| Sogno d’amore È una bella conferma questa di Angelo Toninelli. Dopo 
                  il suo Luigi Regoli anarchico, che inaugurò 
                  questa rubrica, è uscito ora il suo nuovo romanzo Un 
                  sogno d’amore (Edizioni ETS, 2003) ambientato nella 
                  Firenze operaia ed artigiana dei primi anni settanta dell’Ottocento, 
                  quando, sulla spinta della Comune di Parigi, delle sue grandi 
                  glorie e dei suoi immani drammi, cominciano a diffondersi anche 
                  in Italia le idee di emancipazione sociale della Prima Internazionale. 
                  E il sogno d’amore che dà il titolo all’opera 
                  è, sì, quello che si concretizza nell’unione 
                  fra il giovane falegname Andrea Savioli e Giulia, ma anche quello 
                  che diventa il sentire comune di una intera generazione, la 
                  prima generazione dell’Italia unita, che, sulla spinta 
                  della nuova identità nazionale, ne trascende e ne supera 
                  i contenuti facendosi internazionalista, rivoluzionaria, anarchica. 
                  Toninelli ha scritto, indubbiamente, un romanzo storico nel 
                  senso più pieno della parola, un romanzo, cioè, 
                  nel quale si intrecciano indissolubilmente gli avvenimenti pubblici 
                  e privati di quegli anni lontani. E, di conseguenza, anche la 
                  piccola folla di personaggi che ne anima le pagine risulta una 
                  felice mescolanza di figure di fantasia e figure in carne e 
                  ossa. Di qua Giulia e Andrea, il pittore Riccardo Pampana e 
                  Margherita, il carrettiere Franco e la fidanzata Francesca, 
                  i popolani, i contadini, i cavatori e gli artigiani che avvicinano, 
                  e si avvicinano, alle nuove idee di libertà e di uguaglianza; 
                  di là i protagonisti storici del tumultuoso e avvincente 
                  periodo di fermenti e speranze che prende l’avvio nel 
                  1871. Ed ecco, allora, i “padri della patria” Garibaldi 
                  e Mazzini, con i loro epigoni locali, Castellazzo, Socci, Stefanoni 
                  e Martinati; e poi i nostri “padri”, Cafiero soprattutto, 
                  mite e generoso, e Malatesta e Costa e Bakunin, e i loro primi 
                  seguaci toscani, Francesco Natta, Gaetano Grassi, i coniugi 
                  Pezzi, Lovari. E via via tutti gli altri. E accanto a loro, 
                  a fare da contraltare nello schema narrativo come nella realtà 
                  di quegli anni, questori e funzionari, giudici e avvocati, ministri 
                  e regnanti, l’altra Italia, quella ufficiale, intenta 
                  a rafforzare le deboli strutture del nuovo Stato e a cercare 
                  di controllare, naturalmente per reprimere, tutto ciò 
                  che si discostava dalla retorica della Nuova Nazione.
 La vicenda, nel suo sviluppo narrativo, nel suo intreccio fra 
                  vicende private e pubbliche, è quanto mai lineare. Andrea 
                  Savioli, falegname figlio di falegnami con bottega nel quartiere 
                  di Borgo Allegri, divenuto amico ed allievo del meccanico Francesco 
                  Natta, instancabile organizzatore del movimento, si avvicina 
                  alle idee dell’Internazionale, giunte in Italia, soprattutto 
                  nelle Romagne e in Toscana, sull’esempio dei comunardi 
                  parigini. Partecipa quindi attivamente alla costituzione della 
                  prima sezione internazionalista fiorentina e ai momenti più 
                  significativi di quel faticoso ma inarrestabile progredire dell’idea 
                  anarchica, che per affermarsi dovette contrastare non solo la 
                  scontata reazione dell’autorità, ma pure le lusinghe 
                  strumentali e gli attacchi interessati dell’associazionismo 
                  democratico borghese, guidato dagli accorti seguaci di Mazzini 
                  e da quelli, più confusi, di Garibaldi. Divenuto presto 
                  abile propagandista ed agitatore, Andrea divide la sua vita 
                  fra l’amore e le attenzioni per Giulia, forte e affezionata 
                  compagna di vita e di idee, e l’impegno politico e sociale, 
                  fatto di continue trasferte nel contado e nei vicini paesi per 
                  portarvi le nuove idee di libertà. Sono occasioni di 
                  incontri, di discussioni e di nuove conoscenze, momenti resi 
                  felici dal progressivo svilupparsi dell’organizzazione, 
                  momenti resi difficili dalla necessità di conciliare 
                  il proprio lavoro, provato dalla crisi seguita al trasferimento 
                  della capitale a Roma, con l’impegno dovuto alla propaganda.
 
                  
                    |  |  Propaganda, congressi e scioperi E lungo questo percorso sulla strada dell’emancipazione 
                  e della ribellione, veniamo a incrociare, come dicevamo, i momenti 
                  salienti della nascita dell’anarchismo in Italia, dagli 
                  approcci propagandistici di Cafiero e Costa con gli ambienti 
                  artigiani e proletari delle città ai congressi internazionalisti, 
                  più o meno clandestini, di Rimini, Mirandola e Pisa, 
                  dalla esperienza della Baronata, con la sua estroversa e a tratti 
                  pittoresca compagine di frequentatori, ai primi scioperi operai, 
                  dalle provocatorie mene questurinesche dei vari Terzaghi ai 
                  tentativi insurrezionalisti del 1874, sfociati nei grandi processi 
                  del 1875. È un succedersi di fatti e avvenimenti quali 
                  possiamo ritrovare nei testi sul primo socialismo italiano (e 
                  qui, infatti, riporto alcuni brani de Le origini del 
                  socialismo a Firenze di Elio Conti, al quale si è 
                  sicuramente ispirato Toninelli), talmente fitto e particolareggiato, 
                  da sopraffare addirittura, soprattutto nei capitoli finali, 
                  la storia personale di Giulia e Andrea. Ma anche se, per certi 
                  aspetti, le vicende dei protagonisti passano in secondo piano 
                  per cedere il passo ai “fatti” della storia, rimane 
                  pur sempre la vividezza del ritratto appassionato di un ambiente 
                  e di figure rese grandi dalla “grandiosità” 
                  degli avvenimenti di cui furono partecipi. Ecco quindi, nei 
                  capitoli finali, la fuga di Andrea per sottrarsi alle retate, 
                  il riparare sui monti della Garfagnana dove trova le proprie 
                  radici nell’accoglienza di una famiglia di lontani cugini, 
                  i contatti con un altro mondo di proletari e lavoratori, i cavatori 
                  delle Apuane, che autonomamente stanno dando corpo, anch’essi, 
                  al loro sogno d’amore. Sono, queste della latitanza, pagine 
                  intense e a tratti commoventi, per come riescono a restituirci 
                  la comune e profonda semplicità del sentire di quei giovani 
                  generosi e pronti al sacrificio.
 Il racconto si conclude con il grande processo di Firenze del 
                  giugno 1875, quando decine di internazionalisti toscani, tra 
                  cui Andrea, sono accusati di aver ordito una cospirazione con 
                  il fine della rivoluzione sociale. È il secondo processo 
                  in Italia all’Internazionale e alle sue idee, quello che 
                  avrebbe dovuto tagliare le ali al movimento sulla base di accuse 
                  infamanti, e che invece vede completamente capovolti gli intenti 
                  della pubblica accusa. Come ebbe a scrivere Masini, “il 
                  processo divenne un clamoroso fatto di propaganda socialista 
                  con l’autodifesa di Francesco Natta (che qui riporto quasi 
                  integralmente nella coeva ricostruzione fatta dall’avv. 
                  Bottero). Dopo aver posto ai giurati inquietanti quesiti non 
                  sulla propria innocenza o colpevolezza ma sulle condizioni degli 
                  operai italiani disoccupati, sfruttati, privi di assistenza, 
                  di mezzi di vita e dei più elementari diritti” 
                  il meccanico Natta (a cui dedico questo ritratto) “costringeva” 
                  la Corte ad assolvere non solo i singoli imputati ingiustamente 
                  accusati, ma pure la stessa Internazionale. A dimostrazione 
                  che, in quegli anni, o la borghesia non aveva compreso il pericolo 
                  che poteva derivare dalla diffusione delle idee libertarie e 
                  socialiste, o le strutture del nuovo stato non erano ancora 
                  adeguate alle mutate esigenze di controllo e repressione.
 
                  
                    |  |   Sono molti i pregi di questo lavoro: una innamorata ricostruzione 
                  della Firenze dei borghi e delle piccole vie che oggi non c’è 
                  più, un affresco storico derivante da robuste letture, 
                  tanto attento e particolareggiato da rischiare, addirittura, 
                  di diventare invadente, una felice capacità di ricostruire 
                  non solo i fatti ma anche la mentalità e il sentire di 
                  quel piccolo mondo di popolani e artigiani che esprimevano, 
                  nella loro semplicità, la grandezza di una “cultura” 
                  altra e ostica alle banalizzazioni. Ma forse il suo pregio maggiore 
                  sta proprio nell’avere colto questo aspetto così 
                  peculiare delle comunità proletarie del passato, ossia 
                  la loro capacità di creare una rete di relazioni nella 
                  quale ogni individuo era anche la parte di un tutto, per cui 
                  l’impegno sociale non era soltanto un “dovere” 
                  sentito dalla parte più sensibile e generosa del proletariato, 
                  ma un patrimonio comune del borgo o del quartiere. Era su queste 
                  premesse che si innestavano le idee di libertà e le conseguenti 
                  forme organizzative contro l’oppressione e lo sfruttamento, 
                  era da queste premesse che nasceva, insopprimibile e meraviglioso, 
                  il loro sogno d’amore.   Massimo Ortalli
  
                    La camicia rossadi Elio Conti
 Nel contado fiorentino la propaganda era stata iniziata fin 
                  dal 1872 ad opera del Fascio Operaio. L’anno seguente 
                  la “Sezione di propaganda internazionale fra i contadini” 
                  diffondeva diversi manifesti diretti ai “Fratelli della 
                  Campagna”. Ma nell’indifferenza e nell’insensibilità 
                  politica dei mezzadri le idee socialiste incontrarono un ostacolo 
                  insuperabile. Maggiore fortuna incontrarono invece fra i braccianti 
                  e gli artigiani dei piccoli centri che, come abbiamo visto, 
                  costituivano una categoria miserabile ed irrequieta. Sezioni 
                  dell’Internazionale si costituirono ben presto a Ponte 
                  a Rifredi, a Ponte a Ema, a Sesto Fiorentino, a Rignano, a Prato, 
                  a Fiesole. Il paese in cui la propaganda internazionalista assunse 
                  proporzioni maggiori fu quello di Pontassieve, la cui Sezione 
                  partecipò anche al Congresso regionale di Pisa del dicembre 
                  1874. Nei piccoli centri, dove non esistevano gruppi compatti di operai 
                  e dove le idee politiche, inserendosi nelle lotte e nelle passioni 
                  locali, subivano necessariamente una deformazione, l’Internazionalismo 
                  assumeva una fisionomia particolare, paesana, per i pochi affiliati, 
                  generalmente reclutati fra gli elementi più irrequieti, 
                  le idee anarchiche costituivano uno stimolo alle più 
                  strambe ed ingenue manifestazioni, come alle più audaci 
                  ribalderie. I signorotti locali e le autorità avevano 
                  interesse naturalmente a generalizzare questi episodi. Il delegato 
                  di Pontassieve, tratteggiando, in un rapporto al questore, le 
                  figure dei più noti internazionalisti del paese, si sforzava 
                  di dipingerli come la peggiore e più pericolosa canaglia. 
                  Un tintore veniva descritto come individuo “dedito al 
                  vino e al gioco” già condannato per “ingiurie 
                  e lesioni” e con “poca voglia di occuparsi della 
                  sua professione”; un calzolaio, anch’esso condannato 
                  per lesioni, era “dedito alle risse ed ai clamori notturni”, 
                  un suo collega, che sapeva “appena leggere e scrivere”, 
                  mostrava “pochissima voglia di lavorare essendo molto 
                  dedito al gioco”; “al vizio del vino” pare 
                  fosse dedito invece un cappellaio che “fa il sapiente 
                  mentre non ha alcuna istruzione”; anche ad un contadino 
                  piaceva “fare l’uomo sapiente ma – si affrettava 
                  ad aggiungere il delegato – è di un’ignoranza 
                  la più crassa”, e “legge i giornali solo 
                  per chiacchierare”; un muratore era stato condannato per 
                  frode, mentre un suo compagno pare avesse la debolezza di indossare 
                  “per pompa nei giorni festivi la camicia rossa”.
   Il pianodi Elio Conti
 Nel frattempo si diffondevano in città voci allarmistiche 
                  sull’arrivo di una banda romagnola nel Mugello: truppe 
                  furono inviate dalle autorità a Borgo S. Lorenzo, Scarperia, 
                  Marradi e numerose perlustrazioni vennero eseguite sui monti 
                  dell’Appennino, ma delle “bande armate di tutto 
                  punto” nessuna traccia. Il giorno 12 il Natta spedì dall’Emilia la parola 
                  d’ordine per l’inizio dell’insurrezione. Immediatamente 
                  il Grassi ed il Lovari, componenti il Comitato rivoluzionario, 
                  riunirono alcuni degli affiliati fuori la Porta a Prato, decidendo 
                  di iniziare la sommossa alle ore 21 dello stesso giorno.
 Il piano degli internazionalisti sembra fosse il seguente: al 
                  segnale dato da un incendio provocato in un punto della città, 
                  mentre il grosso degli internazionalisti si sarebbe riversato 
                  nelle vie dei quartieri popolari per chiamare a raccolta gli 
                  operai ed organizzarli, una banda armata avrebbe preso la via 
                  di S. Casciano per impadronirsi dei fucili della guardia nazionale 
                  depositati in quel comune; quindi, ingrossata da nuovi elementi, 
                  si sarebbe data alla campagna per richiamare le truppe di presidio 
                  in Firenze e distrarre l’attenzione delle autorità. 
                  Allo stesso modo una banda armata si sarebbe formata in Pontassieve 
                  per dirigersi a Firenze, interrompendo lungo la via le comunicazioni 
                  telegrafiche e ferroviarie. In città gli insorti, organizzati 
                  per squadre in ogni quartiere, avrebbero dato l’assalto 
                  alle carceri per liberare tutti i detenuti, poi avrebbero attaccato, 
                  col getto di materie incendiarie e al grido di “fuoco!”, 
                  il Palazzo Vecchio, la prefettura, la questura, il gazometro 
                  e le botteghe degli orefici sul Ponte Vecchio.
 Brani tratti da: Elio Conti, Le origini del socialismo 
                  a Firenze, Rinascita, 1950.  Uguaglianza assurdadi Alessandro Bottero
 (Stralcio della requisitoria del Pubblico Ministero, N.d.R.). 
                  Ora l’Internazionale prendendo il progresso a regresso 
                  sopprime ogni libertà e proprietà individuale 
                  per sostituirvi l’immane dispotismo collettivo ed in nome 
                  d’un’uguaglianza assurda ed impossibile vuol parificare 
                  il ricco al povero, l’abile all’inetto, il forte 
                  al debole; il previdente al negligente, il probo al vizioso 
                  disconoscendo che la maggiore o minore attività nel lavoro 
                  è sorgente d’ineguaglianza, e che tale ineguaglianza 
                  materiale è pegno di uguaglianza morale, conseguenza 
                  del principio che ogni uomo deve essere retribuito a seconda 
                  dell’opera sua e di quanto ha meritato.
 Nell’ordine civile e giuridico si vuole l’emancipazione 
                  assoluta della donna, l’abolizione del matrimonio la trasformazione 
                  della famiglia e la distruzione in una parola di tutte quelle 
                  istituzioni che sanzionate dalla legge, rappresentano perciò 
                  il privilegio, e son quindi chiamate borghesi come 
                  Borghesia l’insieme delle classi che di quelle 
                  partecipano.
 Avete udito la lettura dei documenti che si riferiscono alla 
                  costituzione delle Sezioni di donne nell’Internazionale 
                  italiana,– ivi sono scritte le nuove teorie sull’emancipazione 
                  della donna.
 Il Costa ed i pubblicisti della Lega così le riassumono: 
                  “povera, abbietta, avvilita, condannata ad un lavoro insopportabile, 
                  esposta, ai capricci brutali dell’uomo, la donna deve 
                  scuotere il giogo secolare che la opprime per sollevarsi a libertà, 
                  deve insorgere a domandare i suoi diritti, schierarsi con i 
                  proletari onde combattere il privilegio e l’autorità, 
                  deve alzare la fronte ed affermarsi, gridarsi non più 
                  la soggetta ma la uguale dell'uomo, essa destinata a formare 
                  la famiglia avvenire antitesi completa dell’attuale la 
                  quale non è ché schiavitù e tirannia”.
 La famiglia nuova infatti deve poggiarsi sulle basi della libertà 
                  e dell’amore, quindi eliminazione del vincolo indissolubile 
                  e legittimità del divorzio. Il libero amore senza legali 
                  formalità è l’espressione semplice di una 
                  legge immutabile di natura; quando l’uomo e la donna non 
                  si amano il matrimonio è sciolto di fatto e nelle unioni 
                  e nelle divisioni non possono né debbono entrare, per 
                  i dettami di natura, calcoli egoisti, contratti notarili, benedizioni 
                  di preti, articoli di codice civile e simili forme.
 Il matrimonio attuale è la tomba dell’amore, è 
                  la fonte dell'autorità maritale e paterna; il matrimonio 
                  avvenire sarà quello dell’amore libero solo interprete 
                  dei veri bisogni naturali non profanabile da alcun esercizio 
                  di autorità.
 Queste teorie, o Signori, basta esporle per giudicarle ed io 
                  volentieri passo oltre.
 Vittima del Capitalismodi Alessandro Bottero
 (Stralci dell’autodifesa di Francesco Natta, N.d.R.). 
                  Voi o signori Giurati vi trovate di fronte un onesto operaio 
                  accusato di cospirazione, contro lo Stato, per il solo fatto 
                  di appartenere all’Internazionale.
 Qualunque possa essere il Programma di detta Società, 
                  io non prenderò a svolgerlo perché superiore assai 
                  alle mie forze.
 Solo mi limiterò a parlarvi di quella parte materiale 
                  del programma che più da vicino mi riguarda come operaio, 
                  e per il quale ho preso una parte attiva.
 Le ingiustizie e le sofferenze di cui l’operaio è 
                  continuamente vittima del Capitalista e del monopolio, senza 
                  trovar altro che vane promesse, o non curanza ai suoi giusti 
                  reclami, giustificano pienamente l’esistenza di quest’Associazione 
                  la quale ha per scopo immediato la organizzazione del Lavoro.
 (…).
 Dunque o signori Giurati dietro a questi eloquenti fatti, in 
                  Italia si deve conchiudere, che l’operaio legalmente non 
                  puol che piangere le sue miserie in seno alla famiglia, soffocando 
                  però quei gemiti, affinché non venghino sentiti 
                  in pubblico, correndo il pericolo di essere cambiati come voci 
                  sediziose, e come tali condannati.
 Conchiudo adunqe col dire che l’Internazionale in Italia, 
                  si presenta sotto un aspetto assai diverso a considerarsi da 
                  quello del Pubblico Ministero.
 (…).
 Ora, o signori Giurati, se considerando questi fatti e come 
                  liberi cittadini, e di una classe agiata della società, 
                  di fronte a una moltitudine affamata di operai privi di lavoro, 
                  con dei vecchi impotenti e dei pargoli macilenti fra le braccia 
                  delle loro madri squallide e smunte dalla miseria, che sorgono 
                  spinti non dai raggiri di un partito, ma da una causa assai 
                  più potente, cioè la miseria; sorgono dico, a 
                  tumultuare contro chi potendo non prende rimedio, e che invece 
                  di provvedervi, immaginano una cospirazione impossibile; se 
                  credete che questi infelici ma onesti operai, che chiedono pane 
                  e lavoro, siano degni di casa di forza, allora non mi rimane 
                  altro che subire con calma la mia sorte, convinto che non ho 
                  nulla a rimproverarmi.
 Ma se invece, nella vostra coscienza ha potuto penetrare quel 
                  grido straziante, che con le mie deboli forze ho cercato richiamarvi 
                  alla mente, oh allora non dubito di trovare in voi un atto di 
                  giustizia, e per me sarà un giorno di gioia abbracciando 
                  i miei figli, poter dire: Non tutti i borghesi sono insensibili!
 Brani tratti da: Alessandro Bottero, Dibattimenti nel processo 
                  per cospirazione e internazionalismo, Capaccini, 1875. 
                   «Gliela facciamo in barba»di Angelo Toninelli
 Le gallerie dell’Appennino e le ripide scarpate su cui 
                  correvano le rotaie gli facevano trattenere il fiato. Rimase 
                  per tutto il viaggio inchiodato al finestrino, poco curandosi 
                  dei sorrisi degli altri viaggiatori. “È la prima 
                  volta”, si scusò, girandosi, per tornare subito 
                  con gli occhi al vetro, oltre il quale scivolavano via boschi, 
                  burroni, torrenti incassati tra le rocce e il buio improvviso 
                  delle gallerie, che lo faceva sobbalzare, con il fischio della 
                  vaporiera che assordava. Bologna gli apparve in basso, dopo 
                  una lenta curva, con i palazzi, le chiese, le case tutte di 
                  rossi mattoni e un velo di nebbia sopra i tetti. Gli fu facile trovare Giovanni, che lo condusse fuori della 
                  stazione attraverso la folla che sostava nella sala. “Vieni 
                  dietro, ma a una certa distanza,”, gli disse sottovoce.
 Si incamminarono svelti verso un caffè sotto il portico, 
                  al di la della piazza.
 “Aspettami qui”.
 Giovanni entrò nel caffè e poco dopo uscì 
                  insieme a due uomini.
 “Vi mando subito chi vi accompagna”, e si allontanò 
                  diretto alla stazione.
 “E te di dove vieni?”, chiese ad Andrea uno dei 
                  due, un meridionale alla parlata.
 “Da Firenze”.
 “Io dalla Puglia”, e gli diede la mano, “e 
                  l’amico da Palermo”.
 Si avvicinò un ragazzo, che fece un cenno con la testa 
                  perché lo seguissero.
 Proseguirono per un tratto sotto il portico, poi attraversarono 
                  la strada ed entrarono in un vicolo.
 “È pieno di sbirri intorno”, disse il ragazzo 
                  con aria allegra, “ma noi gliela facciamo in barba”.
 Passarono da una stradetta all’altra, poi in un orto, 
                  in una casa, uscendo da una porticina che una donna aprì 
                  dopo aver guardato fuori. Nessuno disse una parola.
 Giunti in uno spiazzo sterrato, il ragazzo fece cenno di fermarsi, 
                  attraversò di corsa e sparì dietro un cancello, 
                  per riapparire dopo poco.
 “Venite”.
 Oltre il cancello, da un capannone di mattoni con le alte finestre 
                  protette da grate di ferro arrivava la voce di uno che parlava, 
                  sommersa tratti da un brusio. I due uomini presentarono dei 
                  fogli a qualcun dietro la porta; Andrea tirò fuori la 
                  lettera di Francesco e la consegnò a uno che la lesse, 
                  lo squadrò con aria severa e si fece da parte per farlo 
                  entrare.
 Dentro il capannone, molti uomini se ne stavano seduti su panche 
                  allineate di fronte a un tavolino, intorno al quale Andrea riconobbe 
                  Cafiero e Costa; altri erano in piedi, appoggiati alle pareti. 
                  Un uomo, il presidente del congresso Zanardelli, come seppe 
                  poi, in piedi dietro il tavolo, gesticolava e parlava ad alta 
                  voce, ma Andrea non riusciva ad afferrare che qualche parola. 
                  Cercò di farsi largo e avanzare, quando sentì 
                  una mano posarsi sulla spalla.
 Era Gaetano.
   Stroncare la propagandadi Angelo Toninelli
 Ad Andrea non era mai capitato di fare un’esposizione 
                  filata degli argomenti, come si era preparato, ma era meglio 
                  così: anche in quel modo, con continue interruzioni, 
                  riusciva a dire le cose essenziali, che bisognava ribadire di 
                  continuo. Punto primo, senza il quale era inutile qualsiasi 
                  altro ragionamento, l’uguaglianza e la libertà 
                  di tutti gli uomini, e quest’ultima intesa come rispetto 
                  della libertà degli altri; poi, di conseguenza, il diritto 
                  e dovere per tutti di lavorare, di non sfruttare e non essere 
                  struttati, quindi la fine di ogni privilegio; infine il rifiuto 
                  di affidare ad altri la propria vita. “Dici bene”, era questa l’obiezione che i 
                  più facevano: “Ma per venire al sodo, cosa proporresti 
                  di fare?”
 La risposta era sempre la stessa:
 “Se siamo d’accordo su quanto s’è detto, 
                  il da farsi dobbiamo deciderlo insieme, perché poi tutti 
                  ci si deve impegnare a che le cose marcino come s’è 
                  deciso”.
 Ci teneva a mettere in chiaro le carte. La differenza tra l’anarchia 
                  dell’Internazionale e la politica dei borghesi, si chiamassero 
                  di destra e di sinistra, monarchici o repubblicani, consisteva 
                  in questo, che i politici pretendevano di imporre a tutti cosa 
                  fare per il bene generale – che solo loro conoscevano 
                  – e chiedevano al popolo di affidarsi a loro; l’anarchia 
                  invece significava l’impegno di tutti ad associarsi insieme 
                  nel lavoro, collaborando a soddisfare i bisogni di tutti. Era 
                  complicato? Certo. Si trattava di trasformare la società 
                  con regole semplici e giuste: nessuno poteva oziosamente campare 
                  sulle spalle degli altri e l’istruzione avrebbe consentito 
                  di sviluppare, nel lavoro, le inclinazioni e le capacità 
                  di ognuno. Lui, Andrea, avrebbe continuato a fare il falegname, 
                  mestiere che gli piaceva fare, e loro, lavoratori della terra, 
                  avrebbero prodotto i beni che sapevano produrre, ottenendo in 
                  cambio dagli altri il necessario per vivere. Se la storia degli 
                  uomini aveva partorito una società come quella in cui 
                  vivevano, che perpetuava la disuguaglianza e l’ingiustizia, 
                  gli anarchici non dovevano indietreggiare di fronte alla difficoltà 
                  di costruire un modo di vivere completamente diverso. Anzi, 
                  dovevano andar fieri del loro programma, l’umanità 
                  avrebbe incominciato un nuovo cammino: bisognava estirpare nell’uomo 
                  l’egoismo e la violenza e coltivare la fratellanza, la 
                  solidarietà.
 “Noi lavoratori però si deve capire prima di tutto 
                  che nessuno ha interesse a liberarci dalle catene che ci tengono 
                  schiavi. L’emancipazione, lo dice lo statuto dell’Internazionale, 
                  non può essere che opera nostra”.
 Ed ecco sempre l’altra domanda:
 “E chi comanda oggi, se n’andrà zitto e buono?”
 “Noi si cerca di diffondere le nostre idee, pacificamente, 
                  discutendo come si fa oggi. Quando i lavoratori, che sono la 
                  maggioranza del paese, vorranno realizzare il nostro programma, 
                  vedremo cosa faranno i padroni e ci si comporterà di 
                  conseguenza. Il governo e la polizia non perdono occasione per 
                  tapparci la bocca. L’hanno fatto a Firenze, chiudendo 
                  il Fascio, e a Bologna, dove volevano impedire il nostro congresso. 
                  Se tanto mi dà tanto, non se ne andranno con le buone. 
                  Allora, o ci si rassegna a rimanere sempre dei sottomessi o 
                  bisognerà lottare. A Parigi, due anni fa, il popolo s’è 
                  ribellato e ha dato del filo da torcere ai governanti borghesi. 
                  C’è stata una carneficina, molti rivoluzionari 
                  sono stati condannati all’ergastolo, ai lavori forzati, 
                  fucilati; molti sono scappati, ma le idee della Comune continuano 
                  a vivere e sono le nostre”.
 I carabinieri erano stati avvisati di queste riunioni e avevano 
                  informato le autorità cittadine che le idee sovversive 
                  erano portate nei paesi dai contadini più intelligenti 
                  e malcontenti che, andati al mercato, la sera tornavano a casa, 
                  si intrattenevano in discussioni nei ritrovi e la domenica invitavano 
                  gente dalla città. In questura erano anche giunte le 
                  lamentele dei proprietari che desideravano qualche atto energico 
                  da parte dell’autorità per stroncare la propaganda 
                  degli internazionalisti, dato che le ordinarie perlustrazioni 
                  dei carabinieri servivano a poco. Le loro pattuglie giravano 
                  per i casolari o arrivavano all’improvviso nelle osterie: 
                  anche se un silenzio ostile le accoglieva, il brigadiere, guardandosi 
                  intorno, rivolgeva la domanda:
 “Allora, si gioca o si discute di politica?”
 “Si fa questo e quello tanto per passare il tempo”.
 “Già è vagabondo 
                  di suo”
 di Angelo Toninelli
  Avevano avuto fortuna, la giornata era tiepida, le siepi odorose 
                  dei biancospini costeggiavano la strada, i campi coltivati parevano 
                  morbidi tappeti verdi e sospese nella luce brillavano argentee 
                  le foglie degli ulivi. Franco, seduto a cassetta, spronava con 
                  schiocchi di frusta il Biondo che, appena la strada prendeva 
                  a salire, rallentava svogliato. Andrea, con Gabriella in braccio, 
                  sceso dal barroccio, camminava a fianco del cavallo; la piccola 
                  si sporgeva per toccarlo. “Povero cavallino, è vecchio, non ce la fa più. 
                  Fagli una carezza”, diceva Andrea.
 Anche Francesca e Giulia, impietosite, protestavano per le frustate 
                  che Franco minacciava sui fianchi della bestia; gli chiedevano 
                  di fermarsi, preferivano scendere.
 “Guai a te se lo tocchi”, gridava Giulia.
 “Brave, dategli spago, così il furbo ne approfitta. 
                  Già è vagabondo di suo”, replicava Franco, 
                  agitando in alto la frusta.
 La casa non doveva essere lontana, si sentivano le voci venire 
                  dall’alto. Giulia e Francesca avevano accettato volentieri 
                  quella gita fuori città, poi il dubbio che di donne ci 
                  fossero solo loro due aveva smorzato il primo entusiasmo. Si 
                  erano rinfrancate solo quando, ormai in vista della casa, avevano 
                  incontrato un gruppo di donne anche loro dirette alla festa.
 In un angolo dell’aia, sopra un tavolo i bicchieri erano 
                  pieni di vino rosso: gli uomini si avvicinavano, bevevano e 
                  a turno qualcuno si curava di riempire di nuovo i bicchieri 
                  vuoti, dopo averli sciacquati in un secchio d’acqua. Chi 
                  voleva fare uno spuntino entrava in cucina. In un foglio appoggiato 
                  su una sedia era scritta la somma spesa per vino, pane, prosciutto 
                  e formaggi: l’offerta era libera, ma la spesa bisognava 
                  coprirla e le lire in più andavano alla sottoscrizione 
                  per Cipriani, quindi tutti erano invitati alla generosità.
 Andrea conosceva molti dei presenti; via via arrivavano anche 
                  altri compagni, una stretta di mano, poi andavano a sedersi 
                  sui muretti intorno e nei campi. Le donne se ne stavano tra 
                  loro in disparte e Gabriella passava in braccio dall’una 
                  all’altra vezzeggiata e allegra.
 Gaetano aveva portato la bandiera rossa e nera della Federazione 
                  e Poggi l’aveva appesa in alto a una finestra. Non c’era 
                  pericolo che i carabinieri si facessero vedere.
 A un gruppo che lo circondava Francesco raccontava dei suoi 
                  viaggi a Ravenna, a Imola, a Bologna e in varie parti della 
                  Toscana: gli era stato affidato l’incarico di organizzare 
                  i compagni più fidati e decisi, pronti ad agire se le 
                  cose fossero andate in un certo modo; i risultati fino allora 
                  raggiunti davano bene a sperare, ovunque aveva trovato entusiasmo. 
                  Aveva incontrato anche Cafiero e Bakunin in Svizzera, alla Baronata. 
                  L’impressione che gli aveva fatto il russo? Era un uomo 
                  pieno di energia nonostante l’età e gli acciacchi; 
                  conosceva le vicende e gli uomini tutti dell’Associazione, 
                  era informato della situazione di ogni paese, delle lotte politiche 
                  e delle prospettive che si aprivano in ogni parte del mondo; 
                  discutere con lui era un’esperienza che tutti i compagni 
                  dovevano augurarsi di fare. Costa teneva i contatti con i responsabili 
                  dell’Internazionale a Bruxelles e si era recato là 
                  più volte per metterli al corrente dell’organizzazione 
                  che si stava preparando in Italia, dei mezzi predisposti. Francesco 
                  non poteva dire di più. A un gruppo ristretto di compagni 
                  aveva poi detto che quelli di Bruxelles si erano raccomandati 
                  di agire con prudenza, di muoversi solo a condizione di essere 
                  certi che la situazione fosse favorevole per un colpo di mano. 
                  Bisognava evitare che in Italia, come era accaduto in Spagna, 
                  si andasse incontro a un fallimento, che avrebbe gettato il 
                  discredito su tutta l’Associazione. Le notizie che arrivavano 
                  da Malatesta, dal sud, erano confortanti: laggiù molti 
                  garibaldini, anche tra i più influenti, si dichiaravano 
                  disposti ad agire insieme agli internazionalisti.
 Gaetano chiese il silenzio e l’attenzione di tutti; col 
                  braccio faceva cenno ai più lontani di avvicinarsi, doveva 
                  comunicare una cosa importante.
 “Finalmente anche Firenze ha la sua sezione femminile. 
                  In San Frediano alcune lavoranti della manifattura dei tabacchi 
                  hanno deciso di costituire una sezione dell’Internazionale 
                  e nel giro di pochi giorni sono arrivate a più di quindici. 
                  Tra noi c’è Luisa Pezzi”, Gaetano la indicò 
                  seduta insieme alle altre donne e la invitò a farsi avanti: 
                  “È arrivata a Firenze da poco ma si è subito 
                  rimboccata le maniche col bel risultato che ho detto. Propongo 
                  un brindisi a lei e alle compagne”.
 Ci fu un applauso e Luisa, preso dal tavolo un bicchiere di 
                  vino, lo tenne in alto e poi lo bevve tutto d’un fiato. 
                  Era rossa in volto, forse per l’emozione.
 “Bisognerebbe cantare la marsigliese”, gridò 
                  Gaetano.
 “La marsigliese? Cos’è?”, domandò 
                  il vicino ad Andrea.
 “L’inno dei rivoluzionari di Parigi”, rispose 
                  Andrea.
 Al suo sguardo interrogativo aggiunse: “Una canzone”.
 “Non si conosce”, dicevano da più parti.
 Uno accennò il motivo, ma non andò oltre l’“Allons 
                  enfants de la patrie”.
 “Siamo tutti stonati, è meglio starsene cheti”.
 La festa continuò tutto il pomeriggio. Qualcuno se ne 
                  andava via salutando con una voce, qualche nuovo arrivato stringeva 
                  la mano a Poggi, rimaneva a guardarsi intorno e poi si muoveva 
                  in giro rinfrancato. Sparpagliati nei campi intorno casa, lungo 
                  le prode, sotto gli ulivi, ma attenti a non calpestare i seminati, 
                  si formavano e si scioglievano i gruppi, parlavano della stagione, 
                  del lavoro, della famiglia, di come andava la vita lì 
                  intorno, nel paese, in città. Giulia e Francesca, incuriosite, 
                  si erano avvicinate a Luisa: avevano mille domande da farle. 
                  Gabriella, seduta sopra una coperta che la moglie di Poggi aveva 
                  portato perché l’umido non le facesse male, giocava 
                  con le margherite, i tromboni, le violette che Andrea aveva 
                  raccolto per lei.
 Brani tratti da: Angelo Toninelli, Un sogno d’amore, 
                  ETS, 2003.  |