire, che sta a valle dell’agire 
                  stesso, non a monte. Le motivazioni mi possono caricare 
                  quando scrivo un ricorso di lavoro o discuto davanti ad un giudice: 
                  ma se non individuo un punto debole del mio avversario e cerco 
                  di colpire lì in modo non solo da fargli male, ma da 
                  schiantarlo, non ho fatto bene il mio lavoro. L’avvocato 
                  è come un idraulico: se esce una goccia, non ha fatto 
                  bene il suo lavoro; l’unica cosa che conta è che 
                  se apri l’acqua calda esca calda, se fredda, fredda. Non 
                  esistono giudici buoni o cattivi, ma solo giudici e mio compito 
                  è costringerli a darmi torto se proprio me lo voglion 
                  dare, niente altro. Sappiamo benissimo, noi e loro, cosa c’è 
                  dietro le norme, le formule, gli atti, le sentenze: rapporti 
                  di forza, padroni e lavoratori, bisogno e sfruttamento, morte 
                  e vita. Noi avvocati siamo i mercenari assoldati da una parte 
                  (nel mio caso i lavoratori) per battersi e sconfiggere un’altra 
                  parte. I soldati di ventura quello devono fare: combattere per 
                  chi li paga e quindi solo quello devono imparare: la tecnica 
                  del combattimento. Tecnica: astratta, fredda, mortale. So benissimo 
                  che certe vicende processuali ad un certo punto non hanno niente 
                  a che fare con il diritto, ma solo con la politica. Non siamo 
                  però a questo livello. Le vicende ristrutturative della 
                  Fiat e dell’Olivetti di cui in questi anni mi sono occupato 
                  sono state gestite ad un livello talmente alto politico e sindacale 
                  che ci hanno permesso (ai lavoratori che rappresento e a me) 
                  di giocare la nostra partita e portare a casa qualche risultato, 
                  oltre che a scavare qualche solco di verità nelle vene 
                  di queste grandi ristrutturazioni. Come si gioca a questo gioco? 
                  Bisogna stare addosso il più possibile alle operazioni 
                  societarie e finanziarie: il sistema garantisce un certo grado 
                  di visibilità e da lì, dagli spazi pubblici 
                  quasi esoterici (camere di commercio, bilanci, società 
                  di revisione, ecc.) che un ordinamento liberale non può 
                  non garantire, loro devono passare. Presi sul nervo scoperto 
                  della loro bella operazione formalmente corretta, ma sostanzialmente 
                  criminosa, cerchi di scatenargli contro quello stesso ordinamento 
                  giuridico liberale che è il mare in cui normalmente sguazzano: 
                  le norme e i giudici. Se ti va bene, porti a casa un po’ 
                  di soldi (differenze retributive, risarcimento del danno), perchè 
                  non puoi pretendere che questi giudici ristabiliscano la 
                  verità e la giustizia: sono mica il Messia. E, soprattutto, 
                  in assenza di una seria interdizione sul piano politico o sindacale, 
                  più che a soldi non si finisce.
 Capisci quindi che i tuoi accenni alla specializzazione dei 
                  saperi, al fatto che anche l’attività sindacale 
                  sia un lavoro che comporta sapere tecnico (giuridico, 
                  medico, fiscale, previdenziale e che altro?), alle modalità 
                  in cui oggi si strutturano le relazioni sociali (scambio, normazione 
                  burocratica della vita quotidiana), mi lasciano un poco perplesso. 
                  Tutto vero: ma lascia a noi tecnici la tecnica e riprenditi 
                  l’attività sindacale. Non vorrei che la generosità 
                  vostra (tua e degli altri compagni sindacalisti che ho avuto 
                  l’onore di conoscere) e la scarsità delle risorse 
                  umane (siete sempre quattro cats seppur wild) 
                  vi distolga da quello che sapete fare meglio: cioè stare 
                  tra i lavoratori che subiscono (oggi e sempre) e lottano per 
                  migliori condizioni di vita. Magari mi sbaglio, ma il vostro 
                  compito di sindacalisti è quello di catalizzatori (acceleratori 
                  di processo) delle forze che i lavoratori subordinati producono 
                  (quando le producono). A voi sindacalisti, nelle condizioni 
                  ottimali, fa un baffo il diritto, l’avvocato, la politica, 
                  e quant’altro. Quando voi riuscite a indirizzare la forza 
                  dei lavoratori verso l’obiettivo che si prefiggono (più 
                  controllo sulla propria vita, cioè meno eterodeterminazione, 
                  il nucleo puro e duro della subordinazione) che altro 
                  vi serve?
 Caro Cosimo, tu evochi Melfi. Ho sentito a Radio Popolare che 
                  durante la manifestazione di ieri a Roma venivano cantate ballate 
                  sui briganti e i piemontesi. Ma pensa: la questione meridionale! 
                  E cos’è l’espulsione dalla fabbrica a fine 
                  ciclo della loro vita biologico-lavorativa degli operai già 
                  Fiat ora TNT o di qualche impresa di pulizia, arrivati dal meridione 
                  negli anni ’60-’70 a Torino, ospitati alle 
                  Vallette (non il carcere, ma…), e ora inutili, 
                  che, come ho sentito troppe volte ripeter loro, non ci possono 
                  metter nei forni crematori, ma se potessero… La questione 
                  meridionale è la cifra di quel che sta succedendo: 
                  il bisogno messo al lavoro fin che basta; e poi, via, 
                  verso altri meridioni (l’est dell’Europa, il sud 
                  del mondo). I lavoratori di Melfi sono giovani e sanno di poter 
                  contare nell’universo Fiat; non vorrei sbilanciarmi, ma 
                  sono un po’ come gli operai di Mirafiori alla fine degli 
                  anni ’60: sfruttati e centrali per le dinamiche padronali. 
                  Possono fare molto, per se stessi e per tutti e non vanno lasciati 
                  soli. Ho letto (giacché in quegli anni stavo per andare 
                  alle elementari) che ai cancelli di Mirafiori accorse da tutta 
                  l’Italia la meglio gioventù. Chissà 
                  cosa sta succedendo a Melfi. Chissà, per la nostra parte, 
                  cosa staran facendo gli anarchici della FAI. Già: i più 
                  vicini sono i calabresi e i napoletani. Poi i siciliani e i 
                  romani. Melfi del resto è un poco decentrata rispetto 
                  alle normali vie di comunicazione... E poi che fai, 
                  se non hai un radicamento sul territorio: vai lì a fare 
                  la comparsata come tutti i politici. Ma pensa, il meridione 
                  di Malatesta, di Cafiero, …
 Torniamo a bomba. “Il cliente ha sempre ragione”: 
                  cioè se il lavoratore ti chiede la tutela (legale, previdenziale, 
                  fiscale) che fai, non gliele dai? Chi gliela dà: tu o 
                  qualcun altro? E perché gliela dovresti dare? Perché 
                  paga la tessera? Perché nella nostra società specialistica 
                  il lavoratore non può andare a rompere i coglioni all’INPS 
                  o all’INPDAP anziché a te o a me per avere 
                  il suo? Perché questi enti non hanno splendidi uffici 
                  di relazione con il pubblico (URP) o sistemi informatici che 
                  ti sfornano informazioni in tempo reale? Ma dai!
 Perché non scateniamo i bancari della CUB, che di economia, 
                  bilanci e quant’altro capiscono più di noi, contro 
                  le manfrine e le pastette che le nostre beneamate Fiat e Olivetti 
                  (ormai Telecom) fanno quotidianamente? E quanto sapere possono 
                  scatenare contro i padroni gli iscritti RdB che stanno in Regione 
                  Piemonte? E quelli in Provincia? Perché i ministeriali 
                  RdB (di tutti i ministeri) non possono aiutarci 
                  a squadernare i giochi falso-ristrutturativi dei governi di 
                  ogni colore? E che dire dei compagni che stanno all’INPS? 
                  Forse che non hanno informazioni sulle CIGS e CIGO (Cassa 
                  Integrazione Guadagni Speciale e Cassa Integrazione Guadagni 
                  Ordinaria, N.d.R.) concesse a gogo o sulle mobilità 
                  regalate dopo istruttorie amministrative risibili?
 Smettiamola di nasconderci dietro il dito. Chi ha saperi li 
                  metta al servizio della lotta. Chi ha capacità di catalizzare 
                  le forze dei lavoratori, quello, faccia, il sindacalista. Non 
                  si tratta affatto di superare la divisione specialistica 
                  del lavoro, piuttosto di acuirla. Non voglio pasticcioneria, 
                  voglio far male al nostro nemico con i saperi che mi (ci)si 
                  danno.
   Simone Bisacca Sindacato di militanti
 di Stefano Capello
 Caro Cosimo e cari tutti gli altri partecipanti al dibattito, 
                  affrontare seriamente la questione vuole dire evitare di nascondersi 
                  dietro ad affermazioni talmente ovvie da risultare svianti e 
                  a speranze talmente futuribili da risultare tanto rassicuranti 
                  quanto fumose. Come nella storia socialista il sol dell’avvenire 
                  e l’alba radiosa del proletariato (verrà un giorno...) 
                  coprivano l’instancabile azione di rappresentanza parlamentarizzata 
                  o in via di parlamentarizzazione e l’accorta gestione 
                  quotidiana della vita e delle speranze delle masse dei lavoratori 
                  non diversamente da quanto da millenni fa la Chiesa gestendo 
                  il mondano sei giorni alla settimana e predicando lo spirituale 
                  il settimo, così la piccola burocrazia del sindacalismo 
                  di base ogni tanto tenta il colpo d’ala ma resta ancorata 
                  alla terrena gestione delle vertenze legali e della gestione 
                  corrente 360 giorni su 365. Sia ben chiaro, non è (solo) 
                  colpa sua. Quando dico che la speranza futuribile è insieme 
                  rassicurante ed ingannatrice non intendo sostenere che il buon 
                  burocrate intenda ingannare qualcuno al di fuori di se stesso... 
                  Il lavoratore che si rivolge a lui per una vertenza, un conteggio, 
                  un 730 sa perfettamente quello che sta facendo: cerca un’organizzazione 
                  di sentimenti non troppo lontani dai suoi e di specchiata onestà 
                  che lo aiuti nella difficile gestione del suo rapporto lavorativo 
                  e nelle mille beghe che l’odierna vita associata dispone 
                  sul percorso quotidiano di ognuno di noi.
 Chi fa sindacalismo di base deve fare i conti con questa orrenda 
                  verità: all’interno del corpaccione delle classi 
                  subalterne muovono ogni tanto fremiti di ribellione contro lo 
                  schiacciamento protervo delle proprie condizioni di vita e inizia 
                  a farsi strada l’idea che sia necessario praticare ogni 
                  tanto la protesta e anche l’azione spettacolare per farsi 
                  sentire e costringere l’avversario a più miti consigli, 
                  ma tutto questo avviene in un contesto di ristrutturazione offensiva 
                  da parte delle classi capitalistiche, con i lavoratori al meglio 
                  sulla difensiva, al peggio sul si salvi chi può; in un 
                  contesto del genere non si può pretendere che nascano 
                  militanti come funghi e che il lavoratore medio si occupi della 
                  propria condizione in forme diverse da quella della salvaguardia 
                  individuale.
 In un contesto del genere gli uffici legali diventano necessari 
                  perché permettono almeno qualche aggancio con lavoratori 
                  che altrimenti non vedresti nemmeno, ma non bisogna illudersi 
                  che questo li porti a far di più che ad «acquistare» 
                  una tessera per riconoscenza e rispetto (quando va bene). Se 
                  un lavoratore su cento contattato così aiuterà 
                  la crescita sindacale sarà già avvenuto un miracolo, 
                  perché solo i rapporti costruiti nel corso di una mobilitazione 
                  resistono, quelli costruiti come agenzia di servizio no. Quindi 
                  facciamo pure gli uffici legali, in alcuni settori è 
                  addirittura essenziale, ma non aspettiamoci niente da questa 
                  pratica se non il fatto di essere conosciuti un po’ più 
                  in la del nostro solito raggio d’azione. Il discorso relativo 
                  ai CAF (Centro Assistenza Fiscale, N.d.R.) di base 
                  è ancora più triste ed eviterei di soffermarmici 
                  sopra: servono soltanto a raggranellare soldi ma ti compromettono 
                  pesantemente con la struttura statale: offri un servizio trasformandoti 
                  in una struttura del ministero delle Finanze...
 Il sindacato di militanti sarebbe il modello al quale dovremmo 
                  cercare di avvicinarci; l’organizzazione espressa dai 
                  collettivi aziendali e non al contrario questi ultimi, laddove 
                  esistano, come articolazione locale di un centro che gestisce 
                  una bottega di servizi che ogni tanto esprime posizioni sui 
                  fatti della categoria e (poche volte) del mondo. Lavorare per 
                  trasformare il corpo della nostra organizzazione in qualcosa 
                  che assomigli a questo modello ideale sarebbe una sfida importante. 
                  Per farlo, però, bisogna evitare che il tempo dei quadri 
                  sindacali più capaci e più impegnati nella costruzione 
                  sindacale sia fortemente impegnato nella creazione di sportelli, 
                  CAF, uffici vertenze e quant’altro.
 Questi ultimi ci sono e ce li terremo nei prossimi anni; però 
                  non sarebbe stupido lasciarne la gestione a degli incaricati 
                  «tecnici»; compagni con passione, attenti e preparati 
                  ce ne sono ben pochi, non sarebbe il caso che lavorassero all’espansione 
                  di una prospettiva di organizzazione diretta invece di invecchiare 
                  tra ricorsi e scartoffie?
 Fraterni Saluti
  Stefano Capello
 Sindacalismo di stato
 in versione combattiva
 di Stefano Capello
 Caro Cosimo, il dibattito che tu hai suscitato è importante e coinvolge 
                  direttamente l’identità di chi sia oggi pienamente 
                  interno alle vicende del sindacalismo di base e ne tolleri sempre 
                  meno la tendenza chiara e dispiegata a diventare una copia in 
                  piccolo del sindacalismo di stato in una versione più 
                  combattiva. Tale deriva si dimostra non tanto nella decisione 
                  nell’affrontare le singole lotte e le vertenze all’interno 
                  delle realtà nelle quali interveniamo; per ovvie ragioni 
                  settori di sinistra sindacale CGIL possono a volte prendere 
                  posizioni di mobilitazione più «dure» delle 
                  nostre, dal momento che non temono conseguenze repressive reali. 
                  In questo modo una mano lava l’altra e gli «estremisti» 
                  della CGIL possono permettersi di inveire contro le leggi antisciopero 
                  scritte con la collaborazione della stessa CGIL… Ma, tant’è, 
                  questo è teatrino e non organizzazione dei lavoratori.
 Analogamente le posizioni di rifiuto dell’organizzazione 
                  come portatrice necessaria di burocratizzazione non sono altro 
                  che una sorta di stile, un marchio di fabbrica di chi evita 
                  di sporcarsi le mani nella realtà del conflitto industriale, 
                  sia quando questo c’è, sia quando questo non c’è. 
                  Queste posizioni quasi naturalmente necessitano di una sorta 
                  di mito proletario fondativo che esime chi le propone dal lavoro 
                  di dimostrarne la fondatezza e non li espone alla durezza della 
                  prova dei fatti. Se, e credo questo sia reale, il proletariato 
                  è classe in quanto fondato dalla propria esperienza, 
                  sia della subalternità che della possibilità di 
                  contrastarla, è evidente che questo si forma solo nel 
                  conflitto e nell’organizzazione dello stesso. L’organizzazione 
                  sindacale è un momento del conflitto quando questa si 
                  faccia conformare dai lavoratori che vi si riconoscono. Non 
                  è vero il contrario: non è l’organizzazione 
                  sindacale o politica che conforma a sé i lavoratori producendo 
                  la classe. Quest’ultima si forma (se si forma) come risultante 
                  del reciproco mutarsi dei lavoratori e dell’organizzazione 
                  stessa.
 Detto questo il problema della burocratizzazione sindacale rimane 
                  perché:
 - sostenendo la necessità dell’organizzazione dei 
                  lavoratori
 - sostenendo la necessità che questa si doti di strutture 
                  minime come un ufficio vertenze, uno legale ed uno fiscale
 - sostenendo anche la necessità di compagni pagati per 
                  «fare sindacato»
 ci troviamo con in mano le carte necessarie per far funzionare 
                  un’organizzazione ma anche con le premesse della sua rapida 
                  degenerazione in piccole strutture di proprietà dei capi 
                  politici delle stesse. RdB è un esempio spinto al parossismo 
                  ed al ridicolo di come un sindacato può essere gestito 
                  come una sorta di investimento produttivo da parte di una dirigenza 
                  politica che necessiti di finanziamenti e visibilità. 
                  Non è un caso, RdB nasce come proiezione sindacale di 
                  un gruppo marxista-leninista che accede alla visibilità 
                  del «grande pubblico» grazie alla creazione di un 
                  sindacato la cui prassi interna è ricalcata su quella 
                  del gruppo politico. Ma RdB è solo un esempio (per quanto 
                  spaventoso) di una realtà più generalizzata dove 
                  il sindacalismo di base diventa mero investimento per gruppi 
                  della sinistra estrema ridotti in condizioni asfittiche.
 Il problema della burocratizzazione con tali premesse diventa 
                  disperato e disperante: una parte consistente del sindacalismo 
                  di base è in condizioni peggiori di 
                  quello istituzionale sul piano della democrazia interna (figurarsi 
                  sul piano della gestione diretta dei lavoratori) perché 
                  i gruppi dirigenti non sono tali, bensì proprietari dell’organizzazione 
                  sindacale stessa. In queste condizioni il funzionario è 
                  anche il «capo» del sindacato e usa il suo distacco 
                  per perpetuare il suo comando, i gruppi aziendali sono meri 
                  trasmettitori delle campagne pensate dall’alto e gli iscritti 
                  massa di manovra.
 Da questa situazione, però, non si può uscire 
                  con la negazione dell’organizzazione sindacale come strumento 
                  perché vorrebbe dire consegnare alla stanca dialettica 
                  tra istituzionali ed autoritari tutta una serie di strumenti 
                  che necessitano alla costruzione dell’esperienza proletaria.
 Bisognerebbe, invece, affrontare una decisa battaglia politica 
                  e culturale all’interno del sindacato di base; questa 
                  battaglia si dovrebbe articolare innanzitutto separandosi da 
                  quella parte del sindacalismo di base che tale non è 
                  ma che ripropone strutture autoritarie e gerarchiche all’interno 
                  dell’organizzazione dei lavoratori, in secondo luogo costruendo 
                  organizzazioni centrate sul ruolo dei collettivi aziendali, 
                  prevedendo figure di funzionari e di tecnici pagati ma separando 
                  decisamente questi ruoli da quelli di decisione politica interna 
                  all’organizzazione; per esempio un funzionario di un qualsiasi 
                  settore dovrebbe applicare le decisioni del coordinamento del 
                  suo settore ma non concorrere a produrle, dovrebbe essere un 
                  mero esecutore tecnico di decisioni altrui. In questo modo eviteremmo 
                  la confusione tra ruolo tecnico necessario e ruolo politico 
                  complessivo. In terzo luogo è assolutamente necessario 
                  costruire un sindacato più politico in cui la formazione 
                  sia centrale e che non si occupi solo di produrre punti di vista 
                  sull’aziendale ma in generale sul mondo. Una parte dei 
                  compagni, anzi, dovrebbe essere distaccata quanto più 
                  tempo possibile a lavorare in questo senso.
 Questo produrrebbe un sindacato che rimarrebbe tale perché 
                  la sua forza continuerebbe a basarsi sulla capacità dei 
                  lavoratori di mobilitare i loro settori e di dare vita al conflitto, 
                  però eviterebbe di trovarsi dopo quindici anni di sindacalismo 
                  di base a non avere alcuna capacità di produrre una significativa 
                  visione del mondo condivisibile e condivisa da un’area 
                  minoritaria ma significativa di lavoratori nel nostro paese.
  Stefano Capello
 Coscienza critica organizzata
 di Cristiano Valente
 Caro Cosimo, rispetto al tuo ultimo scritto ciò che non trovo “convincente” 
                  è la domanda stessa che tu poni.
 È inevitabile che qualsiasi organizzazione di resistenza 
                  e di difesa delle condizioni immediate dei lavoratori subisca 
                  una qualche dose di burocratizzazione, pur nell’accezione 
                  positiva che tu stesso gli dai; il problema non è affatto 
                  questo.
 Anzi, credo di condividere con te una qualche necessità 
                  oggettiva di tale processo. Del resto nelle successive argomentazioni 
                  e nelle stesse riflessioni iniziali mi pare che tu stesso confermi 
                  questa inevitabile «deriva».
 Ciò che è importante, a mio giudizio si intende, 
                  è come arrivare nelle condizioni migliori al momento 
                  in cui il pendolo dei rapporti di forza fra le classi si rompe 
                  e ci si avvia in quel percorso che è il processo rivoluzionario.
 È in questo esatto momento che occorre avere una forte 
                  penetrazione ed egemonia all’interno del movimento operaio 
                  e non solo.
 È in questo momento che i nostri compagni devono essere 
                  un punto di riferimento organizzativo e politico per la grande 
                  massa del movimento che si pone in contrapposizione all’avversario 
                  di classe, tenendo conto che non siamo i soli, come anarchici, 
                  a indicare la prospettiva di rottura con il capitalismo, ma 
                  ci misuriamo con altre ipotesi e prassi, per noi fallaci, ma 
                  comunque presenti e spesso molto più radicate di noi, 
                  senza dimenticare il ruolo storico che svolgono i riformisti.
 Allora quel tuo breve inciso che ci condannerebbe ad un ruolo 
                  di mera coscienza critica, se fosse vero ed inevitabile, come 
                  lo è, la burocratizzazione delle strutture di difesa 
                  del movimento operaio, è per me invece fondamentale e 
                  niente affatto riduttivo.
 Nessuna prassi o modello libertario ci pone al riparo di una 
                  burocratizzazione (sempre nell’accezione positiva che 
                  tu gli dai) delle strutture stabili del movimento operaio, in 
                  quanto gli stessi modelli di revocabilità dei mandati, 
                  per quanto riguarda la rappresentanza, oppure la scelta di non 
                  reiterare le cariche direttive per più di uno o due mandati 
                  ecc. (regole correttissime) non sono di per sé sufficienti 
                  ad evitare fenomeni di burocratizzazione intesi questa volta 
                  nell’accezione negativa.
 Per noi, in quanto anarchici, esiste un problema in più 
                  rispetto alle stesse regole più o meno corrette che una 
                  organizzazione sindacale può definire.
 Necessitiamo, proprio per i nostri convincimenti ideologici, 
                  di una partecipazione convinta e militante alla vita dell’organizzazione 
                  in quanto ”ostili” alla stessa rappresentazione 
                  democratica e questa si verifica solo in alcune circostanze 
                  precise e storiche.
 Per questi motivi ritengo inutile in quanto anarchici costruire 
                  o lavorare per ipotesi di organizzazioni di resistenza stabili 
                  a tendenza libertaria, ma ritengo invece utile coordinare i 
                  militanti anarchici impegnati nella lotta di classe e nelle 
                  varie organizzazioni sindacali presenti perché quella 
                  coscienza critica sia organizzata, visibile, capace di dare 
                  indicazioni e indicare battaglie anche parziali, nella prospettiva 
                  di un radicamento di massa e di una egemonia politica nella 
                  prassi e metodologia della lotta di classe.
 Fraterni saluti
  Cristiano Valente
 Più piani
 sovrapposti
 di Maurizio Montecchi
 La mia impressione è che sullo scambio epistolare relativo 
                  alla burocrazia si intrecciano più piani sovrapposti 
                  che creano equivoci. Il primo da chiarire è se intendiamo con «burocrate» 
                  qualunque attivista stipendiato che svolga militanza. In questo 
                  caso la casistica diventa sterminata includendovi persino la 
                  storica USI, segretari delle camere del lavoro e dei sindacati 
                  di settore, e la gloriosa IWW (Industrial Workers of the 
                  World, N.d.R.) che garantiva (se non ricordo male) integrativi 
                  come rimborsi ad alcuni attivisti. Del resto anche nella tradizione 
                  della CGIL, del II dopoguerra, erano i militanti combattivi, 
                  spesso licenziati, a diventare stipendiati. Quindi stipendiati 
                  per potenziare le proprie caratteristiche e la penetrazione 
                  organizzativa. Non credo che questo sia negativo.
 Secondo aspetto. Nelle società complesse del tardocapitalismo 
                  anche le forme d’opposizione devono costituirsi con strutture 
                  complesse che includono «apparati» sempre più 
                  determinati e specializzati che siano competenti nello svolgere 
                  ogni aspetto amministrativo che si renda necessario. Aspetti 
                  amministrativi che vengono resi astrusi anche da disposizioni 
                  e norme che solo una preparazione adeguata è in grado 
                  di comprendere per poter intervenire con modifiche. Sono le 
                  disposizioni giuridiche e i «linguaggi tecnici» 
                  che ci condizionano la quotidianità e che formano la 
                  legittimità dei tecnici/specialisti. Solo attraverso 
                  la loro semplificazione nella società si può contemporaneamente 
                  presupporre una riduzione nelle forze di opposizione. Se le 
                  dichiarazioni dei redditi fossero semplici perché ci 
                  sarebbe bisogno dei CAF e in generale dei commercialisti?
 Terzo. Sindacati in ambiti diversi (pubblico, privato) e la 
                  questione non è indifferente nella gestione di margini 
                  operativi nello svolgimento del lavoro e nella crescita di carriera, 
                  non come eccezione, ma come regola. Cambiamenti di status rapidi 
                  e verticali sono (o sono stati) la regola nel pubblico: dirigenti 
                  sindacali diventati dirigenti di aziende e comunque nelle Poste 
                  (che conosco indirettamente) sono strapieni di dipendenti che 
                  hanno vinto contenziosi sulle qualifiche con la direzione. Non 
                  credo sia altrettanto nel privato. Quindi la burocrazia della 
                  FIOM, sindacato riformista e combattivo, per quanto “cogestiva”, 
                  risulta nella quotidianità maggiormente combattiva di 
                  un sindacato di base nel pubblico perché ha controparti 
                  molto diverse. Che non significa meno stronze, ma diversamente 
                  disponibili ad atteggiamenti frontali, oppure accomodanti. Mentre 
                  da una parte discendono immediatamente dai bilanci dall’altra 
                  da scelte politiche/di potere. Così può succedere 
                  che una azienda che dispone di commesse per 4 anni accetti un 
                  orario di 32 ore in cambio di una turnazione su 24 ore per 6 
                  giorni, nonostante l’ostracismo Confindustriale.
 Quarto. Capisco Claudio perché la sua battaglia antiburocratica 
                  è immediatamente una necessità politica, direi 
                  tattica, neanche strategica come per ogni libertario, forse 
                  anche esistenziale-fisica dovendo sopravvivere con l’RdB. 
                  Del resto la situazione della sanità è l’unica 
                  che mi impedisce di considerare totalmente inutile l’esperienza 
                  USI-AIT.
 Quinto. Informazione è potere, era negli slogan del ’68 
                  e chi centralizza l’informazione gestisce il potere. Non 
                  basta, anche se necessario, ruotare i ruoli di coordinamento 
                  per socializzare le informazioni, bisogna diffonderle. E socializzarle. 
                  Esempio: la scelta FIOM a Melfi di togliere i blocchi per sviluppare 
                  la trattativa è dissimile da quello successo a Terni 
                  per l’acciaieria, ma anche nel contemporaneo scontro dell’Alitalia. 
                  Ma qui Pezzotta è tra i più attivi.
 Sesto. Il sindacato è un mezzo attraverso cui far crescere 
                  l’autonomia di classe, mezzo molto importante perché 
                  per tutta una fase si può intrecciare l’autonomia 
                  stessa, che però ha bisogno di spazi più consoni 
                  e ampi per potersi forgiare quali solo le assemblee deliberative 
                  e plenarie dei movimenti di lotta possono essere. E all’assemblea, 
                  al suo potere reale e determinante dobbiamo sempre richiamarci 
                  e farne il fulcro della nostra proposta politica-sindacale e 
                  delle nostre considerazioni antiburocratiche.
 Sette. Cosimo dovrebbe datare le osservazioni di Monatte che 
                  ha attraversato periodi diversi: anarcosindacalista, iscritto 
                  al PC francese, ultrasinistro-sindacalista rivoluzionario. E 
                  le sue osservazioni hanno effetti diversi se in una fase ascendente 
                  dei movimenti o di testimone del dopoguerra nei meandri della 
                  guerra fredda.
 Monatte comunque non è il massimo degli strateghi sindacali 
                  visto la sua responsabilità nel convincere i comunisti 
                  americani, ex IWW, all’entrismo nell’AFL (American 
                  Federation of Labor, N.d.R.), sindacato di mestiere, mentre 
                  i settori sindacali più combattivi costituivano la CIO 
                  (Congress of Industrial Organizations, N.d.R.) nell’industria. 
                  Facendo perdere un treno alla sinistra USA e forse l’aereo 
                  a quella mondiale, relegando i comunisti con la parte più 
                  reazionaria del mondo del lavoro, mentre milioni di operai confliggevano 
                  nelle fabbriche americane.
 Ciao,
  Maurizio Montecchi
 Tre livelli d’intendere il sindacato
 di Pietro Stara
 Parlando di burocrazia sindacale e di organizzazione sindacale 
                  naturalmente si rimanda anche alle funzioni del sindacato ed 
                  in specifico al «che cosa serve». Riprendo due questioni 
                  una di Maurizio ed una di Cosimo, appoggiando nel frattempo 
                  molte delle considerazioni di Simone. La parte e la controparte: Maurizio centra un punto secondo 
                  me fondamentale quando afferma che le parti e le controparti 
                  sono diverse se si parla di pubblico o di privato. Non credo 
                  che sia neppure un caso che il sindacalismo di base si sia rafforzato 
                  a partire dagli anni ‘80 soprattutto in alcuni settori 
                  statali amministrativi che negli anni sessanta e settanta rappresentavano, 
                  passatemi il termine, una retroguardia (INPS, INAIL, ministeri,…). 
                  Anche qui non vorrei generalizzare e vorrei distinguere tra 
                  settori pubblici amministrativi e settori pubblici di frontiera: 
                  sono significativamente diversi i sindacati di base, e le lotte 
                  che hanno condotto, nei settori pubblici amministrativi (di 
                  apparato) da quelli che si trovano a gestire un contatto diretto 
                  con il pubblico: scuole, sanità, ex poste, trasporti, 
                  ecc. Sono diverse le lotte, le storie ed anche le mentalità 
                  collettive. Si potrebbe così facilmente rispondere a 
                  Simone che se i ministeriali RdB non squadernano nulla è 
                  perché non lo hanno mai fatto, perché la natura 
                  della loro adesione alle RdB è spesso motivata da ragioni 
                  meramente corporative, perché il livello di coscienza 
                  politico sindacale è molto basso, perché, in alcuni 
                  casi, sia loro che le loro dirigenze non vogliono squadernare 
                  proprio nulla. Probabilmente erano le stesse ragioni per cui 
                  negli anni passati votavano DC o PSI e militavano nella CISL, 
                  nella UIL o nella CGIL. Una volta che si sono accorti che i 
                  loro sindacati hanno giocato al ribasso, hanno portato le loro 
                  chiappe in un sindacato che sui contenuti, anche di carriera, 
                  li difendeva maggiormente. Niente di più logico ed ovvio. 
                  Non secondarie sono le ragioni dei soldi, argomento che ci terrei 
                  che non venga sottovalutato nella sua enorme portata politica: 
                  con i soldi tieni aperte sedi, compri macchinari, paghi personale 
                  e distacchi, gite in treno, riviste, convegni, scampagnate e 
                  badate bene si finanziano anche organizzazioni politiche (rete 
                  dei comunisti ad esempio). Di qui, come diceva il buon Bettino 
                  Craxi, i soldi non bastano mai e certe volte vale tutto, ma 
                  proprio tutto: la CUB, per capirci, ha imbarcato un piccolo 
                  sindacato pensionati ipercorporativo perché gli portava 
                  allegri vecchietti, molte tessere ed un discreto numero di soldi. 
                  Lotta di classe negli ospizi?
 Il consolidamento di forme burocratiche, non positive, da come 
                  le intendo io, che centrano poco con forme di efficacia organizzativa 
                  e molto spesso ne sono da freno, maturano come prassi, atteggiamenti, 
                  mentalità, disegni politici poco chiari e spesso per 
                  nulla condivisi, ecc. Mi sa, al contrario di quello che dice 
                  Cristiano che quando arriverà il momento rivoluzionario, 
                  sempre che arrivi, sarà troppo tardi: l’autoritarismo 
                  burocratico o lo si mette in discussione sempre ed efficacemente 
                  oppure prevarrà naturalmente allo stesso modo in cui 
                  si è consolidato nel corso degli anni. Forma e sostanza 
                  vanno di pari passo.
 Cosimo fa, pacificamente, un’affermazione che ha, a mio 
                  avviso, una portata «rivoluzionaria»: il terreno 
                  sindacale come qualità necessaria, non unica ma non ultima, 
                  darebbe all’anarchia una progettualità concreto/sensibile. 
                  Sembra che egli dica una cosa semplice e facilmente comprensibile, 
                  ma in realtà, cela dietro questa asserzione, che non 
                  gli è nuova, alcuni presupposti che se portati alle loro 
                  estreme conseguenze potrebbero avere una carica radicale nella 
                  loro comprensione/attuazione.
 Proviamo a vederli:
 
                  Cerco di spiegarmi meglio: ci sono tra compagni anarchici almeno 
                  tre livelli di intendere il lavoro sindacale e di conseguenza 
                  il sindacato.Il piano politico radicale e rivoluzionario è nella 
                    sua espressione concreta definitivamente defunto, sia nella 
                    sua portata immediata sia nella sua funzione progettuale; 
                  Il livello sindacale agisce, anche se incoerentemente, nelle 
                    contraddizioni reali di classe; 
                  Se ne deduce che il piano di azione sindacale ha un livello 
                    di concretezza; 
                  Se ne deduce che il piano di azione sindacale ha un livello 
                    di efficacia; 
                  Ma di quale concretezza e di quale efficacia si sta parlando? 
                    Io credo che siamo in un ambito riformistico, radicale, ma 
                    riformistico; 
                  Dando senso alle parole che usiamo per me riformistico non 
                    ha una valenza negativa – riduttiva (tutt’altro): 
                    quello che dalle parole di Cosimo non si evince chiaramente 
                    è se sia diventato anche l’ultimo orizzonte praticabile. 
                 Il primo è che la sua funzione rimane quella della difesa 
                  sostanziale del potere d’acquisto diretto ed indiretto 
                  dei lavoratori ed è fondamentale in questo senso, a volte 
                  esclusiva, una lotta di difesa salariale ed in subordine tutte 
                  le altre questioni. Il sindacato deve essere grosso, forte, 
                  centralizzato ed alcuni livelli burocratici sono oltre che inevitabili 
                  in alcuni casi anche proficui. Sono secondarie alcune questioni 
                  che per altri sono centrali come i contenuti tra cui la rappresentatività 
                  equa nei posti di lavoro, la libertà di sciopero, i diritti 
                  di organizzazione, ecc. Non si capirebbe altrimenti perché 
                  facciano parte dei confederali (anarchici cigiellini).
 Il secondo evidenzia sempre nel lavoro sindacale un carattere 
                  prevalentemente riformistico, dai contenuti però coerenti 
                  di difesa contrattuale, e non mette in subordine le altre libertà, 
                  ma ne mostra i contenuti di classe (come dicevo forma e sostanza 
                  dovrebbero andare un po’ più a braccetto). Il piano 
                  progettuale politico riformistico in queste organizzazioni è 
                  molto debole e spesso subordinato alle elaborazioni dei movimenti: 
                  Tobin Tax, reddito di cittadinanza, ecc. (anarchici CUB-Rdb, 
                  Cobas, Unicobas, Slai…)
 Il terzo ed ultimo è quello che fa del sindacato un soggetto 
                  prevalentemente politico ancorché rivoluzionario (anarchici 
                  USI).
 Sembra però, dalle parole di Cosimo, anche se a malincuore, 
                  che il sindacato possa essere, stante le cose, l’unico 
                  soggetto pienamente politico che sia credibile (non lo sono 
                  né i partiti né altre sedicenti organizzazioni 
                  rivoluzionarie). Di qui c’è a mio avviso un salto 
                  concettuale simile a quello anarcosindacalista, ovvero, come 
                  già detto, che il sindacalismo sia un ambito pienamente 
                  politico e che la politica non possa che essere e farsi sindacato 
                  in maniera totale e completa. Il limite grosso è che 
                  non credendo nell’orizzonte politico rivoluzionario del 
                  sindacato in quanto tale l’ambito politico non può 
                  che ridursi ad un riformismo piccolo piccolo, oppure l’attività 
                  militante sindacale non può che trovare soddisfazione, 
                  unica per la verità, che sul piano concreto della difesa 
                  immediata delle condizioni di classe dei lavoratori, anche nelle 
                  piccole vertenze individuali.
 Altrimenti ed è questa la domanda che faccio a Cosimo: 
                  perché scoprire solo ora il piano concreto/sensibile 
                  del lavoro sindacale? La seconda: non ti sembra che sia una 
                  forzatura non solo semantica il portare la progettualità 
                  anarchica nel concreto specifico sindacale e che non si tratti 
                  invece di adattare l’impotenza politica e strategica di 
                  una scelta politica (quella anarchica) ad un livello che si 
                  è scelto come proprio da diversi anni?
 Sono dubbi che attanagliano anche chi scrive.
  Pietro Stara
 Non orizzonte
 ma terreno d’azione
 di Cosimo Scarinzi
 Caro 
                  Pietro, quando ho letto la tua lettera ho fatto un, metaforico, salto 
                  sulla sedia. Con il tuo consueto gusto per la estremizzazione 
                  delle tesi tue ed altrui mi hai attribuito ma, in realtà, 
                  hai posto alla discussione un blocco di questioni che di molto 
                  eccede quanto io intendevo sollevare.
 Sono andato a rileggermi cosa, nel merito, avevo scritto a Simone, 
                  e ho trovato la frase che riporto:
 «Mi riferisco alla scelta mia e di altri compagni 
                  di assumere il terreno sindacale come quello che – non 
                  penso, va da sé, sia l’unico ma certo non lo ritengo 
                  l’ultimo – da alla progettualità anarchica 
                  una dimensione concreto/sensibile. E, quando parliamo di scelta 
                  sindacale non parliamo dei sindacati che vorremmo ma dei sindacati 
                  che riusciamo, fra mille difficoltà e contraddizioni, 
                  ad animare.»
 Decisamente una frase, ma è il mio modo di porre le questioni, 
                  più prudente delle conclusioni che ne trai. Fra l’altro, 
                  devo confessare che, senza sentire la necessità di attribuire 
                  la paternità di quanto scritto a chi per primo ha formulato 
                  questa ipotesi interpretativa, riprendevo una tesi di Maurizio 
                  Antonioli che, in uno dei suoi eccellenti lavori sul sindacalismo 
                  d’azione diretta, spiegava in questo modo l’interesse 
                  di importanti settori del movimento anarchico per il sindacalismo 
                  e lo faceva riferendosi a vicende di un secolo addietro. Come 
                  vedi, nello specifico, non mi riferivo ad una novità 
                  ma ad un problema annoso.
 Proviamo, a questo punto, ad assumere le conclusioni che proponi 
                  come ipotesi di partenza.
 Sento, in primo luogo, l’esigenza di sgombrare il campo 
                  da due possibili equivoci.
 In primo luogo, io non credo che lotta di classe e lotta sindacale 
                  siano concetti coincidenti. L’idea tipicamente sindacalista, 
                  nel senso del sindacalismo d’azione diretta, che sia possibile 
                  organizzare la classe in sindacati radicali capaci di esprimerne 
                  appieno la dimensione conflittuale e progettuale mi è 
                  estranea non fosse altro che perché questa posizione 
                  è stata atrocemente confutata dalle vicende storiche 
                  quantomeno con la Grande Guerra ed era stata sottoposta a condivisibile 
                  critica politica già prima sia in campo anarchico (Malatesta, 
                  ad esempio) che marxista (Rosa Luxemburg, per fare un altro 
                  esempio).
 In secondo luogo non credo che la lotta di classe, sia intesa 
                  in senso stretto come conflitto su retribuzioni, organizzazione 
                  del lavoro, diritti sia intesa in senso largo come scontro fra 
                  gruppi sociali sull’assieme delle relazioni che li legano, 
                  risolutiva della questione sociale e, in particolare, tale da 
                  negare la specificità della proposta anarchica che è, 
                  a mio avviso, un modo particolare di intendere e praticare la 
                  lotta di classe ma non è solo questo e, anzi, si caratterizza 
                  in maniera rilevantissima per il modo di intendere il ruolo 
                  degli individui, le relazioni interpersonali, quelle fra gruppi 
                  umani e culture che li distinguono, il rapporto con la natura, 
                  ecc.
 A mio avviso, per dirla in altri termini, la critica anarchica 
                  del potere ha una sua interna logica ed una sua efficacia ai 
                  fini dell’azione degli anarchici stessi che, in qualche 
                  misura, prescinde dalle caratteristiche contingenti dell’intervento 
                  degli anarchici su specifiche e pur rilevanti questioni.
 Per non sottrarmi alla tua feconda provocazione, se non penso 
                  affatto che «Il piano politico radicale e rivoluzionario 
                  è nella sua espressione concreta definitivamente defunto, 
                  sia nella sua portata immediata sia nella sua funzione progettuale.», 
                  è anche vero che non ritengo che la sua concretezza si 
                  manifesterà, anche se non lo escludo in assoluto, nella 
                  forma dell’insurrezione o, se preferisci, dell’assalto 
                  al cielo. Questo convincimento deriva, banalmente, da una valutazione, 
                  che ritengo realistica, di oltre un secolo e mezzo di storia 
                  del movimento operaio su base planetaria, storia che non mi 
                  sembra autorizzare miti sulla natura intrinsecamente rivoluzionaria 
                  ed insurrezionalista della working class.
 Mi rendo assolutamente conto che quanto ho detto richiederebbe 
                  ben altra argomentazione ma non ho né il tempo né 
                  lo spazio per farlo in una lettera e, comunque, è una 
                  delle questioni sulle quali ci misuriamo in diverse sedi.
 Mi limito, quindi, ad affermare che, a mio avviso, i movimenti 
                  e le pratiche di emancipazione delle classi subalterne si danno, 
                  e tenderanno a darsi, nella forma di un conflitto, più 
                  o meno radicale, volto a ridurre la pressione delle classi dominanti 
                  e dello stato e che solo una crescita, un radicamento, un’elaborazione 
                  concettuale, da parte di settori ampi della working class, di 
                  questo conflitto potranno, in forme difficili da definirsi, 
                  determinare trasformazioni sociali radicali, le uniche che ritengo 
                  possano definirsi rivoluzionarie. Mi riferisco ad un processo 
                  complesso e contraddittorio che vede avanzamenti ed arretramenti, 
                  accelerazioni e rotture (pensiamo, per non andare lontano, alla 
                  vertenza di Melfi, la fabbrica più crumira d’Italia 
                  che diventa un punto di riferimento generale in poche settimane).
 Gli anarchici, in quanto individui ed in quanto partito, possono 
                  e potranno svolgere un ruolo prezioso in questo percorso proprio 
                  a partire dal fatto che la nostra critica della gerarchia sociale 
                  ha una coerenza ed un’efficacia che mancano ad altre teorie 
                  politiche. Certo, la critica non basta, è necessaria 
                  l’azione, l’esperienza, la capacità di sperimentazione. 
                  E, a mio avviso, un sindacalismo radicale è un terreno 
                  di azione e di sperimentazione importante se non unico.
 Quindi, stando alla metafora che proponi, il sindacalismo non 
                  è un orizzonte ma un terreno di azione del quale vanno 
                  dichiarati, senza ambiguità, i limiti ma anche rivendicata 
                  la ricchezza dal punto di vista dell’esperienza del conflitto.
 Io credo, in altri termini, che oggi servano dei passi avanti 
                  su diversi, ed intrecciati, terreni:
 
                  Per ora mi fermo.la formulazione di un adeguata teoria critica libertaria, opera 
                  che non può che essere collettiva e che, per la stessa 
                  nostra natura, non può che prevedere una dialettica fra 
                  sensibilità diverse
                  il radicamento come movimento specifico nel conflitto sociale 
                  con una maggiore, e riconosco che non è uno scherzo, 
                  capacità di intervento efficace sulle questioni politiche, 
                  sociali e sindacali centrali per la massa dei lavoratori
                  la capacità di stare sul terreno sindacale con autonomia 
                  di giudizio e di proposte ma anche con una credibilità 
                  che solo l’essere buoni, o discreti, sindacalisti può 
                  darci. 
				    Cosimo
 Necessità tecnica
 di Claudio Strambi
 Cari compagni, la discussione ormai ha talmente tanti protagonisti e filoni 
                  di ragionamento che per intervenire è necessario fare 
                  una selezione di punti, pena l’essere eccessivamente lungo 
                  e dispersivo.
 Innanzitutto una chiarificazione senza cui rischiamo di parlare 
                  di cose diverse. In generale i compagni parlano di burocratizzazione 
                  intendendo il fatto di avere nel sindacato del lavoro retribuito, 
                  cioè compagni che sono distaccati, in parte o del tutto, 
                  dal proprio lavoro professionale (operaio, insegnante, impiegato 
                  o altro) per svolgere lavoro sindacale.
 A mio parere questo di per sé non costituisce una burocratizzazione 
                  sindacale, ma solo una necessità tecnica, implicante, 
                  questo sì, dei forti rischi di burocratizzazione.
 Intendiamoci bene io credo nella necessità per i libertari 
                  di diffondere una cultura ed una pratica del lavoro volontario, 
                  ma ciò non significa negare la necessità tecnica 
                  di cui sopra.
 Ed è proprio sul modo di gestire quella ineludibile necessità 
                  tecnica, che si gioca la partita politica del modello sindacale: 
                  sindacato burocratico o tendenzialmente antiburocratico; 
                  sindacato gerarchico riproducente il modello statale di organizzazione 
                  o sindacato tendenzialmente libertario; sindacato centralista 
                  o federalista-solidale.
 In questo senso mi sembrano insufficienti le valutazioni, pur 
                  in parte condivisibili, di Cristiano. Il vecchio Ciste (soprannome 
                  di Cristiano per chi non lo sa), dice giustamente che nessuna 
                  formula «burocratico-libertaria» studiata a tavolino 
                  ci garantisce dai fenomeni di burocratizzazione, se non c’è 
                  e non riusciamo a suscitare un anelito di partecipazione diretta 
                  dei lavoratori alla vita sindacale. E poiché questo avviene 
                  solo in certi momenti storici, da questo deriva una implicita 
                  messa in secondo piano da parte di Ciste del problema dei modelli 
                  organizzativi.
 Mi stupisce che un compagno con cui condivido un impronta fortemente 
                  programmatica dell’anarchismo sottovaluti per l’appunto 
                  l’aspetto programmatico sul piano del modello organizzativo 
                  sindacale.
 Noi anarchici laici sappiamo che non esiste quel giorno «catartico» 
                  in cui le masse e gli individui saranno tutti ugualmente partecipanti 
                  diretti alle «cose pubbliche». Non esisterà 
                  mai cioè il giorno della «redenzione universale» 
                  dalla passività e dalla soggezione delle masse rispetto 
                  ai capi.
 L’anarchia è da noi concepita come un lungo processo 
                  possibile, come il «cammino di liberazione dell’uomo», 
                  in cui il nostro sforzo soggettivo ha una grande importanza.
 La redenzione universale non avvenne neanche in Spagna nel ‘36 
                  e non avverrà nella prossima rivoluzione del duemila... 
                  In ogni epoca ed in ogni singolo momento storico sono risvegliabili 
                  un certo numero di forze attive e se uno dei nostri compiti 
                  è quello di aumentarle quanto più possibile, non 
                  possiamo certo limitarci a questo, adattandoci per converso 
                  alla burocratizzazione per quanto riguarda la gestione concreta 
                  delle organizzazioni sindacali (come di altre realtà 
                  sociali).
 Noi, poiché siamo una forza politica, anche se estremamente 
                  particolare, dobbiamo avere una proposta politica anche su questo 
                  terreno (vedi alcune idee sul mio precedente intervento). Anzi, 
                  soprattutto su questo terreno che è tipicamente nostro!
 Poi naturalmente questa proposta, e su questo sono d’accordo 
                  con Ciste, va portata nelle varie organizzazioni sindacali dove 
                  gli anarchici intervengono, per realizzare, non un sindacato 
                  puramente libertario, che probabilmente non è del tutto 
                  neanche l’attuale USI, ma un sindacalismo tendenzialmente 
                  libertario ed autogestionario.
 Due battute sulla specializzazione dei saperi sollevata da vari 
                  compagni. D’accordo che la materia sindacale diventa sempre 
                  più tecnico-specialistica e che ci pone qualche difficoltà 
                  aggiuntiva. Motivo di più per distribuire il più 
                  orizzontalmente possibile i permessi; per fare 3 semi distaccati 
                  ad un terzo, piuttosto che 1 a tempo pieno; per distribuire 
                  e socializzare il più possibile risorse economiche e 
                  competenze.
 Motivo di più per essere antiburocratici o meglio ancora 
                  antigerarchici. In specifico a Montecchi: insomma, il problema 
                  della burocratizzazione non sono certo le competenze dei commercialisti 
                  sui 730. Il problema sono le decisioni sui nodi politici; sono 
                  i rapporti di naturale complicità che si creano con le 
                  controparti quando vai sempre te a trattare, lontano dagli occhi 
                  dei tuoi rappresentati; sono quelle persone che passano 10, 
                  15 o 20 anni a fare il sindacalista di mestiere e non vogliono 
                  (a quel punto mi vien da dire a ragione) tornare a lavorare; 
                  il problema sono i rapporti gerarchici che si creano quando 
                  un centro qualunque ha centralizzate su di sé gran parte 
                  o tutte le risorse dell’organizzazione.
 In questo senso non credo di «dover essere capito». 
                  Se questi problemi ci sono in RdB dove io sto, ci sono elevati 
                  a potenza in CGIL e ci sono in misure diverse in tutte le organizzazioni 
                  esistenti.
 Quanto al problema finale sollevato da Piotr Starovic (a), 
                  francamente non mi sembrava di aver colto nel ragionamento di 
                  Cosimo quel salto anarcosindacalista da lui attribuitogli. Tuttavia 
                  non c’è dubbio a mio parere che proprio la tendenza 
                  alla burocratizzazione dei sindacati di base metta in rilievo 
                  l’importanza di una azione politica coordinata dei libertari 
                  che agiscono all’interno di questi sindacati.
  Claudio Strambi
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