|  Nel 
                    tempo e oltre, cantando
 Un libro e un cd, pubblicati a distanza breve, per far volgere 
                    le nostre antenne verso i marchigiani Gang, un nome breve 
                    di sole quattro lettere che descrive niente di meno che una 
                    delle più importanti bande rock del nostro paese. Importanza 
                    che, nel caso dei Gang ma diversamente dalle indicazioni del 
                    governo, è parola strettamente intrecciata ad altre 
                    parole che iniziano per “i” come “identità” 
                    ed “irriducibilità”. Nel raccontare dei Gang bisogna stare attenti a non farsi 
                    catturare il cuore. Bisogna stare attenti che le dita pigino 
                    i bottoni giusti della tastiera a comporre parole misurate, 
                    bisogna rincorrere le mani e tenerle al guinzaglio (sennò 
                    corrono a stringere la chitarra, e cominciano a mandare segnali 
                    pericolosi alla testa…).
 I due fratelli Marino e Sandro Severini li ho conosciuti una 
                    ventina d’anni fa a uno dei primissimi (forse proprio 
                    il primo) meeting delle etichette discografiche indipendenti 
                    a Firenze. A quel tempo, era ancora cosa traballante il giro 
                    delle indie italiane, tenuto in piedi da volontariato, incoscienza, 
                    illusioni e rassegnazione, sovvenzionato da piccoli risparmi 
                    personali e da molti piccoli stipendi provenienti da quei 
                    “lavori veri” da otto ore che pesavano non poco 
                    sulle spalle di chi nascondeva un vulcano di idee ben dentro 
                    una tuta, un grembiule o una divisa.
 Non c’erano telefonini, allora. Non c’erano personal 
                    computer né internet, né telecamere né 
                    MTV, né cd né masterizzatori. Quell’incontro 
                    fiorentino non era certo un mercato (di soldi dalle nostre 
                    parti ne giravano pochi: i demo erano cassette duplicate casalinghe 
                    e i “comunicati stampa” spesso fotocopie rubate) 
                    né tantomeno una vetrina: i piccoli indipendenti appena 
                    nati imparavano lì a scimmiottare le strategie e la 
                    disinvoltura delle sorelle maggiori, ma per noialtri cani 
                    sciolti di bello c’era la possibilità di incontrarsi 
                    di persona tra fanzinari e musicisti, stabilire collaborazioni 
                    e fare degli scambi. C’era la possibilità di 
                    sognare assieme, insomma, e praticamente gratis.
 Li ricordo, quei due, a girare con un pacco di copie del loro 
                    primo album “Tribes’ union”, un disco dai 
                    forti sapori Clash e dall’altrettanto forte impatto 
                    “popular”. I Gang erano diversi da grande parte 
                    di noi fauna instabile del raduno, soprattutto diversi dai 
                    fighetti effervescenti new wave ben pettinati e dai punks 
                    ricchi e viziati con addosso gli straccetti firmati e le spillette 
                    import, occupati tutti a tagliarsi le radici da sotto i piedi. 
                    Loro, di quelle radici proletarie ed operaie andavano fieri 
                    e ce le sbattevano sonoramente in faccia (anche a quelli come 
                    me, condannati a non poter scegliere, che a Marghera o Torino 
                    o Bagnoli ci stavamo scomodi e stretti e senza il coraggio 
                    di scappare) suonando bene un rock da combattimento, esplicitamente 
                    rosso ed infuocato come la prima linea, duro in un modo come 
                    qui da noi a quel tempo (dopo gli “anni di piombo”) 
                    non si osava.
 Me li ricordo, quei due: me li ricordo bene, inseguiti dalla 
                    muta di giornalisti e scribacchini alito di cane con la lingua 
                    che gli penzolava fuori. Gli stessi giornalisti che visitavano 
                    altezzosi e per dovere i nostri stand collettivi puzzolenti 
                    offrendoti un sorriso sottile e una stretta di mano molle. 
                    Gli stessi scribacchini che mendicavano dei promo da noi poveracci, 
                    e che ci ripagavano – forse, dipende – con due 
                    righe due.
 Mi ricordo la loro faccia: per Marino e Sandro, consapevoli 
                    di aver autoprodotto un tesoro, lì in mezzo a quegli 
                    “indipendenti” non c’era posto. Se ne accorsero 
                    subito, loro. Altri invece, tra cui il sottoscritto, poco 
                    più tardi, sorpresi al largo dal temporale delle prime 
                    mazzate.
 Tra quella mia vecchia fotografia di loro (che comunque tengo 
                    bella stretta come un ricordo caro) e questo cd “Nel 
                    tempo ed oltre, cantando” (realizzato in collaborazione 
                    con la Macina di Gastone Pietrucci, storico gruppo marchigiano 
                    di ricerca etnomusicale) ci stanno di mezzo vent’anni. 
                    È successo tutto e il contrario di tutto. È 
                    cambiato tutto, nel frattempo. Eppure, molte cose non sono 
                    affatto cambiate.
 
  In questi vent’anni i Gang hanno percorso una strada 
                    lunga, spesso tortuosa ed in salita nonostante le apparenze. 
                    Passati dopo appena qualche tempo a comporre i loro testi 
                    in italiano, negli anni Novanta i Gang hanno costruito un 
                    Canzoniere Popolare con le maiuscole, ispirato dalla nostra 
                    cronaca, storia e vita d’ogni giorno, fatto d’impegno, 
                    polemica (lo scorso anno sono stati addirittura accusati di 
                    vilipendio delle istituzioni per aver sfanculato i potenti 
                    tra una canzone e l’altra) e denuncia (il loro album 
                    “Storie d’Italia” è tuttora a rischio 
                    di sequestro per l’azione legale intrapresa da due politici 
                    siciliani citati in “Duecento giorni a Palermo”, 
                    una ballata dedicata alla memoria di Pio La Torre, il segretario 
                    regionale del PCI ammazzato dalla mafia). E così come i nostri giornali raccontano le storie 
                    di qui appena a una pagina di distanza da quelle accadute 
                    lontano, i due fratelli accostano Nanni Balestrini e Chico 
                    Mendes, Renato Curcio e Che Guevara in un unico grande abbraccio 
                    (in “Le radici e le ali”, 1991), rinnovandolo 
                    e moltiplicandolo in una catena umana multicolore nell’album 
                    successivo, ricco di ragazzi palestinesi rimasti orfani del 
                    leone, di operai del mattone e della chitarra, di pendolari 
                    in tangenziale verso il primo turno (“Storie d’Italia”, 
                    1993).
 È un viaggio a piedi dalla montagna al mare raccontato 
                    attraverso istantanee acide che intrappolano in una posa sguaiata 
                    gli idioti e i piazzisti de “La corte dei miracoli” 
                    (“Una volta per sempre”, 1995), o nel ritmo pesante 
                    del respiro mentre ci si riposa al fianco della strada, quando 
                    le solitudini finiscono per assomigliarsi tutte: quella dell’antifascista 
                    Iside Viana, emarginata dalle compagne di cella perché 
                    aveva chiesto, malata, la grazia a Mussolini, e l’ultimo 
                    gesto appoggiato alle mani di Ilaria Alpi (“Fuori dal 
                    controllo”, 1997).
 I Gang non hanno avuto vita facile, eppure sono riusciti a 
                    passare indenni – e con rinnovata rabbia – attraverso 
                    un itinerario accidentato e sofferto che li ha portati dall’autoproduzione 
                    ad un contratto discografico con una major finito male, e 
                    di nuovo all’autoproduzione: si potrebbe dire ad una 
                    nuova vita. Ecco dunque che il disco con la Macina, uscito 
                    da poco per Storiedinote, rappresenta un passaggio tra ieri 
                    ed oggi.
 Il progetto è semplice come il pane: i Gang suonano 
                    e cantano a modo loro alcuni brani tradizionali studiati dalla 
                    Macina, quelli della Macina suonano e cantano a modo loro 
                    alcune canzoni scritte dai Gang. Quel che ne viene fuori, 
                    però, è qualche cosa di più di uno scambio 
                    di repertorio: questo cd è un intreccio di canzoni 
                    spogliate di ogni etichetta e rese bellissime come in un miracolo, 
                    perché davvero non si capisce fino a che punto “Eurialo 
                    e Niso”, “La pianura dei sette fratelli”, 
                    “Sesto San Giovanni” siano canzoni dei Gang oppure 
                    un pezzo di Storia nostra, canti di lotta o partigiani reinterpretati.
 E alla fine si rimane lì, col fiato pesante a riposare 
                    all’angolo della strada, a riflettere sui nostri passi 
                    che calpestano chissà quante strade vecchie che somigliano 
                    a quelle calpestate dai nostri padri (con cui non abbiamo 
                    mai parlato abbastanza), con la speranza accesa dentro di 
                    riuscire a spingerci più in là, in un posto 
                    nostro tutto nuovo da condividere, terra nuova da mostrare 
                    ai vecchi e ai bambini.
 Marino e Sandro si raccontano, senza accendersi candele davanti, 
                    dentro a un libro che di nome fa “Banditi senza tempo” 
                    (ed. Selene, la stessa che ha pubblicato il libro su Léo 
                    Ferré “L’arte della rivolta” e diffuso 
                    la traduzione italiana del dossier dell’FBI su John 
                    Lennon) perché a un certo punto lo spazio fatto dei 
                    tre-quattro minuti di una canzone non basta più. Perché 
                    dietro e dentro a quelle “Sesto San Giovanni”, 
                    “Colpevole di ghetto”, “Il paradiso non 
                    ha confini” e tutte le altre canzoni che conosciamo 
                    sui dischi ci sono delle persone, degli incontri, delle vite 
                    vere che vanno avanti. Il libro serve a ritornare su luoghi 
                    e storie, a raccontare meglio, a suggerire vicinanze e a scavare 
                    trincee, a spremere qualche lacrima e a stringere i pugni. 
                    Perché basta un po’ di vino, un po’ di 
                    pane, una chitarra e un ricordo che incendi il cuore per fare 
                    festa.
 Ben ritrovati, compagni. Dateci presto altre canzoni per spegnere 
                    questa sete, e che le nostre strade e i nostri bicchieri si 
                    incontrino ancora.
 Libro e cd sono entrambi edizioni indipendenti, ma che hanno 
                    una discreta distribuzione commerciale. Per saperne di più 
                    consiglio un viaggio in rete sul website ufficiale dei Gang 
                    www.the-gang.it 
                    e sui numerosi siti tenuti in piedi da altrettanto numerosi 
                    fans, nonché sul website di Selene all’indirizzo 
                    www.edizioniselene.it 
                    e su quello di Storiedinote www.storiedinote.com.
   Marco Pandin   
                     
                      | Musica 
                          a cui voler bene
 Questa 
                          puntata forse potrà sembrare un po’ fuori 
                          tema, considerando che andrò a parlare di tre 
                          iniziative editoriali, ovvero libri e riviste. Eppure 
                          tutte sono correlate, in modo diverso, con il fare musica 
                          e, soprattutto, sono tutte contraddistinte da un alto 
                          tasso di creatività, intelligenza e indipendenza. 
                          Quindi, perdonate la piccola deviazione. Principio con Inguine Mah!gazine, al numero 
                          2. Pubblicato da Coniglio Editore ma gestito da un manipolo 
                          di grafici/disegnatori/cartoonist/scrittori validissimi 
                          tra cui il direttore Gianluca Costantini, Paper Resistance, 
                          Elettra Stamboulis per citarne solo alcuni. Inguine 
                          ospita su ogni numero (è un quadrimestrale) fumettisti 
                          italiani e non. Su questo numero una storia ambientata 
                          in Bosnia con cadavere di Tito in un frigo, opera dello 
                          svedese Max Anderrson e lo splendido tributo grafico 
                          a Rocco Scotellaro, poeta di Tricarico, opera di Giuseppe 
                          Palumbo. Una rivista che mette a contatto quindi underground 
                          recente e passato (vedi Chris Lanier su Crumb e affini) 
                          con una sensibilità verso la memoria poetica 
                          e sociale davvero notevoli.
 La redazione di Inguine ha promosso e pubblicato 
                          qualche mese fa iPunk, numero unico: 12 autori, 
                          12 creazioni grafiche per 12 testi di altrettanti gruppi 
                          punk (Crash Box, Raw Power, Sottopressione, Franti, 
                          Bruma, Nuvolablu, By All Means, Negazione, Concrete, 
                          Encore Fou, Kina e Panico). Introduzione di Andrea Pomini: 
                          «Ho conosciuto persone meravigliose, ho visto 
                          città meravigliose e in ognuna di esse sapevo 
                          di avere un fratello, ho ascoltato suoni meravigliosi 
                          e mi sono sentito parte di qualcosa di molto grande. 
                          E tutto attraverso e grazie a quello che io ho sempre 
                          chiamato punk». Si trovano in libreria e/o cercate 
                          su www.inguine.net.
 Sembrano 
                          dei CD ma invece sono dei libri. Formato quadrato ma 
                          di «square» c’è solo questo. 
                          L’Editore Nomade Psichico infatti ha una visione 
                          a 360 gradi, in quanto a temi e contenuti, ma scegliendo 
                          come luogo geografico e umano di osservazione il proprio 
                          ambiente, la provincia di Mantova. A partire da una 
                          rete di appartenenza alla Pianura quindi ma che si lega 
                          a chi in quella terra ci ha vissuto molti o moltissimi 
                          anni fa fino ai contemporanei. Il catalogo del Nomade è ampio, una quarantina 
                          di titoli. La cosa migliore è portare il topo 
                          sul loro sito www.nomadepsichico.it. 
                          Io sono stato felice lettore di «La cella di Eva» 
                          di Max Adler, autore prolifico e editor, un rompicapo 
                          alla Burroughs su erotismo e potere; «I briganti 
                          greci» di Ulisse Barbieri, figura libertaria dell’Ottocento 
                          lombardo; «Gli eretici sul Lago, storia dei Catari 
                          Bagnolesi» dello storico Vittorio Sabbadini e 
                          infine «Love Songs», un CD e libro del compositore 
                          Andrea Mannucci, opera di musica contemponea per arpa 
                          solista (Chiara Visentini), ispirato alla poesia d’amore.
 Infine, 
                          fresco di stampa, il primo volume di un nuovo editore, 
                          NoReply, con sede in quel di Milano. I due promotori, 
                          Andrea Rossi e Leonardo Pelo, sono noti agitatori letterari, 
                          con alle spalle la rivista Addictions e iniziative 
                          milanesi quali readings, stages e incontri. La loro 
                          nuova avventura editoriale vuol andare ad accendere 
                          i fari su quell’incrocio difficile e spesso bistrattato 
                          tra Musica e Parola Scritta. Si tratta quindi di libri 
                          con incluso un CD. Già visto? Forse, ma qui il 
                          progetto è più avanti, più profondo 
                          in partenza: il testo e la parte sonora sono concepiti 
                          come una cellula poetica unica, illuminando gli aspetti 
                          contigui tra carta stampata e mezzo musicale come pure 
                          quelli dissonanti, scomodi. Che cosa sentono nei testi 
                          di Flavio Giurato, cantautore romano che torna dopo 
                          vent’anni di silenzio musicale, un gruppo di scrittori 
                          italiani? Fulvio Abbate, di cui la A/Rivista ha parlato 
                          nei mesi scorsi, Gianrico Carofiglio, Tiziano Scarpa, 
                          Gianluca Morozzi, Giuseppe Caliceti, Enzo Carabba, Giuseppe 
                          Casa, Guido Celli, Aldo Nove e altri. Giurato è tornato a suonare dal vivo, in parte 
                          solleticato da questi racconti brevi ispirati ai personaggi 
                          delle sue canzoni. Tra il 1978 e 1984 Giurato pubblicò 
                          tre dischi veramente innovativi (di cui «Il Tuffatore» 
                          è quello più noto) proponendo testi taglienti 
                          e ballate dall’andamento inquieto e spiazzante, 
                          Townes Van Zandt, Roy Harper, Ciampi e Fortis. Libro 
                          curatissimo con brevi saggi di Enrico Deregibus, della 
                          rivista L’isola che non c’era, 
                          Ernesto De Pascale (Rai Tre) e prefazione del primo 
                          scopritore di Giurato, Carlo Massarini. Libro/CD da 
                          cercare in libreria o attraverso www.noreply.it.
 Gusci 
                          di lumaca Questa musica non ha padroni, esecutori, artisti o fruitori. 
                          Così recita una scritta del libretto di questo 
                          CD, “Gusci di lumaca”, pubblicato in questi 
                          giorni da Salterò Autoproduzioni. Si tratta di 
                          un lavoro instancabilmente scritto e realizzato da un 
                          gruppo aperto di musicisti e scrittori del Torinese, 
                          fra il 2001 e 2003. Su intrecci acustici e positivamente 
                          esili, molto ben costruiti e registrati, le voci ci 
                          riportano verso un mondo interiore che troppo spesso 
                          si rinnega, si ricaccia in un angolo del ripostiglio 
                          quotidiano. La stessa attitudine di Gusci Di Lumaca, 
                          come è composto, registrato, presentato, parla 
                          una lingua di assoluta distanza dall’intrattenimento. 
                          La gente, il pubblico vive nell’anestesia dell’Industria, 
                          a tutti i livelli, alti e bassi, di serie o di nicchia, 
                          perché non c’è ormai alcuna differenza: 
                          l’arte senza la Vita, che nasce dalla disperazione 
                          della solitudine e dalla spasmodica volontà di 
                          uscirne fuori, producendo, comprando, svendendo, drogandosi 
                          di riviste, mode, critichini. Se volete ritrovare quella 
                          radice emozionale primigenia, quella voglia di imparare 
                          tre accordi e mettersi di fronte un foglio bianco e 
                          una biro, in altre parole il luogo di libertà 
                          che solo riporta l’arte alla Vita, ascoltate questo 
                          CD: come attraversare Carlo Giuliani, metropoli notturne, 
                          ospedali, Oscar Wilde senza retorica, senza mediazioni 
                          ma con tutta la potenza di chi ricerca l’urgenza 
                          della Poesia. Contatti: gusci@email.it, 
                          email.normanaffranti@libero.it.
 Come 
                          se fosse normale Ritengo ci siano due approcci fondamentali nell’ascoltare 
                          e godere di un album musicale: l’uno sottintende 
                          una volontà di razionalità storico-critica, 
                          sistemica diciamo, l’altro si lascia coinvolgere 
                          a livello più emotivo, cogliendo empaticamente 
                          testi, grafica, ricordi, associazioni per quei 40 minuti 
                          di durata del disco. Le due cose non si escludono a 
                          vicenda e non tutta la musica si attraversa allo stesso 
                          modo, ma la differenza resta. Così due giornalisti 
                          che apprezzo, Elio Bussolino e Stefano Isidoro Bianchi, 
                          nello scrivere di “Mille papaveri rossi”, 
                          il doppio CD tributo a De Andrè assemblato dal 
                          Pandin, arrivano, in estrema sintesi, a dargli come 
                          voto l’uno 8 e l’altro 4. Come noto che 
                          la rivista inglese Mojo dà 8 all’ultimo 
                          lavoro di Patti Smith e BlowUp invece 4 (il mio voto 
                          personale, non richiesto, è 9). De gustibus 
                          si potrebbe dire. Io sento di dover ripetere un concetto 
                          più volte espresso: la musica, l’arte è 
                          morta, non rimanda, non riflette nulla, è pura 
                          merce come l’eroina se viaggia al di fuori di 
                          rapporti sociali ed emotivi, se incapace di creare un 
                          perimetro inclusivo. Fosse anche per segnare una rottura, 
                          un balzo avanti individuale. I rapporti sociali oggi 
                          sono poverissimi e soprattutto svuotati di sovversione, 
                          di sogno. Restano vicinanze di cuore, amicizie, incontri 
                          di percorso, per questo motivo “Musica a cui voler 
                          bene”. Non segnalo ciò che è di 
                          moda, alternativo, innovativo, cool, autoprodotto, commerciale, 
                          di tendenza. Io parlo dei miei amici, (quelli di 30 
                          anni e quelli di 30 minuti ad un concerto comune, ad 
                          esempio), parlo di ciò che mi fa innamorare.
 Esempio: dell’album “Come se fosse normale” 
                          di Edoardo Cerea conosco personalmente i tre responsabili. 
                          Edo cantante e compositore, Marco Peroni autore dei 
                          testi e Mario Congiu, arrangiatore e chitarrista. Ma 
                          se di questo CD non avessi saputo nulla, la sola foto 
                          interna in b/n, con Edo che indica un punto lontano 
                          della piana attorno a Piacenza (la sua città), 
                          con quei casolari e campi sotto il sole, che conosce 
                          bene chi vive in campagna ma anche chi viaggia in treno, 
                          chessò, da Torino a Verona, e quella sola foto 
                          “parla” a chi viene da altre pianure, il 
                          Salento, il Campidano, l’Oltrepo Pavese per far 
                          dei nomi, ecco la chimica difficile di un incontro avverarsi 
                          e quando metti su il cd, dopo un quarto d’ora 
                          ti vien voglia di cantare, di ascoltarlo fino in fondo, 
                          di rimetterlo su. Cantautore rock, senza dubbio contagiato 
                          da quell’amore-odio per l’America (Bruce 
                          Springsteen, Tom Petty, Dave Alvin e Dylan) che mi fece 
                          ammalare giovanissimo e che ancora mi possiede, Edo 
                          Cerea scrive canzoni belle come forma e con voce dolce 
                          e roca, racconta attraverso le liriche di Peroni sensazioni 
                          e immagini di vita (“faccio un mestiere come tanti, 
                          solo un po’ più sicuro e meno mio”, 
                          “c’è un uomo che parla diverso da 
                          me, giornata di lavoro, di lavoro e basta”), strofe 
                          che si piantano nel cuore subito, come un bicchiere 
                          fresco di cantina sotto la canicola. Ci sono alcune 
                          gemme vere in questo album, suonato con grande forza 
                          rock da Congiu e compagni, come “Sono anche un 
                          altro”, “Senza sicura” e “Rumore”. 
                          Mettere insieme la malinconia di Tenco e la blue-collar 
                          ballad di Woody Guthrie non è da tutti. Per contatti: 
                          www.ilmiogiocattolino.it.
 Punk 
                          triste e pasta a colazione Sempre a proposito di chi incontro e mi propone la sua 
                          musica e la sua fratellanza (è un po’ la 
                          stessa cosa, no?). Bob Corn, dal modenese e Zu, romani. 
                          Bob Corn, uomo solo con chitarra acustica, uomo con 
                          barba e camicia da boscaiolo, Jack Kerouac d’Emilia, 
                          con il suo CD “Sad punk and pasta for breakfast” 
                          mi insegna nuovamente l’antica lezione, solo l’amore 
                          per ciò che si fa, solo quel terribile desiderio 
                          di metterti di fronte a un microfono e suonare il blues 
                          dei tuoi demoni, dei tuoi amori, delle tue notti, ecco 
                          tutto questo è Fare Musica. Ballate sospese ed 
                          evocative, cantate in “Bob Corn English” 
                          (la parla solo lui, la capiscono tutti), con il contributo 
                          veramente perfetto di alcuni amici musicisti, GG e Elena 
                          dei Pertubazione, Giulio da One Dimensional Man. Cercate 
                          questa scheggia preziosa. Contatti: www.fooltribe.com.
 Per Zu, da Roma, ci spostiamo su terreni assai diversi. 
                          Il gruppo è noto da noi e all’estero. Tre 
                          o quattro CD e tour continui (per ogni dove, di qua 
                          e di là dell’Atlantico) hanno contribuito 
                          a farne apprezzare le qualità non comuni. Sono 
                          in tre, basso elettrico, batteria e sax e suonano musica 
                          strumentale. Dire di più sarebbe contrario al 
                          loro spirito in quanto Zu è una macchina umana 
                          onnivora, Jazz Muscolare (John Zorn, Area) si combina 
                          con Rock Storto (Shellac, Ex, Helmet, Fugazi); bellissimi 
                          dal vivo (non è un refuso: la potenza e la tecnica 
                          assoluta si “ascoltano” con gli occhi, come 
                          in una danza africana), pubblicati dall’americana 
                          Atavistic e registrati dai noti Steve Albini o Bob Weston, 
                          li ho incrociati sullo stesso palco (…un sagrato 
                          per la verità!) il 25 aprile scorso. Mi sono 
                          portato via due CD: “Radiale”, uscito da 
                          poco e “Igneo” e vi consiglio di ascoltarli 
                          mentre leggete Vonnegut, Selby Jr (r.i.p.) o Calvino. 
                          Contatti: www.atavistic.com 
                          oppure www.zuism.com.
  Stefano Giaccone
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