| Delitti di unascuola azienda
 Per dare un giudizio articolato e compiuto sul presente bisognerebbe 
                  conoscere il futuro. Ciò che non è possibile alla 
                  politica o alle scienze sociali, lo è per la fantascienza 
                  socio-politica, disciplina per la quale il futuro è noto 
                  e conoscibilissimo, come dimostra il libro di Dario Molino (Itala 
                  scola. I delitti di una scuola azienda, Zero in condotta 
                  edizioni, Milano, 2004, pp. 124, euro 7,50). Dispiegate le ali 
                  al divenire storico, afferrato lo spirito del tempo attraverso 
                  la conquista di quello del futuro, l’autore c’introduce 
                  nel pieno di una scuola finalmente del tutto aziendalizzata, 
                  privatizzata, dopo una lunga, faticosa lotta di smantellamento 
                  del pubblico condotta dalle varie formazioni governative nelle 
                  varie combinazioni possibili (centro-centro, centro-sinistra, 
                  centro-centro-sinistra, centro-destra, destra centro-centro, 
                  centro-destra, meno destra, più centro-sinistra meno 
                  sinistra) attraverso setto o otto riforme consecutive. Alla 
                  fine i presidi, pardon i DS, – scritto per esteso, per 
                  favore (Dirigenti Scolastici) – da non confondersi con 
                  quelli della squadra D’Alema-Fassino, sono diventati davvero 
                  dei managers aziendali, degli imprenditori intrallazzati con 
                  finanziamenti esterni, quotazioni aziendali, spot pubblicitari 
                  e relativa vendita di spazi scolastici e didattici alla pubblicità 
                  dei prodotti delle ditte che finanziano la scuola. Circondati 
                  da una pletora di collaboratori, mediocri, zelanti, servili, 
                  ma disposti a tutto pur di partecipare alla divisione delle 
                  soglie del potere (e anche di qualche euro in più) diventando 
                  figure di sistema, uomini e donne dello staff dirigenziale. 
                  Un perfetto quadro dirigente aziendale, ben tracciato dall’autore, 
                  colto nella sue relazioni interne tra Dirigente Scolastico, 
                  responsabile amministrativo, impiegati della contabilità, 
                  procacciatori d’affari per l’azienda, banche e bancari, 
                  ditte, prof. cresciuti di ruolo e di stipendio attraverso l’acquisizione 
                  di nuove funzioni di indirizzo e di direzione dei propri ex 
                  colleghi, in attesa, finalmente, dell’ultima riforma che 
                  conclude il ciclo riformistico che ha investito la scuola italiana, 
                  quella che vede il licenziamento di tutti i professori da parte 
                  del Ministero dell’Istruzione (l’aggettivo pubblica 
                  è stato abolito ormai da anni) e il loro passaggio alle 
                  ditte convenzionate e private. In pratica, spiega il collega 
                  dello staff, al prof. “mantieni le stesse condizioni ma 
                  formalmente dipendi dalla… Scuolinvest”; noi invece, 
                  prosegue lo staffista, “rimaniamo alle dipendenze del 
                  ministero, a noi dello staff ci è stato accordato il 
                  livello direttivo”. Un ambiente perfettamente aziendale anche nelle tresche amorose 
                  fra colleghi, dirigenti e figurine di sistema e segretarie precarie 
                  che si conquistano o mantengono così il loro posto di 
                  lavoro. Anche il tradimento fine a se stesso, la scappatella 
                  col collega d’ufficio, sono stati travolti dall’utilitarismo 
                  profittevole, in un processo di mercificazione delle emozioni, 
                  dei colpi di fulmine, delle botte di cuore che tutto travolge, 
                  razionalizza nell’ottica dello scambio freddo e mercantile. 
                  L’azienda, l’impresa, il mercato, le sue leggi eterne, 
                  hanno conquistato i cuori, i sentimenti, la didattica, le lezioni: 
                  quest’ultime sono interrotte da improvvisi spazi pubblicitari 
                  dei prodotti delle ditte che sponsorizzano e finanziano la scuola. 
                  Precedentemente l’interruzione pubblicitaria avveniva 
                  ogni ora con un “piccolo spazio pubblicità” 
                  di cinque minuti, poi questa tecnica è stata criticata 
                  e abbandonata a scapito dell’interruzione non programmata 
                  nel tempo, imprevista e improvvisa, perché in questo 
                  modo si cattura di più l’attenzione degli alunni, 
                  prima i cinque minuti, previsti e prevedibili, diventavano occasioni 
                  di svago, di perdita di tempo e di attenzione, una specie di 
                  intervallo a ripetizione. Ora invece, all’improvviso, 
                  l’aula si fa buia e da uno schermo fissato al muro partono 
                  gli spot pubblicitari, interrompendo compiti in classe, test, 
                  prove di recupero, verifiche a risposta multipla, aperta, semiaperta, 
                  “vero-falso”, interrogazioni, spiegazioni, letture.
 È questo il quadro, lo sfondo di una scuola azienda torinese 
                  entro il quale si sviluppa la storia. L’incipit iniziale 
                  è di sicuro effetto nel suo estremo verismo linguistico: 
                  “Minchia prof, ha sentito l’ultima?”. Così 
                  un alunno si rivolge al suo insegnante di lettere per comunicargli 
                  che è stato ritrovato il cadavere di un collega assassinato 
                  nel laboratorio della scuola. “Minchia” un’espressione 
                  sempre più ricorrente nel linguaggio giovanile, accanto 
                  alla definitiva abolizione dei congiuntivi, che ha subito un 
                  vero e proprio slittamento semantico di significato nel tempo. 
                  Un po’ com’è accaduto per la parola riforme: 
                  delle pensioni, della sanità, della scuola ecc. Una parola 
                  che è diventata un’interazione, un intercalare 
                  nel discorso e nel ragionamento ad alta voce, assieme ad altre 
                  spesso riferite agli attributi sessuali.
 Grande, naturalmente, è la disperazione dell’insegnante 
                  di lettere che non è riuscito a fare dei suoi alunni 
                  dei piccoli D’Annunzio nel campo linguistico e sintattico. 
                  Di D’Annunzio apprezzano, a scapito dell’arte di 
                  scrivere bene, con enfasi, suono, e precisione stilistica, gli 
                  aneddoti relativi alla sua vita sentimentale (meglio ancora 
                  se decisamente erotica), mentre “linguisticamente” 
                  si sentono più vicini a Carlo Emilio Gadda, per il quale, 
                  come ha insegnato loro il prof, l’uso del turpiloquio 
                  può essere opportunamente giustificato dall’occorrenza. 
                  Forse è per questo, che qualcuno tra quelli che ama ancora 
                  studiare e che ascolta il prof mentre spiega, apprezza il Dante 
                  dell’Inferno, soprattutto per via del suo linguaggio aspro. 
                  Anche lui, in fondo, si esprimeva in volgare (“Non è 
                  vero prof? L’ha detto lei, si ricorda?”).
  Diego Giachetti
 (P.s. Ritengo opportuno riferire anche il recapito 
                  della casa editrice del libro, per chi volesse ordinarlo direttamente: 
                  tel. 02 2551994, e-mail: zeroinc@tin.it)     
 Spia la vita(reality show)
 Spia la 
                  vita che non è là. Spia la vita, chissà quale verrà
 cosa succederà… forse paura
 di una sorte oscura, di una temibile
 ventura, creduta vera
 per un attimo si spera distante
 l’ambigua asfissiante malattia
 che sai chiamarsi pazzia.
 Spia la vita vene a’ ccà...
 Scruta nel sordido pertugio
 dal comodo rifugio, l’occhio
 domestico di un opaco specchio
 che trasmette… ah, se trasmette…
 gambe, culi e tette
 perché le strette della guerra
 quotidiana amara e grama
 devi averla ben lontana.
 Spia la vita, reality show
 dosa il coraggio, conservalo un po’
 l’eroico messaggio televisivo
 “una lacrima sul viso”, “un cuore
 matto da legare”… dai… fammela
 guardare… e poi… una candela
 se la mangi tutta intera
 può farti vincere il prime time
 di sera… ci siamo allenati/alienati
 per non essere eliminati
 Spia la vita, non consumarla.
 Guarda sfumarla in uno show.
 la misera triste realtà
 vacua mondanità nel credere importante
 chi da te… sicuro… è distante
 sebbene intrigante la sua sofferenza
 per un domani cui brilla lucente
 l’assenza di tutto… persino del niente.
  Jules Élysard
   Storia,memoria, cultura
 «Omaggio a Serantini»: la mostra del pittore Orio 
                  Melani ha aperto la settimana di celebrazioni per il venticinquennale 
                  della Biblioteca Franco Serantini di Pisa.
 Lucchese di origine ma pisano d'adozione, Orio Melani è 
                  un personaggio noto negli ambienti della Toscana tirrenica, 
                  già animatore di una galleria d'arte nella Pisa degli 
                  anni Sessanta e poi autore di importanti opere di destinazione 
                  pubblica. Nato nel 1933 e attivo fin dalla metà degli 
                  anni Cinquanta, il pittore si è formato nel clima umano 
                  e politico della fabbrica e dell'impegno sindacale. Nelle sue 
                  opere emerge quel senso profondo di partecipazione totale alle 
                  problematiche sociali che fu caratteristica peculiare degli 
                  anni Sessanta e Settanta, anche se la sua pittura non si risolve 
                  mai, nemmeno nel caso di soggetti esplicitamente politici, in 
                  forme illustrative retoricamente realistiche; la forza del segno, 
                  al contrario, è sempre contraddistinta da una pennellata 
                  densa, animata, piena di sentimento. Testimone diretto degli scontri del 5 maggio 1972, Orio Melani 
                  ha dedicato al caso Serantini un'opera importante come «I 
                  funerali dell'anarchico Serantini» (olio su tela, 2,10x3 
                  m, 1975), esposto assieme a una ricca scelta di bozzetti e studi 
                  preparatori nella mostra «Omaggio a Serantini». 
                  I disegni e il quadro di Melani restituiscono il senso profondo 
                  della testimonianza dell'uomo e dell'artista, partecipe in prima 
                  persona della violenza, del dolore per il “figlio di nessuno” 
                  assassinato dalla polizia, dell'amore, della solidarietà, 
                  del bisogno di verità che mossero in strada quella folla 
                  che il pittore rappresenta.
 Orio Melani ha donato le opere esposte alla Biblioteca Franco 
                  Serantini di Pisa, che ha curato l'allestimento della mostra. 
                  La Biblioteca, fondata nel 1979, è cresciuta negli anni 
                  proprio grazie all'impegno di tanti amici e compagni che hanno 
                  donato libri, giornali, riviste, opuscoli, manifesti e volantini, 
                  carte personali, ed è oggi una struttura conosciuta a 
                  livello internazionale come centro studi, archivio e centro 
                  di documentazione di storia sociale e contemporanea. Già 
                  in passato la Biblioteca aveva ricevuto opere pittoriche, stampe, 
                  incisioni, gessi e sculture, acquisendo così un patrimonio 
                  e una sensibilità artistici a partire dai quali erano 
                  stati organizzati eventi culturali e mostre, come il «Mail 
                  show War Des($)ert» del 1987, «Arte e anarchia, 
                  1918-1980» del 1990 e «Una mostra per il/sul Chiapas» 
                  del 1997.
 La donazione Melani è giunta in occasione delle celebrazioni 
                  per il venticinquesimo anno di attività della Biblioteca, 
                  e la mostra «Omaggio a Serantini» ha aperto un'intera 
                  settimana sulla storia, la memoria, la cultura degli anni Sessanta 
                  e Settanta. L'iniziativa del pittore richiama l'attenzione, 
                  ancora una volta, sull'importanza dei piccoli gesti, delle memorie 
                  e dell'impegno dei singoli che, raccolti e valorizzati nei luoghi 
                  e negli spazi della cultura, diventano informazioni e emozioni 
                  accessibili, tasselli di vissuto condivisi, per la memoria di 
                  tutti.
  Serena Vitale
   
 Ipermnesìa: progetti 
                  multimedialiper uno sviluppo anomalo della 
                  memoria...
 Una tavola rotonda ha affrontato la questione delle fonti 
                  per la storia dei movimenti: manifesti e volantini degli anni 
                  Sessanta e Settanta on line sul sito della Biblioteca F. Serantini.
 Gli archivi e centri di documentazione in qualche modo legati 
                  alla “stagione dei movimenti” sono depositari oggi 
                  di un tipo specialissimo e prezioso di materiali della memoria 
                  storica: riprese video, nastri, manoscritti, volantini, manifesti, 
                  striscioni, bollettini, numeri unici, fotografie, resoconti 
                  di assemblee, appunti, carte personali. Si tratta di testimonianze 
                  per loro stessa natura deperibili e insieme incredibilmente 
                  emozionanti, frammenti sparsi, a metà strada fra l'oralità 
                  e la comunicazione scritta, che quasi sempre arrivano negli 
                  archivi provenendo da scaffali dimenticati di sedi dismesse 
                  (di organizzazioni di cui oggi è difficile persino ricostruire 
                  la storia) o da soffitte di privati frequentatori (come allora 
                  si usava) delle assemblee d'istituto o dei comitati di quartiere. 
                  Trattare questo tipo di fonti nei centri di documentazione non 
                  è semplice, perché non sempre si possono applicare 
                  le stesse regole di inventariazione, classificazione e conservazione 
                  che si usano per le biblioteche o gli archivi delle istituzioni; 
                  spesso bisogna tentare strade nuove, sperimentali, fra cui le 
                  diverse forme di riproduzione digitale occupano senz'altro un 
                  posto di primo piano. Molti volantini degli anni ’60-’70, 
                  ad esempio, già non si leggono quasi più, perché 
                  l'inchiostro da ciclostile che si usava allora è particolarmente 
                  deperibile; i manifesti, stampati su carta leggera da “attacchinare” 
                  e conservati ripiegati, tendono a strapparsi ogni volta che 
                  vengono stesi. Ciononostante (o forse anche per questo...) l'impatto 
                  iconico dei manifesti o gli slogan scritti a mano sui volantini 
                  conservano - pur nella riproduzione digitale - una forza comunicativa 
                  e una traccia storica talmente forti che non avrebbe senso lasciare 
                  questo materiale solo agli “storici di mestiere”, 
                  che poi producono visioni/versioni/narrazioni della storia inevitabilmente 
                  “mediate”. Solo partendo da un accesso diretto, 
                  non mediato alle fonti si può tentare, invece, un'ipotesi 
                  storiografica più avanzata: rintracciare i molti fili 
                  di un discorso orizzontale e plurale, di una storia che allora 
                  non era fatta solo dalle dirigenze ma anche – forse soprattutto 
                  – dai gruppi, dai comitati, dalle assemblee.
 Per questo la scommessa del sito Ipermnesìa 
                  – archivio multimediale interno al sito della BFS (www.bfs.it/ipermnesia) 
                  – è tecnica e politica insieme: non solo i materiali 
                  sono stati inventariati e catalogati in maniera scientifica 
                  e rigorosa, accompagnati da dettagliate descrizioni dei fondi 
                  e da griglie “guida” come la suddivisione in aree 
                  tematiche e l’anagrafe dei gruppi citati, ma sono stati 
                  anche “messi in rete”, dove chiunque li può 
                  guardare, osservare e studiare direttamente e liberamente. E 
                  così, attraverso le foto di volantini ingialliti che 
                  scorrono sullo schermo, riprendono vita il “mercato rosso” 
                  al CEP di Pisa, le proteste delle commesse dell’UPIM, 
                  i dibattiti sulle questioni internazionali, la politica delle 
                  “autoriduzioni”, l’attivismo del movimento 
                  studentesco che cercava “operai e studenti uniti nella 
                  lotta”, mentre i colori e la grafica – innovativa 
                  per l’epoca – dei manifesti parlano con incredibile 
                  attualità di opposizione a tutte le guerre, campagne 
                  antinucleari, antifascismo e arresti arbitrari.
 Nello “sforzo ipermnetico” a cui il sito fa riferimento, 
                  gli archivi e centri di documentazione della “stagione 
                  dei movimenti” hanno un ruolo fondamentale. Il progetto 
                  del sito Ipermnesìa è nato proprio all’interno 
                  di uno di questi centri di documentazione: la Biblioteca “F. 
                  Serantini” di Pisa, che possiede 65 fondi già censiti 
                  relativi a quegli anni, oltre a un vastissimo patrimonio librario 
                  e una ricca emeroteca. Il progetto, poi, si è sviluppato 
                  in maniera autonoma, coinvolgendo persone, risorse e competenze 
                  della BFS e di un “collettivo telematico” che si 
                  chiama FormeTemporali; senza finanziamenti e in un contesto 
                  di assoluta precarietà occupazionale, il sito Ipermnesìa 
                  è stato costruito in quasi due anni di “notti passate 
                  dormendo poco, ritagli di tempo e innumerevoli ritardi sul lavoro”, 
                  animati dalla forza incrollabile della passione per la memoria.
 La digitalizzazione e la consultazione on-line dei materiali 
                  dovrebbero essere – nelle intenzioni dei curatori del 
                  sito – una maniera per avvicinare quante più persone 
                  possibile alla questione stessa della memoria, all’importanza 
                  della conservazione delle fonti, alle mille possibilità 
                  per la loro valorizzazione, in un percorso reciproco che dagli 
                  archivi porta al web e dal web rimanda agli archivi, agli scaffali, 
                  alle buste, a quel singolo volantino e a quello accanto, ai 
                  libri, alle registrazioni delle manifestazioni, alle interviste 
                  fatte a chi c’era. Perché la memoria – anche 
                  degli anni Sessanta e Settanta – torni a essere un patrimonio 
                  condiviso e fruito, discusso, studiato.
 La tavola rotonda su Fonti, memoria, materiali: progetti 
                  multimediali per la storia dei movimenti a conclusione 
                  della settimana ha riunito gli archivi e centri di documentazione 
                  di movimento della Toscana e dell'Emilia Romagna per mettere 
                  in comune esperienze e, soprattutto, idee, spunti, riflessioni, 
                  progetti. Perché anche gli archivi, come tutti gli altri 
                  luoghi della memoria e della cultura, possano essere pensati, 
                  gestiti e fruiti come spazi aperti e accessibili.
  Serena Vitale
     Omosessualitàal confino
 Dalla comunicazione di Lorenzo Benadusi alla Giornata di Studi 
                  su “Il confino di polizia 1926-1943: la repressione 
                  del dissenso sociale e politico nell’Italia fascista”, 
                  organizzata dalla Biblioteca F. Serantini, in collaborazione 
                  con ANPI Pisa e la Biblioteca della Casa della Donna di Pisa 
                  (Domus mazziniana, 31 gennaio 2004).
 Il regime fascista durante il Ventennio si dedicò minuziosamente 
                  al tentativo di trasformare radicalmente le coscienze degli 
                  italiani, realizzando una sorta di “rivoluzione antropologica 
                  capace di rigenerare la nazione”. L’inevitabile 
                  conseguenza di questo progetto fu l’assoluta repressione 
                  di ogni e qualsiasi forma di dissenso, sociale e politico. Già 
                  nel 1923 Mussolini esprimeva con estrema chiarezza questa posizione 
                  fascista:  
                  
                    «Quando mancasse il consenso c’è 
                      la forza. Per tutti i provvedimenti anche i più duri 
                      che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti 
                      a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo 
                      o subirli» (1 ).  La politicità integrale dell’esistenza, con l’intervento 
                  diretto anche nella sfera privata da parte di uno Stato che 
                  si voleva etico, doveva permettere al fascismo di trasformare 
                  processi mentali, stati d’animo, azioni, pensieri, stili 
                  di vita, comportamenti affettivi e sessuali, per uniformarli 
                  alle direttive del regime. Il modello di mascolinità proposto dal fascismo permeò 
                  la cultura comune, e divenne un vero e proprio quadro di riferimento 
                  mentale e normativo: i confini “leciti” della condotta 
                  sessuale e dell’identità di genere – sia 
                  maschile che femminile – vennero tracciati in maniera 
                  netta e perentoria (2). Quanto più 
                  rigida diventava la definizione di norme e modelli di comportamento, 
                  tanto più – inevitabilmente – si allargavano 
                  le categorie della “devianza” e si inaspriva la 
                  persecuzione repressiva contro chi, non rispettando le regole, 
                  metteva in luce le contraddizioni della società. Tutti 
                  coloro che rifiutavano o intaccavano a qualsiasi titolo i “valori” 
                  dell’ideologia fascista venivano visti come ostacoli al 
                  mantenimento dell’ordine sociale e politico che il regime 
                  si impegnava ad istituire; gli elementi di criticità, 
                  quindi, dovevano essere esclusi dal mondo dei “normali”, 
                  emarginati attraverso una delle tante “istituzioni totalizzanti”. 
                  Carcere, manicomio, confino, istituto correzionale assumevano 
                  quindi una doppia valenza: pedagogica, attraverso la radicale 
                  trasformazione della personalità degli internati; repressiva, 
                  con l’isolamento degli individui che socialmente e politicamente 
                  “indesiderati” o non abbastanza integrati nella 
                  comunità.
 L’omosessuale, pericoloso perturbatore dell’ordine 
                  nazionale, con la sua stessa esistenza metteva in discussione 
                  i valori fondamentali della nuova morale fascista; ledeva il 
                  prestigio nazionale con atti universalmente considerati perversi; 
                  rischiava di corrompere tutti coloro che potevano avvicinarlo; 
                  metteva a rischio l’avvenire della patria favorendo comportamenti 
                  che, limitando la crescita demografica, indebolivano la potenza 
                  della nazione; minava, insomma, la coesione interna del paese 
                  con la confusione dei ruoli sessuali.
 Un’azione troppo vistosa contro gli omosessuali dediti 
                  al “turpe vizio”, però, rischiava di sortire 
                  un effetto negativo, dando visibilità a una piaga sociale 
                  lesiva dell’onore e del prestigio della nazione. I mezzi 
                  impiegati per la repressione dell’omosessualità, 
                  quindi, furono più spesso la censura, la prigionia, l’emarginazione 
                  o la negazione stessa dell’omosessualità. La “tolleranza 
                  repressiva” (3) del fascismo italiano 
                  verso gli omosessuali mirò a colpire sistematicamente 
                  ogni “anomalia” sessuale, cercando però di 
                  non suscitare scandali.
 In base alla legge di Pubblica Sicurezza del 6 novembre 1926 
                  n°1848 e al Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 18 giugno 
                  1931 n. 773, la Polizia acquisì, in pratica, la facoltà 
                  di emarginare dalla società coloro che costituivano motivo 
                  di scandalo per il regime, tramite provvedimenti amministrativi 
                  di diffida, ammonizione o confino. Proprio il confino divenne 
                  allora lo strumento privilegiato dal fascismo reprimere silenziosamente 
                  l’omosessualità, proprio perché riusciva 
                  a colpire, con estrema facilità, tutti “coloro 
                  che per il sistema di vita disordinata od immorale si mettono 
                  fuori dal campo etico segnato dalla Legge senza però 
                  lederla direttamente, od anche scalfendola”.
 Oltre all’esclusione dalla convivenza civile attraverso 
                  il confino, il regime usò anche altre forme, più 
                  sottili e pervasive, in questa guerra di basso profilo contro 
                  l’omosessualità. Attraverso la satira, la diffamazione, 
                  il controllo del parroco, del commissario di polizia, dei parenti 
                  e dei vicini si cercò di ottenere una repressione sociale 
                  totale, volta a isolare coloro che venivano considerati i “traditori 
                  della stirpe” (4). La ricostruzione 
                  delle vicende degli ammoniti, dei diffidati e dei confinati 
                  deve perciò essere affiancata allo studio di altre forme 
                  di persecuzione basate sulla morte civile, sulla derisione pubblica, 
                  sulla perdita del lavoro, sul diniego e sull’oltraggio, 
                  sulla violenza fisica.
 Lo studio delle carte relative agli omosessuali mandati al confino 
                  permette di partire dalla repressione dell’omosessualità 
                  per cercare di mettere in luce i vari meccanismi della propaganda 
                  e della repressione utilizzati per creare un’identità 
                  maschile conforme ai presupposti dell’ideologia fascista. 
                  Diventa così possibile evidenziare quanto l’atteggiamento 
                  fascista nei confronti degli omosessuali fosse retaggio di una 
                  lunga tradizione precedente, e quanto a sua volta il fascismo 
                  favorì la sopravvivenza di uno stereotipo capace di confluire 
                  – senza grossi cambiamenti – nella successiva cultura 
                  repubblicana (5).
  S. V.
 
                   Note: B. Mussolini, Spirito della rivoluzione fascista, 
                    a cura di G.S. Spinetti, Hoepli, Milano 1937, p. 70. 
                  Cfr. G.L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo 
                    stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, 
                    Torino 1997. 
                  Cfr. G. Dall’Orto, La “tolleranza repressiva” 
                    dell’omosessualità. Quando un atteggiamento legale 
                    diviene tradizione, in ARCI gay nazionale (a cura di), 
                    Omosessuali e Stato, Cassero, Bologna 1988, pp. 37-57. 
                  Cfr. D. Petrosino, Traditori della stirpe. Il razzismo 
                    contro gli omosessuali nella stampa del fascismo, in 
                    A. Burgio e L. Casali (a cura di), Studi sul razzismo 
                    italiano, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 89-107. 
                  Una trattazione estesa e dettagliata della persecuzione 
                    dell’omosessualità in epoca fascista a cura di 
                    Lorenzo Bendausi si può trovare sul numero 01/2004 
                    della «Rivista storica dell’anarchismo» 
                    (BFS edizioni, Pisa), in uscita a giugno. 
                   Il cielo è sempre 
                  più blu
 La saggistica è sempre stata un’esclusiva privilegiata 
                  degli accademici che l’hanno gestita a sostegno della 
                  cultura “alta”, elitaria, di regime. Certi generi 
                  artistici, ritenuti da questa casta, un sottoprodotto dell’ingegno, 
                  un cittadino di serie b del villaggio culturale, un bieco commercio 
                  di massa, oggi conoscono una rivendicata dignità di esistere 
                  proprio in quegli ambiti dove un tempo non avevano facile accesso. 
                  Nella saggistica, per l’appunto. Parliamo della canzone 
                  d’autore e dei “gruppi” musicali che hanno 
                  segnato la nostra epoca. Questa necessità di indagine 
                  testuale e sonora, nasce da un passato recente: gli anni Sessanta. 
                  Da quell’epoca radiosa ai nostri giorni cupi, sia i cantautori 
                  che i gruppi hanno vissuto un arco evolutivo tale da creare 
                  una svolta nel mondo della canzone. L’articoletto sbrigativo 
                  e frivolo sul giornale non corrispondeva più alla reale 
                  dimensione di questo fenomeno perché questi nuovi poeti 
                  della modernità, interagivano con le giovani generazioni, 
                  le loro problematiche, le loro ansie di rinnovamento sociale, 
                  le rivolte, le proteste e le proposte di una nuova etica universale. 
                  Pacifismo, antimilitarismo, anarchismo, o pura poesia lirica 
                  fluivano a profusione stabilendo con i ragazzi un rapporto di 
                  identificazione e solidarietà. Senza dimenticare i padri europei della canzone poetica-libertaria 
                  del dopoguerra: Léo Ferré, Jacques Brel, Georges 
                  Brassens, Boris Vian, e molti altri. La saggistica italiana 
                  conta ormai numerosissimi titoli che analizzano il lavoro unitario 
                  di personalità come Tenco, De André, Paoli, Ciampi, 
                  De Gregori, Guccini, Gaber, ecc. Adesso, questo settore dell’editoria 
                  s’arricchisce di un altro saggista, il musicologo Alfredo 
                  Del Curatolo che ha pubblicato di recente il volume Se 
                  mai qualcuno capirà Rino Gaetano (Selene edizioni 
                  2004) e che appartiene alla bella collana Distorsioni diretta 
                  eloquentemente da Marco Denti. La prima pagina istituzionale 
                  porta questo slogan: il rock’n’ roll è più 
                  rivoluzionario della rivoluzione (Sam Shepard, 1972) E a giudicare 
                  da come sono finite le rivoluzioni, non possiamo dargli torto.
  Rino 
                  Gaetano
 Rino Gaetano, dunque. Il cantautore di Crotone, perito tragicamente 
                  nel 1981 in un incidente stradale, e che proprio in questi mesi 
                  conosce una seconda vita discografica, viene qui esplorato da 
                  Del Curatolo con una profondità di argomentazioni che 
                  ben difficilmente un domani si potrà aggiungere qualcosa 
                  di più su questo artista. Il libro di Del Curatolo non 
                  solo esalta il talento scintillante del cantautore ma scopre 
                  nuove valenze sia di contenuto che musicali rimaste inevase 
                  nel tempo e che ora illuminano gli anfratti più reconditi 
                  di questa personalità troppo dimenticata. Rino Gaetano, 
                  in poco più di otto anni di attività frenetica, 
                  dal 1973 al 1981, anno funesto in cui perse la vita, scrisse 
                  memorabili canzoni innovative, visceralmente legate a quel contesto 
                  sociale e storico e ancora oggi attualissime. Precursore della 
                  canzone satirica, fabbro dell’ironia pesante, espressionista 
                  del sarcasmo provocatorio, i suoi testi attaccano tutti su tutti 
                  i fronti. Lui stesso si definì un Petrolini rock per 
                  quella sua capacità manipolatoria della parola, il gusto 
                  delle filastrocche con rime e assonanze, lo sberleffo del giullare 
                  che denuncia e insulta le malefatte dei potentati politici e 
                  mediatici che manovrano la testa collettiva come un tram di 
                  città. Ricordiamo le canzoni: “Il cielo è 
                  sempre più blu”, “Aida”, “Le 
                  beatitudini”, “Escluso il cane”, “Tu 
                  essenzialmente tu” ma soprattutto la bellissima, straziante, 
                  geniale “Mio fratello è figlio unico”. La 
                  sua teatralità beffarda di clima cabarettistico (nel 
                  senso più alto) ha i suoi referenti in Fo, Jannacci, 
                  Grillo. Partito dallo storico Folkstudio di Roma, ai tempi di 
                  Venditti e De Gregori, presto si slegò da quella matrice 
                  omologante per crearsi stirnerianamente una sua originale visione 
                  comico-dolorosa della società italiana d’allora, 
                  purtroppo tuttora valida. Questo libro è un atto di giustizia 
                  per un compagno anarcoide che diede fastidio a molti e che ancora 
                  oggi lo si può definire “un ridente molesto”. 
                  Mauro Macario
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