| Odii di classe e amori profondi Il dolore perfetto è un romanzo-mondo, un romanzo 
                  quanto mai ricco e complesso, dal quale emergono non soltanto 
                  delle storie, ma la storia, la storia di questa 
                  nostra Italia, dall’Unità ad oggi, che con i suoi 
                  tempi e le sue scansioni viene narrata in parallelo con le vicende 
                  anonime, eppure così emblematiche, degli anonimi protagonisti 
                  di una storia collettiva che appartiene a tutti noi. E per noi 
                  anarchici, che abbiamo l’opportunità, in queste 
                  pagine, di ripercorrere molti dei passaggi cruciali che hanno 
                  segnato la vita del nostro movimento, la lettura del romanzo 
                  non può che essere particolarmente coinvolgente. Infatti, in questo suo lavoro, vincitore meritatamente dell’ultimo 
                  premio Strega (Il dolore perfetto, Mondadori, 2004), 
                  Ugo Riccarelli narra le vicende di due famiglie toscane, sovversiva 
                  l’una, piccolo borghese e conservatrice l’altra, 
                  i cui destini si intrecciano inestricabilmente, così 
                  come si intrecciano i destini e le vicende delle classi sociali 
                  del nostro paese. E, nella lunga storia che parte dal 1870 per 
                  arrivare a questi giorni, l’incontro fra la famiglia del 
                  Maestro e quella dei commercianti di maiali, incontro segnato 
                  da odii di classe e amori profondi, è anche lo scontro 
                  delle due Italie, delle due classi, che dopo i conflitti duri 
                  e drammatici della fine dell’ottocento e della nascita 
                  e dell’affermarsi del fascismo, sembrano ricomporsi nella 
                  pace sociale dei nostri giorni, quando le antiche asprezze della 
                  lotta vengono a stemperarsi nella pacata quotidianità 
                  dell’oggi.
 Idee di redenzione sociale È intorno al 1875 che il Maestro giunge al Colle, un 
                  piccolo paese come tanti, sospeso fra i paduli toscani non ancora 
                  bonificati e stravolti, nella loro millenaria quiete, dal fascismo. 
                  Viene da Sapri, ancora fresca delle imprese di Pisacane, e porta 
                  con sé le idee di redenzione sociale di Bakunin e Cafiero. 
                  Accolto con amore e rispetto dalla piccola comunità, 
                  trova l’amore nella vedova Bartoli, dolce e intelligente 
                  compagna di vita e di idee. Tra una peripezia e l’altra, 
                  tra un esilio, un periodo di clandestinità, un soggiorno 
                  nelle regie galere, nasceranno dalla loro unione quattro figli, 
                  quattro vite che portano nei nomi, Ideale, Mikhail, Libertà 
                  e Cafiero, le speranze e i progetti di un mondo migliore. E, 
                  forse proprio per questo, quattro vite destinate a spegnersi 
                  tragicamente, a pagare drammaticamente la coerenza loro e quella 
                  dei genitori. Intorno, un piccolo grande mondo di compagni, 
                  di sovversivi, di popolani istintivamente libertari, fedeli 
                  e solidali, che nella massima semplicità si rendono interpreti 
                  delle idee di rivolta e libertà che li animano. E vediamo 
                  così la Baronata, la colonia Cecilia di Giovanni Rossi, 
                  i tentativi insurrezionali di Costa e Malatesta, e le retate, 
                  la repressione, le guerre coloniali, Adua e la Libia, e i moti 
                  del 1898, quando a Milano il Maestro cade colpito dagli uomini 
                  di Bava Beccaris. Sarà Cafiero, il più giovane 
                  dei figli, concepito in uno dei rari momenti di libertà 
                  goduti dal Maestro negli ultimi anni di vita, a determinare 
                  l’incontro con la famiglia dei Bertorelli, scaltri commercianti 
                  di maiali, ancora intrisi della cultura contadina che li ha 
                  formati, ma inevitabilmente destinati, per censo e ricchezza, 
                  a divenire i futuri padroni del paese, gli esponenti della nascente 
                  borghesia, il brodo di coltura del fascismo. Tutti i componenti 
                  di questa famiglia portano nomi omerici: Sparta, Ettorre, Telemaco, 
                  Oreste, Paride..., quasi a segnare l’indissolubilità 
                  della loro origine e del loro “aulico” destino, 
                  e solo i figli di Rosa e Ulisse, Annina e Sole, marcheranno, 
                  nella diversità del nome, la capacità di sottrarsi 
                  al bizzarro conformismo famigliare. Il secolo nuovo, lungi dal 
                  garantire libertà e serenità, porta con sé 
                  le infamie del colonialismo, gli orrori della grande guerra, 
                  il mostro dell’epidemia di Spagnola, la nascita del fascismo. 
                  Non c’è tragedia che non colpisca anche le due 
                  famiglie, come non ci fu tragedia che non segnò drammaticamente 
                  l’Italia proletaria; ma le opportunità di riemergerne 
                  non saranno le stesse. Nel culmine del biennio rosso, Annina, 
                  perdutamente innamorata del suo Cafiero, per il quale ha rinnegato 
                  i legami con i Bertorelli, vede morire il suo amato assieme 
                  al fratello Ideale, entrambi uccisi dagli squadristi assoldati 
                  dagli zii, ed è così costretta a capitolare, accettando 
                  di dare il cognome che disprezza ai suoi tre figlioli, per non 
                  vederli ridotti alla fame. La famiglia del Maestro, dunque, 
                  la famiglia sovversiva, la stirpe proletaria e ribelle, sembra 
                  così sconfitta dal potere politico ed economico della 
                  nuova borghesia (i due zii Bertorelli sono ora il Podestà 
                  e l’industriale di Colle) e destinata ad annullarsi nel 
                  consenso di massa che il fascismo ha creato. Ma, come un fiume 
                  carsico, il tenace antagonismo di Annina, rimasta fedele al 
                  ricordo e alle idee di Cafiero, saprà ritrovare la strada 
                  per affermarsi e prendersi tutte le sue rivincite quando la 
                  guerra scatenata dal nazifascismo trascinerà alla rovina 
                  Mussolini e il suo regime. E negli anni di questo secondo dopoguerra, 
                  fino ai giorni nostri, troveranno la loro conclusione le vicende 
                  della famiglia Bertorelli e della famiglia del Maestro. I contrasti 
                  si smusseranno, le tensioni troveranno altri sfoghi che non 
                  nella politica e nello scontro sociale, ma le due anime continueranno 
                  a mantenere, anche se sommessamente, i loro caratteri originari.
 Una continua metafora Ho letto questo romanzo, avvincente e splendidamente scritto, 
                  come una grande metafora, una continua metafora che riflette, 
                  come spero di essere riuscito a spiegare, l’evoluzione 
                  della società italiana attraverso le trasformazioni e 
                  le storie di due famiglie “esemplari”: una proletaria, 
                  generosa, ribelle e sovversiva, e l’altra borghese, conservatrice 
                  e attenta solo agli interessi e al potere. Un’evoluzione 
                  destinata, sembra ricordarci l’autore, a trovare comunque 
                  un punto finale nel quale quell’umanità che contraddistingue 
                  ogni individuo verrà a prevalere sulle asprezze inevitabilmente 
                  determinate dalle condizioni sociali. È l’umanità, 
                  infatti – la profonda umanità, che segna i personaggi 
                  del romanzo – l’altra chiave di lettura di questa 
                  opera. Un’umanità fatta di indissolubili affetti 
                  fraterni, di amori sconfinati capaci di superare le tragedie 
                  della vita, di parole sommesse e racconti fantastici in grado 
                  di lenire quei continui “dolori perfetti” che si 
                  riflettono nel travaglio del parto e nella ineluttabilità 
                  della morte, di vite destinate ad affrontare con primitivo stoicismo 
                  le continue avversità che, inesorabili, spezzano esistenze 
                  che si vorrebbero felici. Ed emergono, da queste tragedie esistenziali, 
                  indimenticabili figure di donne, ferme e indomabili nella loro 
                  volontà di perpetuare la vita, quasi fossero loro il 
                  meccanismo del moto perpetuo che Ideale, il figlio dell’Annina, 
                  cerca inutilmente di creare negli ingranaggi di una macchina 
                  favolosa.
 Un grande romanzo, dunque, un romanzo corale nel quale i protagonisti 
                  sono parte di una storia che li trascende, ricomponendo la loro 
                  individualità in una vicenda collettiva che ripercorre 
                  le vicende del nostro paese. Così come ripercorre, nella 
                  loro essenzialità, le vicende che hanno visto protagonista, 
                  in questi anni, anche il nostro movimento. E infatti il ritratto 
                  che Riccarelli traccia del Maestro e dei suoi figli si dilata 
                  per diventare il ritratto, la foto di gruppo dei tanti Maestri, 
                  Cafiero, Ideale e Libertà che hanno animato, e che ancora 
                  animano, il movimento anarchico in Italia.
  Massimo Ortalli
  
                  
                  Non riconosceva autoritàdi Ugo Riccarelli
 L’amore avvolse la vedova Bartoli e il Maestro in modo 
                  talmente inevitabile che nessuno, dal Colle fino alla Piana 
                  e oltre, si stupì mai di quell’unione che avrebbe 
                  invece potuto essere causa di pettegolezzi e chiacchiere d’ogni 
                  tipo, se non altro per la marcata differenza d’età 
                  degli amanti e, comunque, per lo scandalo che essa avrebbe potuto 
                  rappresentare visto che, nei molti anni del loro amore, anche 
                  quando nacquero figli e le difficoltà non mancarono, 
                  essi non manifestarono mai neppure la minima intenzione di regolarizzare 
                  quel rapporto attraverso il matrimonio. Del resto, per le sue convinzioni anarchiche, il Maestro non 
                  riconosceva autorità né allo Stato né alla 
                  Chiesa e, in ogni caso, dal giorno della sua prima passeggiata 
                  assieme al giovane uomo, la vedova Bartoli non aveva mai fatto 
                  cenno alcuno all’eventualità di un loro matrimonio. 
                  Semplicemente, appena rientrati a casa sul far della sera, servita 
                  la cena ai pensionanti e finito di rigovernare, lei e il Maestro 
                  iniziarono la loro vita coniugale, dormendo nella camera matrimoniale 
                  e trasformando la vecchia stanza di lui in uno studio zeppo 
                  di carte e di libri che fu, per sempre, il rifugio tranquillo 
                  delle sue letture.
 Nel tempo, quando la stazione fu terminata e la ferrovia si 
                  allungò ben oltre il Padule Lungo, verso altre pianure 
                  e altre città, i figli che nacquero dalla loro unione 
                  occuparono le stanze che erano state dei due capisquadra, e 
                  la casa vicino alle mura sembrò ringiovanire tra la confusione 
                  di quella insolita famiglia e l’amore che i due seppero 
                  sempre mantenere intatto.
 In una camera dormiva Ideale, il loro primogenito, e in seguito 
                  vi dormì anche Mikhail, di diversi anni più giovane, 
                  mentre la più piccola, Libertà, avrebbe occupato 
                  la stanza accanto a quella di Bartolo che, molti anni più 
                  tardi, sarebbe stata di Cafiero.
 I ragazzi crebbero respirando la serenità che la vedova 
                  seppe sempre manifestare, anche nei momenti più difficili 
                  che la vita riserbò loro, e nonostante le lunghe assenze 
                  del padre.
 In quel paese arroccato sulla collina da secoli, avvolta dall’alone 
                  magico dell’amore tra la vedova Bartoli e il Maestro, 
                  la casa accanto alle mura fu, per molti anni, quasi un porto 
                  franco in cui la loro vita e quella dei figli poté svolgersi 
                  al riparo dalle malignità e dalle spietate regole delle 
                  istituzioni. Finché tra il Colle e il Padule il tempo 
                  scorse lento, la particolare indole degli abitanti di quei luoghi 
                  evitò ai due amanti ogni tipo di problema che sarebbe 
                  potuto sorgere da quell’unione e da quelle nascite al 
                  di fuori di ogni regola, soprattutto per chi, come il Maestro, 
                  doveva sostenere un ruolo così autorevole come quello 
                  di insegnante.
 E anche quando la Storia e il Progresso arrivarono come una 
                  bufera sopra quella famiglia, pretendendo di dare una forma 
                  rigida a quello che era, in fondo, solamente il prodotto di 
                  un sogno, gli effetti devastanti provocati dal peso dell’ordine 
                  non riuscirono a cancellare completamente dalla memoria di Colle 
                  Alto il senso di felicità che l’unione di quelle 
                  persone aveva comunque generato.
 Quando tutto fu stato, transitando nel punto dove al posto di 
                  una stazione di servizio un tempo sorgeva la casa accanto alle 
                  mura, i figli dei figli dei figli di chi aveva conosciuto da 
                  vicino quella felicità non riuscivano a trattenere un 
                  sorriso o una parola gentile verso il luogo dove s’era 
                  svolta una storia che i più ricordavano come una bella 
                  favola, come un momento di tranquilla luce nel turbinare dei 
                  loro giorni affrettati.
 L’unico che all’epoca dei fatti ebbe qualcosa da 
                  ridire fu il parroco di San Venanzio, don Ubaldo, che una settimana 
                  circa dopo la nascita di Ideale, una sera con un tempo da lupi 
                  scese dalla canonica di fronte alla Rocca per benedire quella 
                  nuova pecorella, visto che nessuno della famiglia si era degnato 
                  di presentarsi a iscrivere la piccola anima al registro parrocchiale.
   Lotta di poveri contro poveridi Ugo Riccarelli
 Il Maestro si affacciò alla finestra della sua stanza. 
                  La campagna della Camargue tremolava cotta dal calore di un 
                  sole spietato. Girando lo sguardo verso le saline vide brillare 
                  il mare sotto il filo dell’orizzonte, e gli sembrò 
                  il Padule Lungo. Pensò al Colle, alla vedova, a Bartolo e Mikhail i cui 
                  volti, dopo tanti anni di lontananza, stavano diventando ricordi 
                  confusi, miraggi trasparenti come gli alberi che il calore stava 
                  sciogliendo nella pianura.
 Andò al tavolo e prese tra le mani una lastra di metallo. 
                  La mosse leggermente, e la luce che filtrava dalla finestra 
                  disegnò sul dagherrotipo i lineamenti di quella giovane 
                  figlia che non aveva mai conosciuto. Quasi per una rivalsa sul 
                  destino, aveva deciso di chiamarla Libertà.
 La fuga, l’esilio, la solitudine gli parvero come un sacrificio 
                  necessario a mantenere la propria libertà.
 Il Maestro allora si sedette al tavolo e scrisse:
 
                Il giorno in cui la polizia arrivò alla casa vicino 
                  le mura, la vedova Bartoli era intenta a cucinare. Fece accomodare 
                  chi stava cercando il suo uomo con la stessa cortesia con la 
                  quale, per anni, aveva accolto i compaesani che l’avevano 
                  aiutata ad affrontare una difficile solitudine.Mia adorata, dalla finestra di questa casa straniera vedo il 
                  filo del mare che luccica, come luccicava il Padule la sera 
                  in cui conobbi il vero amore. È sale che brucia su questa 
                  mia lontananza, sacrificio comunque essenziale per la mia e 
                  la vostra Libertà. 
                  Maniero mi informò degli ultimi arresti a Firenze, Bologna 
                  e Milano. Dunque la ragione della mia fuga, anche dopo tutto 
                  questo tempo, non fu insulsa e il sacrificio non vano. Rimane 
                  questa lontananza ch’io confido possa essere ormai alla 
                  fine. Un grande progetto mi sta prendendo il cuore, in quella 
                  piccola parte che l’amore per te lascia ancora libero. 
                  Mannuzzu giunse lo scorso venerdì in uno stato di eccitazione 
                  e di felicità che mai vidi nel nostro amico. E sì 
                  che ne passammo insieme, e in quante occasioni ci trovammo coinvolti 
                  tra entusiasmo, passione e paure! Lo calmai, lo feci accomodare 
                  di fronte a un bicchiere di buon vino ben fresco, e dunque finalmente 
                  egli mi mise a parte di un suo incontro con l’anarchico 
                  pisano Rossi, il quale verrebbe da incontrare un emissario dell’imperatore 
                  Pedro II del Brasile.
                  Una storia strana questa, mia adorata, perché strano 
                  e curioso è il destino degli uomini, e le loro qualità, 
                  e i loro pensieri, il cui fondamento è spesso fondato 
                  sul mistero e sulla combinazione, qual è senz’altro 
                  il fatto che essendo l’imperatore a Milano a curarsi uno 
                  stato febbrile, molto fastidioso e maligno, il Rossi l’abbia 
                  contattato tramite il conte Mota-Maya, per esporre a questo 
                  sovrano, che si vuole aperto e liberale, il progetto della comunità 
                  anarchica di cui ti parlai, e che s’avrebbe da chiamare 
                  Cecilia. L’imperatore avrebbe accolto con piacere lo scritto 
                  del nostro Rossi, quello stesso "Un Comune socialista" 
                  che ti feci avere per mano di Maniero affinché fosse 
                  lettura pÈ ragazzi.
                  Se l’imperatore accettasse la proposta, potrebbe facilmente 
                  donare il terreno necessario a iniziare l’edificazione 
                  di questa nuova società, laggiù, tra le terre 
                  brasiliane che si vogliono ampie, rigogliose, giovani e dunque 
                  ottime per dare linfa alla nuova vita che andiamo cercando. 
                  Adorata, non sembra dunque lontano il giorno in cui potremo 
                  realizzare il sogno di riunirci assieme, in libertà, 
                  senza costrizioni allo spirito nostro e dei nostri cari. 
                  Ti faccio avere questa mia tramite Maniero, che come sai è 
                  persona fidata e sicura. Ti metterà a parte anche dei 
                  modi per i quali, tra sei settimane, potremo finalmente incontrarci 
                  per due giorni nel luogo che tu sai, così come progettato. 
                  Amore mio, è quel momento, ormai, assieme alla fiducia 
                  nel mondo che costruiremo insieme, lo stimolo principale che 
                  mi convince a questo lavoro pesante e ingrato, tra questi francesi 
                  che trattano il fratello italiano come un reietto, disgraziato 
                  e infame. È lotta di poveri contro poveri, aizzati da 
                  chi ha interesse a separare i destini degli uomini, a rendere 
                  così dura e difficile la lotta verso la vera civiltà. 
                  Ma ora chiudo, pensando al nostro convegno: sarà esso 
                  di due giorni interi, dopo tempo immemorabile. Sarà esso 
                  il sogno. Lascio ai miei abbracci di allora il compito di raccontarti 
                  tutto il mio desiderio e il mio amore. 
                  Guardo dal dagherrotipo il volto di Libertà, e nel suo 
                  nome, e nei suoi lineamenti, vedo la donna che mi prese l’amore. 
                  Ora ti bacio e ti prego di portare a Bartolo il mio più 
                  affettuoso saluto. Hai fatto leggere la mia ultima a Ideale? 
                  Mi raccomando che consideri la lettura di Costa. Bacia Mikhail 
                  e la piccola Libertà con tutto il calore possibile dal 
                  loro padre lontano.  L’ufficiale di polizia la interrogò con una certa 
                  freddezza:
 «Dov’è?» chiese solamente.
 «A curare suo padre moribondo» rispose la vedova.
 L’ufficiale guardò le carte che aveva appoggiato 
                  sul tavolo:
 «Sta morendo da sei anni?» disse con un tono sarcastico.
 La donna non si scompose:
 «È un uomo molto malato, e ha bisogno di tante 
                  cure.»
 In quel momento entrò un militare, e gettò sul 
                  tavolo un fascio di lettere. L’ufficiale le guardò 
                  e sorrise.
 Dalla porta verso la strada arrivarono altri militari con il 
                  piccolo Mikhail, Bartolo e Ideale.
 L’ufficiale consultò le carte.
 «Siamo qui in nome del Re d’Italia, per ristabilire 
                  l’ordine e la ragione» disse – quindi si volse 
                  verso i ragazzi, e con tono secco domandò:
 «Chi di voi è figlio di Fosco Bartoli?»
 Nessuno rispose.
 L’ufficiale ebbe un moto di stizza. La vedova lo guardava 
                  sorridendo, non pareva nervosa né spaventata, mentre 
                  i suoi tre figli se ne stavano fermi, fissandolo dritto negli 
                  occhi. Il più grande teneva persino le mani in tasca. 
                  “Maleducati” pensò l’ufficiale, mentre 
                  dava un cenno al soldato per far mettere sull’attenti 
                  quei ragazzi.
 «Chi di voi è figlio del Maestro?» domandò 
                  quasi urlando.
 Tutti e tre risposero all’unisono:
 «Io.»
 Il fazzoletto rosso e nerodi Ugo Riccarelli
 Non avrebbe saputo dire per quanto tempo camminò, e 
                  da che parte, chi incontrò e che cosa gli dissero. La 
                  prima cosa che il Maestro ricordò fu il viso di un vecchia 
                  in lacrime che in una lingua sconosciuta e strana lo supplicava, 
                  lo abbracciava, lo accarezzava. Le mani della donna erano sporche di sangue, e lui pensò 
                  potesse essere il proprio, o forse quello di Maniero.
 Sorrise.
 La vecchia lo stava spingendo verso un portone. I soldati. Gli 
                  stava dicendo dei soldati che arrivavano. Gli stava dicendo 
                  di scappare.
 Il Maestro si voltò e vide dei cavalli e un gruppo militari 
                  in fondo alla strada. Stavano andando nella direzione opposta 
                  e non si sarebbero accorti di lui. Ringraziò la vecchia, 
                  le diede una carezza e la salutò nel dialetto di Sapri. 
                  Poi si voltò, e a passo lesto si diresse dove erano i 
                  soldati.
 Non sapeva con precisione che cosa avrebbe fatto. Pensava a 
                  Maniero e a quegli altri volati in pezzi, vedeva le divise colorate, 
                  i cavalli e forse anche i cannoni. In quei trecento metri per 
                  la testa del Maestro passarono molte cose. La casa del Colle, 
                  e il volto del fattore che ce lo aveva accompagnato. Marx, Ricardo, 
                  Bakunin, la teoria del plusvalore e la miseria dei popoli. Una 
                  pagina di Feuerbach, chiara e nitida, e il volto di una ragazza 
                  che aveva amato in un fienile, ma non ne ricordò il nome. 
                  Le ruote e i treni, e la prima volta che aveva toccato la mano 
                  di suo figlio Ideale, appena nato. Vide di fronte a sé 
                  delle parole e pensò a un discorso, forte e diretto. 
                  La forza della vita, la disperazione degli oppressi, il colore 
                  del sangue, le urla, ubbidire, ribellarsi. Tutto gli sembrò, 
                  in quell’istante, talmente chiaro e banale da far male. 
                  Come avrebbero potuto non capire?
 Ne fu sicuro e accelerò il passo, cosicché quando 
                  arrivò vicino ai soldati potremmo dire che quasi correva.
 A pochi metri dal drappello vide Maniero assieme a Libertà 
                  che lo teneva per mano. Pareva stessero salendo su un barcone 
                  attraccato alla banchina.
 "Salpano per Cecilia" pensò il Maestro, e un 
                  sorriso di sollievo gli si spalancò sul volto. Il Sud 
                  America, la nuova società libera per uomini liberi e 
                  senza sfruttamento.
 Il Maestro alzò le braccia verso il cielo e con tutto 
                  il fiato che aveva in gola cercò di attirare l’attenzione 
                  della figlia e dell’amico. Mise la mano in tasca per estrarre 
                  il fazzoletto nero e rosso che lei gli aveva regalato.
 «Libertà» urlò.
 La strada terminava in una banchina sul Naviglio, e un gruppo 
                  di militari si stava accostando a un barcone per caricarvi armi 
                  e cavalli. Qualcuno di loro vide un uomo solo arrivare a passo di corsa, 
                  l’espressione stravolta e la camicia insanguinata. All’ufficiale 
                  dissero poi che pareva un pazzo, così di fretta, scarmigliato 
                  e lercio di sangue, e urlando "Libertà" a squarciagola.
 Un soldato, superato di slancio, vide che l’uomo stava 
                  estraendo qualcosa da una tasca. Si girò, impugnò 
                  il fucile e fece fuoco. L’indemoniato proseguì 
                  la corsa ancora per qualche metro poi cadde riverso, in avanti, 
                  sulla sabbia, le mani protese come se stesse tentando di fuggire 
                  tuffandosi nel Naviglio.
 Dagli accertamenti risultò essere schedato agli archivi 
                  giudiziari come sovversivo. Un anarchico, noto col soprannome 
                  di Maestro.
 Accanto a Libertà e Idealedi Ugo Riccarelli
 Se dunque furono le parole della Maddalena ad aiutarlo a nascere, 
                  quelle dell’Annina e di Cafiero lo nutrirono di quanto 
                  il suo cuore necessitava per rafforzarsi e affrontare la vita 
                  che lo aspettava fuori dalla casa vicino alle mura. Una vita 
                  che non esitò a dimostrarsi in tutta la sua durezza, 
                  innanzitutto per le difficoltà economiche e poi per la 
                  continua persecuzione che Soldani e i suoi sgherri riservarono 
                  al figlio del Maestro. Non c’era occasione, in fatti, 
                  in cui Cafiero non subisse minacce, intimidazioni o controlli. 
                  Durante le visite al Colle e nelle città vicine di notabili 
                  o funzionari governativi di spicco, veniva inoltre costretto 
                  a presentarsi presso il Comando dei Carabinieri per essere interrogato 
                  e trattenuto a scopo preventivo. E una sera, la stessa del giorno in cui l’anarchico Lucetti 
                  attentò alla vita del Duce di Roma, l’Annina, non 
                  vedendo tornare Cafiero dal Padule, ormai a buio fatto gli scese 
                  incontro lungo la strada con un presentimento angoscioso nel 
                  petto. Attorno tutto improvvisamente le parve deserto, con un’immobilità 
                  che non preannunciava nulla di buono. Iniziò a piovere, 
                  e sotto quel pianto del cielo lei si sentì altrettanto 
                  disperata. Ben oltre la fornace vide la bicicletta di Cafiero 
                  a terra, accanto al muro. La raccolse e si aggrappò a 
                  quel ferro nero come a una speranza, poi chiamò, urlò, 
                  mischiò le sue lacrime a quelle della pioggia, riprese 
                  a scendere verso il Padule e prima del canale grande lo vide, 
                  seduto accanto a un paracarro. Allora lasciò andare la 
                  bicicletta e si precipitò da lui, e gli asciugò 
                  il sangue con le mani, e gli baciò gli occhi chiusi dalle 
                  botte, gli carezzò le mani scorticate, e pure se lei 
                  era uno scricciolo e lui una montagna di roccia ormai spezzata 
                  riuscì a sollevarlo e ad appoggiarselo alle spalle, a 
                  convincerlo con le parole più dolci a muovere lentamente 
                  le gambe, un passo alla volta, un bacio dopo l’altro, 
                  e in quel modo, come una pietà scolpita da un artista 
                  pazzo e crudele, si riportò a casa quello che restava 
                  del suo uomo, urlando nella pioggia contro Soldani e il Duce, 
                  contro il Re e quel farabutto di Telemaco, e contro la viltà 
                  di quelli che se ne stavano chiusi in casa a lasciar morire 
                  libertà e compassione che ormai nessuno più conosceva, 
                  animali vigliacchi che non erano altro.
 Da sola portò al riparo Cafiero, lo asciugò, gli 
                  medicò le ferite, gli preparò una tazza di vino 
                  bollente addolcito da miele e da cannella e poi lo mise a letto 
                  come un suo bambino, ed ebbe per lui e per le sue ferite lo 
                  stesso amore che aveva per i loro figli. Gli si stese accanto, 
                  nel buio, e ascoltò il suo respiro aspro, sussultò 
                  per ogni suo gemito, raccolse ogni suo lamento. Sentì 
                  la sua pelle da fredda diventare tiepida e poi bollente come 
                  un tizzone, gli bagnò le labbra secche e pregò, 
                  desiderò d’esser lei a soffrire, a morire, a sobbarcarsi 
                  quella pena insopportabile, lo cullò per tutta quella 
                  notte d’agonia stringendolo forte per impedirgli di arrendersi, 
                  di aggrapparsi a un altro sogno e andarsene lontano come avevano 
                  fatto la Rosa, l’Ulisse, e la Mena, e Sole, e tutti quelli 
                  a cui lei aveva voluto bene.
 Lo strinse, lo tenne abbracciato così a lungo e così 
                  forte che la mattina il Nardo e la Morena dovettero staccarle 
                  a fatica le braccia da quel corpo ormai gelato, per poi accompagnarlo 
                  verso la Piana, in corteo con gli altri amici del Padule, a 
                  regalargli un tempo più lieve, perché riposasse 
                  per sempre accanto a Libertà e Ideale nel piccolo cimitero 
                  della Pieve.
 Brani tratti da: Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, 
                  Mondadori, Milano 2004.  |