| L’articolo 
                  di Andrea Papi pone, a mio avviso, diverse questioni che 
                  meritano alcuni approfondimenti. Andrea Papi, sembra ritenere che il processo di inquadramento 
                  del movimento operaio in strutture sindacali burocratiche ed 
                  autoritarie che ha caratterizzato il secolo scorso derivi principalmente 
                  dall’influenza del marxismo leninismo nella sinistra politica 
                  e sindacale.
 Sarebbe, insomma, la dottrina leninista del monopolio della 
                  coscienza di classe da parte di un partito “rivoluzionario” 
                  e della natura necessariamente limitata (tradeunionista per 
                  usare il termine al quale ricorreva Lenin) delle organizzazioni 
                  economiche dei lavoratori la causa di un processo che, a mio 
                  avviso, ha delle ragioni di carattere notevolmente più 
                  complesso.
 Proviamo, di conseguenza, a sottoporre questa tesi ad una verifica 
                  empirica.
 In primo luogo dobbiamo domandarci se il movimento sindacale 
                  realmente esistente nel XX secolo è stato effettivamente 
                  egemonizzato da partiti leninisti.
 Se escludiamo i sindacati del blocco sovietico, cinghia di trasmissione 
                  dello stato e segmento dell’apparato dello stato-partito, 
                  l’egemonia dei partiti comunisti sui sindacati non appare, 
                  per la verità, affatto così salda. Basta pensare, 
                  per fare solo alcuni esempi, ai sindacati dell’Europa 
                  centro settentrionale ed a quelli statunitensi per trovarci 
                  di fronte ad una situazione assolutamente diversa rispetto al 
                  modello propostoci.
 In Germania, Olanda, Belgio e nei paesi scandinavi il movimento 
                  operaio è stato saldamente egemonizzato dai partiti socialdemocratici 
                  ed i sindacati, se si escludono minoranze radicali, hanno mantenuto 
                  un orientamento moderato, concertativo e riformista che non 
                  ha nulla a che vedere con la visione bolscevica del rapporto 
                  fra sindacato e partito e, soprattutto, della natura del conflitto 
                  fra le classi.
  Tradizione socialdemocratica
 In realtà, a ben vedere, il modello leninista di lettura 
                  del ruolo del partito di classe e dei sindacati deriva dalla 
                  tradizione socialdemocratica tedesca, basta pensare al classico 
                  “Le tre fonti del marxismo” di Kautski ma ne deriva 
                  come un figlio, cresciuto in un ambiente profondamente diverso 
                  rispetto a quello del padre, deriva, appunto, dal padre. Restando alla metafora familiare, se la socialdemocrazia tedesca 
                  è il padre – autorevole ma lontano – ed il 
                  riferimento ideale (si pensi all’acuto testo di Jean Barrot 
                  “Il rinnegato Kautski ed il suo discepolo Lenin”), 
                  la madre – vicina ed influente – è la storia 
                  russa, il dispotismo zarista, la necessità dell’azione 
                  illegale, la mancanza di organizzazioni operaie sviluppate e 
                  strutturate, l’inesistenza di uno spazio politico legale, 
                  l’influenza di una tradizione come quella populista.
 Salvo che non si accetti la suggestiva ma storicamente infondata 
                  definizione bordighiana del bolscevismo come pianta di ogni 
                  clima, dobbiamo assumere che il modello bolscevico è 
                  assolutamente incomprensibile se lo scindiamo dalla natura particolare 
                  e specifica della Russia e del movimento storico delle rivoluzioni 
                  anticoloniali dirette da élite intellettuali che si appoggiavano 
                  non sul movimento operaio, debolissimo nel contesto in cui agivano, 
                  ma su masse rurali o di recente inurbamento.
 Nei fatti, il comunismo storico novecentesco ha avuto un’influenza 
                  assai limitata sul movimento operaio dell’area sviluppata 
                  economicamente del pianeta e questo dato pone, a mio avviso, 
                  dei problemi interessanti anche per noi.
 Tornando al modello sindacale dominante, in Gran Bretagna le 
                  Trade Unions hanno costruito un rapporto diverso rispetto a 
                  quello di tipo tedesco con la socialdemocrazia, un rapporto 
                  che si è rotto solo recentemente con l’affermarsi 
                  del new labour di Tony Blair. Nel caso inglese, infatti, il 
                  partito parlamentare di riferimento non solo non aveva un ruolo 
                  direttivo rispetto ai sindacati ma, casomai, si caratterizzava 
                  per l’accettazione dell’egemonia dell’apparato 
                  sindacale sul partito stesso.
 Dunque, nella stessa area di tradizionale insediamento della 
                  socialdemocrazia ci troviamo di fronte a due modelli, per certi 
                  versi opposti, di relazione fra partito e sindacato.
 Una lettura più approfondita di questo rapporto permette, 
                  d’altro canto, di cogliere uno scarto notevolissimo fra 
                  modelli e realtà effettuale.
 Nella socialdemocrazia tedesca, ed in quelle affini, infatti, 
                  emerge, sin dall’inizio del XX secolo, una netta differenziazione 
                  fra “dottrinari” e “pratici”. Col termine 
                  “pratici” erano definiti quei militanti, organizzatori, 
                  funzionari che reggevano le strutture forti e stabili del movimento 
                  operaio (sindacati, cooperative, rappresentanze nelle assemblee 
                  elettive ecc.), l’apparato in una parola. È assolutamente 
                  evidente che i pratici avevano (ed hanno) un interesse straordinariamente 
                  limitato per questioni come la natura del capitalismo, le prospettive 
                  rivoluzionarie, l’imperialismo et similia e si occupavano, 
                  e si occupano, di iscrizioni, trattative, accordi e questioni 
                  simili.
 Questo mondo non produceva, né produce, un dibattito 
                  teorico significativo ma ha un potere straordinario. Basta pensare, 
                  per restare alla socialdemocrazia tedesca, all’eleganza 
                  del dibattito fra Rosa Luxemburg ed Eduard Bernstein ed al fatto 
                  che di questo dibattito l’apparato della socialdemocrazia, 
                  dei sindacati, delle cooperative si curava assai poco nel mentre 
                  portava il movimento operaio tedesco all’integrazione 
                  nello stato per comprendere i termini della questione alla quale 
                  ho, poveramente, fatto cenno.
  Primi attori dottrinari
 Si pone, a questo punto, il problema del perché i pratici 
                  abbiano a lungo accettato di consegnare un ruolo di primi attori 
                  ai dottrinari. Si possono dare diverse spiegazioni del fenomeno, io accennerò 
                  alle due che mi sembrano più convincenti.
 In primo luogo, soprattutto nella fase aurorale del movimento 
                  operaio, non nasce come tale ma si forma gradualmente e molti 
                  degli uomini che lo costituiscono hanno un passato sovversivo 
                  che non impedisce loro un graduale adattamento all’istituito 
                  ma che mantiene un peso. Basta, a questo proposito, pensare 
                  all’anarchico Rinaldo Rigola che giunge ai vertici della 
                  CGL e ne incarna l’anima più moderata per finire 
                  tristemente il suo percorso esistenziale nel tentativo di collaborare 
                  con lo stato fascista al fine di valorizzarne le spinte “sociali”.
 In secondo luogo i pratici guardano alla teoria, com’è 
                  ovvio, praticamente e si rendono perfettamente conto che al 
                  movimento operaio serve un discorso colto ed articolato ma serve 
                  solo come risorsa di carattere secondario al fine di conquistare 
                  consenso ed egemonia sociale. La pubblicazione di libri, l’organizzazione 
                  di convegni ecc., dal loro punto di vista, sono esterni alla 
                  concreta attività delle organizzazioni che dirigono ma 
                  sono di una qualche attività.
 La forma più radicale di un movimento sindacale di straordinaria 
                  importanza che non solo avita ma anzi combatte ogni forma di 
                  socialismo la troviamo negli Stati Uniti dove l’AFL (American 
                  Federation of Labor, N.d.R.), prima, ed il CIO 
                  (Congress of Industrial Organizations, N.d.R.), 
                  poi, si svilupperanno senza alcun partito guida ed opereranno 
                  come gruppi di pressione sui partiti tradizionali con una qualche 
                  preferenza per i democratici.
 Se quanto ho sinora scritto non è destituito di fondamento, 
                  mi pare evidente che la burocratizzazione e statalizzazione 
                  dei sindacati deriva da dinamiche endogene dei sindacati stessi 
                  e si afferma, secondo modalità legate ai contesti geografici 
                  e politici, in presenza o in assenza di partiti comunisti di 
                  peso significativo.
 Se delle spiegazioni di questa deriva vanno cercate credo sia 
                  opportuno porre l’accento sulla tendenza all’integrazione 
                  della working class nelle società economicamente sviluppate 
                  sulla base di uno scambio fra accrescimento della produttività 
                  del lavoro, aumenti retributivi ed estensione delle garanzie 
                  sociali, sulla specializzazione delle funzioni che caratterizza 
                  le società complesse, sulla burocratizzazione della vita 
                  quotidiana, sull’affermarsi di tecniche di manipolazione 
                  del consenso assolutamente più efficaci rispetto a quelle 
                  ottocentesche.
 Ma questo è un discorso parzialmente diverso rispetto 
                  alle riflessioni che la lettura dell’articolo di Andrea 
                  Papi mi ha indotto a formulare.
 L’egemonia, assai parziale, dei partiti comunisti sul 
                  movimento operaio riguarda, nel secondo dopoguerra, essenzialmente 
                  l’Italia e la Francia, due paesi di media rilevanza certamente 
                  non centrali nell’economia mondo.
  Influenzare, non farsi influenzare
 È, comunque, bene ricordare che anche in Francia ed 
                  in Italia esistono importanti sindacati di orientamento socialdemocratico, 
                  cattolico sociale ecc., e che, di conseguenza, vi sono culture 
                  sindacali che non hanno nulla a che spartire, almeno in senso 
                  stretto, con il leninismo. Vale la pena, a questo punto, di porsi la domanda se veramente, 
                  anche nell’Europa Latina, l’apparato sindacale abbia 
                  accettato di fungere da cinghia di trasmissione di un partito 
                  di cuoio e di acciaio. A mio avviso, almeno per quel che riguarda 
                  l’Italia, la cosa è vera solo assai parzialmente. 
                  In realtà, infatti, il potente apparato della CGIL era 
                  legato in maniera strettissima a quello del PCI ma aveva un 
                  potere proprio che sarebbe sbagliato sottovalutare. Per molti 
                  versi, i sindacalisti hanno teso a influenzare la politica dei 
                  partiti di sinistra più che a farsene condizionare ed 
                  ad influenzarla, di norma, in senso moderato per ragioni sin 
                  troppo note dalla necessità di salvaguardare ed allargare 
                  il proprio spazio di azione a quella di ottenere risultati immediati 
                  concreti necessari ad essere “credibili” nei confronti 
                  della propria base sociale.
 Persino nel blocco sovietico, ma questo è un altro discorso, 
                  l’apparato sindacale era un potente gruppo di pressione 
                  e il gestore diretto di un ampia parte della riproduzione sociale.
 Quanto Andrea Papi scrive meriterebbe, a mio avviso, ulteriori 
                  approfondimenti soprattutto per quanto riguarda la sua valutazione 
                  di categorie come quella di lotta di classe e quanto ritiene 
                  di affermare sulle prospettive del sindacalismo di base. Ritengo, 
                  però, che su quest’ordine di questioni vi sarà 
                  tempo e modo di tornare.
  Cosimo Scarinzi
  San Precario
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