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                  pensiero di Bakunin è sembrato, ai critici e agli studiosi 
                  che si sono interessati ad esso, inseparabile dalla sua attività 
                  pratica rivoluzionaria. Effettivamente pensiero ed azione sono, in Bakunin, la stessa 
                  cosa.
 Abbiamo voluto però, di proposito, operare artificialmente 
                  una separazione fra essi allo scopo di mettere in risalto il 
                  pensiero, che è stato finora considerato in modo subalterno 
                  all’azione.
 Quest’ultima è apparsa assai più “appariscente” 
                  tanto da offuscarlo rendendo più ardua e problematica 
                  la sua “lettura”. Pochi pensatori infatti sono stati 
                  così mal compresi e sottovalutati come Bakunin.
 Lasciamo da parte ovviamente gli anarchici ed i libertari in 
                  genere, sebbene anche questi ultimi abbiano trascurato a volte 
                  aspetti e contenuti fondamentali della sua dottrina; in genere 
                  però possiamo osservare che fino a pochi anni fa nessuno 
                  aveva iniziato uno studio sistematico del suo pensiero.
 È vero che esso riveste nell’aspetto formale 
                  un carattere non sistematico, a volte confuso (mai contraddittorio), 
                  e che solo una lettura attenta di tutta la sua opera può 
                  far emergere uno sviluppo logico e una sostanziale unità.
 Lo stesso Nettlau, il più grande biografo di Bakunin, 
                  scrive “…Bakunin ha pubblicato, in varie fasi della 
                  sua vita, delle opere spesso di un carattere transitorio ma 
                  di cui l’insieme, studiato secondo l’ordine 
                  cronologico, permette una esposizione, particolarmente caratteristica, 
                  dello svolgimento delle idee libertarie, idee che svolgendosi 
                  naturalmente, hanno costruito il pensiero anarchico… Bakunin 
                  non è mai arrivato, non solamente a pubblicare ma nemmeno 
                  ad esporre in maniera definitiva, l’insieme delle sue 
                  idee; egli non ha costruito il suo sistema, se vogliamo 
                  servirci di questo termine che si adatta a delle interpretazioni, 
                  o a delle non-interpretazioni, così diverse. A che cosa 
                  dobbiamo attribuire questo carattere incompleto delle opere 
                  bakuniniane? Bakunin quando non si trattava di questioni di 
                  attualità, non conosceva l’arte della composizione. 
                  Se si leggono i suoi manoscritti, si vede come da una lettera 
                  egli arriva ad una bozza, da una bozza ad un volume. Egli fa 
                  le sue premesse, suddivide il soggetto e arriva raramente a 
                  trattare più di uno o due punti che si era imposto di 
                  svolgere…”.
 Questa mancanza di compiutezza formale ha fatto scrivere 
                  a moltissimi critici di diversa estrazione ideologica, che il 
                  pensiero di Bakunin è un pensiero impressionistico, episodico, 
                  sostanzialmente poco originale. Egli sarebbe stato in ultima 
                  analisi un grande assimilatore con poca originalità. 
                  I critici francesi lo vogliono pedissequamente copiatore di 
                  Proudhon, quelli italiani di Pisacane, quelli russi di Herzen, 
                  e tutto questo, accompagnato da una lettura superficiale, ha 
                  fatto del pensiero bakuniniano uno scempio difficilmente eguagliabile.
 Dobbiamo tener presente inoltre che tutte le calunnie, infamie, 
                  falsità sparse sul suo conto da banditi di varia estrazione, 
                  hanno contribuito in modo determinante ad “influenzare” 
                  negativamente la lettura delle sue opere. Ma si sa che questi 
                  tentativi goffi e nani, nella loro luce sinistra, non hanno 
                  fatto altro che mettere maggiormente in risalto, agli occhi 
                  di tutti i sinceri rivoluzionari, la statura intellettuale, 
                  morale e politica, già straordinariamente gigantesca, 
                  di Bakunin.
 Per ovvie ragioni di spazio abbiamo preferito mettere in questa 
                  piccola antologia dei brani raggruppati secondo temi comuni 
                  anche se essi appartengono a opere diverse. Questo perché 
                  ci permette di cogliere il carattere di stupefacente attualità 
                  che è presente in tali brani. Liberati in questo modo 
                  dalle motivazioni storico-contingenti che li videro sorgere, 
                  essi ci possono indicare oggi più che mai la traccia 
                  teorica per sciogliere alcuni nodi riguardanti la comprensione 
                  della natura e della funzione di ogni società 
                  di sfruttamento.
 Vogliamo così abbozzare una sintesi del pensiero bakuniniano 
                  senza avere la pretesa di ricomporre interamente la sua unità, 
                  anche perché pensiamo che se essa è mancata, come 
                  giustamente ha rilevato il Nettlau, ciò nulla toglie 
                  al suo valore teorico.
 Questa mancanza di sistematicità rappresenta, a nostro 
                  avviso, proprio tutti i limiti ma anche tutta la grandezza del 
                  suo pensiero: grazie ad essa Bakunin infatti ha elaborato alcune 
                  delle sue intuizioni più folgoranti e geniali.
 I brani che abbiamo scelto si riferiscono all’ultimo periodo 
                  della sua evoluzione teorica, questo perché ci permette 
                  di cogliere più completamente i caratteri di essa.
 Per inciso possiamo dire che questa evoluzione si divide grosso 
                  modo in due periodi. Il primo comprende gli anni della sua formazione 
                  hegeliana in Germania, la conoscenza del socialismo francese 
                  e di Proudhon, e si conclude, dopo la prigionia, nel 1861; il 
                  secondo, che si può dividere in due parti, comprende 
                  gli anni dal 1861 alla morte. La prima parte va dal 1861 al 
                  1867, periodo in cui Bakunin passa rapidamente dalle posizioni 
                  democratiche rivoluzionarie, che però avevano sempre 
                  avuto venature libertarie, alle posizioni socialiste anarchiche; 
                  la seconda parte va da queste posizioni alla formulazione della 
                  sua dottrina specificatamente anarchica.
 Abbiamo detto che i brani scelti appartengono all’ultimo 
                  periodo dell’evoluzione di Bakunin. Ora però vogliamo 
                  aggiungere che essi si riferiscono ai temi propriamente specifici 
                  della sua dottrina. Cercheremo quindi di sintetizzarli brevemente.
 Innanzi tutto lo Stato, che per Bakunin rappresenta il nemico 
                  numero uno degli sfruttati. Lo Stato occupa nel pensiero bakuniniano 
                  il posto centrale, nel senso che qualsiasi discorso strategico 
                  per la liberazione degli oppressi, passa inevitabilmente per 
                  la sua immediata distruzione.
 Bakunin comprese e spiegò che questa macchina di sfruttamento 
                  ha una propria autonomia e che la sua costituzione, sotto qualsiasi 
                  nuova forma, ricomporrà inevitabilmente la disuguaglianza 
                  sociale. Lo Stato è per natura, dice Bakunin, una struttura 
                  gerarchica che sviluppa necessariamente l’esercizio del 
                  governo da parte di una minoranza sulla massa del popolo. Ma 
                  “sfruttare e governare”, dice Bakunin in Dio 
                  e lo Stato, sono la stessa cosa.
 Inoltre l’esistenza di esso genera una ideologia che lo 
                  giustifica sul piano storico. Per lo Stato borghese, essa è 
                  stata la religione cristiana e la sua chiesa, per lo “Stato 
                  popolare” sarà una nuova “teologia politica” 
                  a sorreggere la costituzione dei nuovi privilegi. Cambierà 
                  l’oggetto di tale religione, non la sua funzione.
 Sviluppando tale prospettiva Bakunin arriva così a formulare 
                  alcune intuizioni sulla funzione dello Stato in rapporto 
                  alla “lotta di classe”. Se infatti la “lotta 
                  di classe” non si estende a tutte le masse sfruttate, 
                  essa porta alla formazione di una élite, che 
                  finirà con l’utilizzare l’energia proveniente 
                  “dal basso”, convogliandola per i propri scopi, 
                  che da quel momento diverranno diversi ed opposti a quelli degli 
                  sfruttati. In questo modo Bakunin anticiperà con cento 
                  anni la formazione della nuova classe dominante tecnoburocratica 
                  nata appunto dalla “testa” del movimento operaio 
                  e che, in nome di esso, si impadronirà della 
                  macchina statale e delle sue funzioni dominanti. Alla religione 
                  cristiana verrà sostituita la nuova “teologia politica” 
                  giustificante il nuovo Stato e il nuovo dominio: il marxismo.
 Bakunin, a differenza dei marxisti, non parlerà mai di 
                  “lotta di classe”, ma di lotta popolare. Tale linguaggio 
                  spiega per l’appunto un altro tema caro alla sua dottrina: 
                  l’alleanza operai-contadini. Possiamo anzi dire che esso 
                  sia stato uno dei punti in cui Bakunin ha espresso con maggior 
                  vigore la sua strategia di lotta. Mentre per i marxisti le masse 
                  contadine dovevano seguire la strategia della classe operaia, 
                  per Bakunin esse erano e dovevano restare in una posizione di 
                  parità. E questo per due motivi. Il primo si riferiva 
                  al fatto che la lotta della classe operaia separata da quella 
                  contadina, avrebbe favorito la logica del capitalismo industriale 
                  aumentando il divario città-campagna, isolando maggiormente 
                  il movimento operaio dalla lotta generale degli sfruttati. Il 
                  secondo era che tale lotta non doveva perdere il carattere storico 
                  che gli sfruttati gli avevano assegnato: la lotta sociale. Il 
                  termine “lotta sociale” era diventato necessario 
                  nel linguaggio bakuniniano; esso comprendeva anche il senso 
                  rivoluzionario di lotta politica.
 La differenza di linguaggio rispetto ai marxisti nascondeva 
                  dunque una questione di fondo. Essa riguardava non solo la diversa 
                  interpretazione del significato storico della Prima Internazionale, 
                  ma il significato, la funzione e il fine 
                  della lotta generale di tutti gli sfruttati. Perché tale 
                  lotta non costituisse trampolino di lancio di una nuova classe 
                  per la conquista del potere, cambiando solamente la forma dello 
                  sfruttamento, occorreva una lotta generale portata avanti contemporaneamente 
                  da tutti gli sfruttati, senza una pattuglia d’avanguardia, 
                  com’era invece negli intendimenti marxisti.
 Non crediamo di esagerare dicendo che l’aver scelto la 
                  strategia marxista, ha comportato in questi cento anni, per 
                  il movimento operaio, le sconfitte più terribili. Ovunque 
                  si può vedere alla radice di tali sconfitte l’isolamento 
                  della classe operaia rispetto alle masse contadine, e dove tale 
                  lotta è stata “vittoriosa”, l’affermazione 
                  di una nuova classe dominante (vedi la Russia e gli altri paesi 
                  “socialisti”).
 Tutto questo fu compreso e anticipato da Bakunin, ma tale comprensione 
                  non sarebbe stata completa se Bakunin non ci avesse lasciato 
                  i suoi articoli sul lavoro manuale e sul lavoro intellettuale. 
                  Essi ci indicano la traccia principale della teoria bakuninista: 
                  l’abolizione delle classi attraverso l’abolizione 
                  della divisione del lavoro. Divisione tra il lavoro intellettuale-direttivo 
                  dominante e il lavoro manuale-esecutivo dominato. Questa divisione, 
                  presente in ogni società di sfruttamento, è la 
                  ragione prima della disuguaglianza, ci dice Bakunin, e il supporto 
                  necessario dello Stato perché sistema gerarchico e piramidale 
                  analogo all’organizzazione diseguale del lavoro. 
                  In questo modo la libertà materiale di tutti gli uomini 
                  passa attraverso l’abolizione dello Stato, vale a dire 
                  la distruzione dell’organizzazione diseguale del lavoro; 
                  ciò comporta l’abolizione della divisione del lavoro 
                  come causa della formazione delle classi. Libertà e uguaglianza, 
                  ecco i termini della dottrina di Bakunin, ma in questo senso: 
                  che non si può ottenere l’uno senza ottenere contemporaneamente 
                  l’altro.
 Giampietro “Nico” Berti 
  Contro 
                  lo Stato  Ho detto che lo Stato, per il suo stesso principio, è 
                  un immenso cimitero dove tutte le manifestazioni della vita 
                  individuale e locale, tutti gli interessi delle parti, l’insieme 
                  delle quali costituisce appunto la società, vengono a 
                  sacrificarsi, a morire, a sotterrarsi. È l’altare 
                  su cui la libertà reale e il benessere dei popoli sono 
                  immolati alla “grandeur” politica; e più 
                  questo sacrificio è completo, più lo Stato è 
                  perfetto. Ne concludo, ed è la mia convinzione, che l’impero 
                  russo è lo Stato per eccellenza, lo Stato senza retorica 
                  e senza mezzi termini, lo Stato più perfetto d’Europa. 
                  Viceversa, tutti gli Stati, nei quali i popoli possono ancora 
                  respirare, sono, da un punto di vista ideale, Stati incompleti, 
                  così come tutte le altre Chiese, in confronto a quella 
                  cattolica, sono Chiese mancate. (…). Ho detto che lo Stato è un’astrazione che divora 
                  la vita popolare; ma perché un’astrazione possa 
                  nascere, svilupparsi e continuare ad esistere nel mondo reale, 
                  bisogna che ci sia un aggregato collettivo reale che sia interessato 
                  alla sua esistenza. Non può esserlo la grande massa popolare, 
                  dal momento che essa ne è proprio la vittima: deve trattarsi 
                  di un gruppo privilegiato, il gruppo sacerdotale dello Stato, 
                  la classe governante e possidente, che è, nello Stato, 
                  ciò che nella Chiesa è la classe sacerdotale della 
                  religione, cioè i preti.
 Infatti, che cosa notiamo noi in tutta la storia? Lo Stato è 
                  sempre rimasto il patrimonio di una qualunque classe privilegiata: 
                  classe sacerdotale, classe nobiliare, classe borghese, infine 
                  classe burocratica, quando, essendosi esaurite tutte le altre 
                  classi, lo Stato cade o, secondo di come lo si vuole interpretare, 
                  si innalza allo stato della macchina; ma occorre assolutamente 
                  per la sopravvivenza dello Stato che ci sia una classe privilegiata 
                  qualunque che abbia interesse alla sua esistenza. Ed è 
                  appunto l’interesse solidale di questa classe privilegiata 
                  che si chiama patriottismo.
 (…). Abbiamo già dichiarato più d’una 
                  volta la nostra viva ripugnanza per le teorie di Lassalle e 
                  di Marx che raccomandano ai lavoratori se non proprio come supremo 
                  ideale almeno come immediato e principale obiettivo la fondazione 
                  di uno Stato popolare che, come loro stessi hanno spiegato, 
                  non sarebbe altro che “il proletariato elevato al 
                  rango di casta dominante”.
 Se il proletariato, ci si chiede, diverrà la casta dominante 
                  sopra chi dominerà? Ciò significa che rimarrà 
                  ancora un altro proletariato sottomesso a questa nuova dominazione, 
                  a questo nuovo Stato. È questo il caso, per esempio, 
                  della plebaglia contadina che, come è noto, non gode 
                  della benevolenza dei marxisti e che, trovandosi al grado più 
                  basso di cultura, sarà evidentemente governata dal proletariato 
                  delle città e delle fabbriche; oppure, se consideriamo 
                  la questione dal punto di vista nazionale, prendendo gli slavi 
                  rispetto ai tedeschi, i primi per lo stesso motivo staranno, 
                  nei confronti del proletariato tedesco vittorioso, nella stessa 
                  servile soggezione in cui ora questi ultimi si trovano nei confronti 
                  della loro borghesia.
 Dove c’è lo Stato c’è inevitabilmente 
                  la dominazione e di conseguenza la schiavitù; lo Stato 
                  senza la schiavitù, aperta o mascherata, è inconcepibile; 
                  ecco perché siamo nemici dello Stato.
 Che cosa vuol dire il proletariato organizzato in casta dominante? 
                  È mai possibile che l’intero proletariato si ponga 
                  alla testa del governo? I tedeschi sono circa 40 milioni. È 
                  forse possibile che tutti questi 40 milioni divengano membri 
                  del governo? Che tutto il popolo governi e che non ci siano 
                  governati? In questo caso non ci sarà governo, non ci 
                  sarà Stato; ma se ci sarà uno Stato ci saranno 
                  governati, ci saranno schiavi.
 Questo dilemma è risolto semplicisticamente nella teoria 
                  marxiana. Con governo popolare essi intendono il governo del 
                  popolo da parte di un piccolo numero di rappresentanti eletti 
                  dal popolo.
 Così da qualsiasi parte si esamini questa questione si 
                  arriva sempre allo stesso spiacevole risultato: al governo dell’immensa 
                  maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata. 
                  Ma questa minoranza, ci dicono i marxiani, sarà di lavoratori. 
                  Sì, certamente, di ex lavoratori i quali non 
                  appena divenuti governanti o rappresentanti del popolo non saranno 
                  più lavoratori e guarderanno il mondo del lavoro manuale 
                  dall’alto dello Stato; non rappresenteranno più 
                  da quel momento il popolo ma se stessi e le proprie pretese 
                  di voler governare il popolo. Chi può dubitare di ciò 
                  non sa niente della natura umana.
 Ma questi eletti saranno socialisti ardenti, convinti e per 
                  di più scientifici. Queste parole “socialisti 
                  scientifici”, “socialismo scientifico” 
                  che s’incontrano costantemente nelle opere e nei discorsi 
                  dei lassalliani e dei marxiani provano per sé stesse 
                  che il cosiddetto Stato popolare non sarà nient’altro 
                  che il governo dispotico della massa del popolo da parte di 
                  una aristocrazia nuova e molto ristretta di veri o pseudoscienziati. 
                  Il popolo, dato che non è istruito, sarà completamente 
                  esonerato dalle preoccupazioni di governo e sarà incluso 
                  in blocco nella mandria dei governati. Che bella liberazione!
 I marxiani si rendono conto di questa contraddizione e coscienti 
                  che un governo di scienziati, il più opprimente, il più 
                  offensivo e il più spregevole del mondo, sarà 
                  nonostante tutte le forme democratiche una vera dittatura, si 
                  consolano con l’idea che questa dittatura sarà 
                  provvisoria e di breve durata. Dicono che la sua unica occupazione 
                  e il suo unico intento sarà quello di educare e di elevare 
                  il popolo sia economicamente che politicamente a un livello 
                  in cui ogni governo diverrebbe ben presto inutile, e lo Stato 
                  perdendo ogni suo carattere politico e cioè di dominazione 
                  si trasformerà da sé in una organizzazione assolutamente 
                  libera degli interessi economici e dei comuni.
 Abbiamo qui una flagrante contraddizione. Se lo Stato fosse 
                  veramente popolare perché sopprimerlo? E se la sua soppressione 
                  è necessaria per l’emancipazione reale del popolo 
                  come si osa chiamarlo popolare? Con la nostra polemica nei loro 
                  confronti abbiamo fatto loro confessare che la libertà 
                  o l’anarchia, vale a dire la libera organizzazione delle 
                  masse operaie dal basso in alto, è la meta finale dell’evoluzione 
                  sociale e che perciò ogni Stato, non escluso il loro 
                  Stato popolare, è un giogo il che vuol dire che esso 
                  da una parte genera il dispotismo e dall’altra la schiavitù. 
                  (…). Essi affermano che solo la dittatura, la loro naturalmente, 
                  può creare la libertà del popolo; rispondiamo 
                  che nessuna dittatura può avere altro fine che quello 
                  della propria perpetuazione e che essa è capace solo 
                  di generare e di coltivare la schiavitù nel popolo che 
                  la subisce; la libertà può essere creata solo 
                  dalla libertà ovvero dalla rivolta di tutto il popolo 
                  e della libera organizzazione dei lavoratori dal basso in alto.
 (da Stato e Anarchia, 1873) 
                 
 Bakunin 
                  e Malatesta in un disegno di Gabriele Roveda, pubblicato 
                  come copertina di "A" n. 76 dell'agosto-settembre 
                  1979
 Spontaneità 
                  e dittatura  Noi rivoluzionari anarchici, fautori dell’istruzione 
                  generale del popolo, dell’emancipazione e del più 
                  vasto sviluppo della vita sociale e di conseguenza nemici dello 
                  Stato e di ogni statalizzazione, affermiamo, in opposizione 
                  a tutti i metafisici, ai positivisti e a tutti gli adoratori 
                  scienziati o no della scienza deificata, che la vita naturale 
                  precede sempre il pensiero, il quale è solo una delle 
                  sue funzioni, ma non sarà mai il risultato del pensiero, 
                  che essa si sviluppa a partire dalla sua propria insondabile 
                  profondità attraverso una successione di fatti diversi 
                  e mai con una serie di riflessi astratti e che questi ultimi, 
                  prodotti sempre dalla vita, che a sua volta non ne è 
                  mai prodotta, indicano soltanto come pietre miliari la sua direzione 
                  e le varie fasi della sua evoluzione propria e indipendente. 
                  In conformità con queste convinzioni noi non solo non 
                  abbiamo l’intenzione né la minima velleità 
                  d’imporre al nostro popolo, o a qualunque altro popolo, 
                  un qualsiasi ideale di organizzazione sociale tratto dai libri 
                  o inventato da noi stessi ma, persuasi che le masse popolari 
                  portano in sé stesse, negli istinti più o meno 
                  sviluppati dalla loro storia, nelle loro necessità quotidiane 
                  e nelle loro aspirazioni coscienti o inconsce, tutti gli elementi 
                  della loro futura organizzazione naturale, noi cerchiamo questo 
                  ideale nel popolo stesso; e siccome ogni potere di Stato, ogni 
                  governo deve, per la sua medesima essenza e per la sua posizione 
                  fuori del popolo o sopra di esso, deve necessariamente mirare 
                  a subordinarlo a un’organizzazione e a fini che gli sono 
                  estranei noi ci dichiariamo nemici di ogni governo, di ogni 
                  potere di Stato, nemici di un’organizzazione di Stato 
                  in generale e siamo convinti che il popolo potrà essere 
                  felice e libero solo quando, organizzandosi dal basso in alto 
                  per mezzo di associazioni indipendenti e assolutamente libere 
                  e al di fuori di ogni tutela ufficiale, ma non fuori delle influenze 
                  diverse e ugualmente libere di uomini e di partiti, creerà 
                  esso stesso la propria vita.
 Queste sono le convinzioni dei socialisti rivoluzionari e per 
                  questo ci chiamano anarchici. Noi non protestiamo contro questa 
                  definizione perché siamo realmente nemici di ogni autorità, 
                  perché sappiamo che il potere corrompe sia coloro che 
                  ne sono investiti che coloro i quali devono soggiacervi. Sotto 
                  la sua nefasta influenza gli uni si trasformano in despoti ambiziosi 
                  e avidi, in sfruttatori della società in favore della 
                  propria persona o casta, gli altri in schiavi.
 Gli idealisti di ogni risma, metafisici, positivisti fautori 
                  della supremazia della scienza sulla vita, rivoluzionari dottrinari, 
                  tutti assieme con lo stesso ardore sebbene con diversi argomenti, 
                  difendono l’idea dello Stato e del potere dello Stato 
                  riconoscendo in questo del tutto logicamente l’unica 
                  salvezza, secondo loro, della società. Del tutto 
                  logicamente perché una volta adottato il principio 
                  fondamentale, secondo noi completamente falso, che il pensiero 
                  precede la vita e l’astratta teoria la pratica sociale, 
                  e che perciò la scienza sociale dev’essere il punto 
                  di partenza delle riorganizzazioni e delle rivoluzioni sociali, 
                  essi sono necessariamente costretti a concludere che, dato che 
                  il pensiero, la teoria, la scienza, almeno per ora, costituiscono 
                  il patrimonio di una minoranza questa minoranza deve quindi 
                  dirigere la vita sociale non solo promuovendo ma anche dirigendo 
                  tutti i movimenti nazionali e che l’indomani della rivoluzione 
                  la nuova organizzazione della società dovrà farsi 
                  non per la via della libera unione dal basso in alto delle associazioni, 
                  dei comuni, dei cantoni, delle regioni, in armonia con i bisogni 
                  e con gli istinti del popolo ma unicamente per mezzo dell’autorità 
                  dittatoriale di quella minoranza di scienziati che pretende 
                  di rappresentare la volontà collettiva.
 È sulla finzione di questa pretesa rappresentanza del 
                  popolo e sul fatto concreto del governo delle masse popolari 
                  da parte di un pugno insignificante di privilegiati, eletti 
                  o no dalle moltitudini costrette alle elezioni e che non sanno 
                  neanche perché e per chi votano; è sopra questa 
                  concezione astratta e fittizia di ciò che s’immagina 
                  essere pensiero e volontà di tutto il popolo, e della 
                  quale il popolo reale e vivente non ha la più pallida 
                  idea, che sono basate in ugual misura e la teoria dello Stato 
                  e la teoria della cosiddetta dittatura rivoluzionaria.
 (da Stato e Anarchia, 1873) 
                 
 La 
                  Comune di Parigi
 Varlin e tutti i suoi amici, al pari di tutti i socialisti 
                  sinceri e come in generale tutti i lavoratori nati e cresciuti 
                  fra il popolo, dividevano al più alto grado questa prevenzione 
                  perfettamente legittima contro la dominazione esercitata dalle 
                  individualità superiori; e siccome innanzi tutto erano 
                  giusti, essi volgevano questa prevenzione, questa sfiducia, 
                  tanto contro sé stessi quanto contro gli altri. Contrariamente a questo pensiero dei comunisti autoritari, secondo 
                  me tutt’affatto erroneo, che una rivoluzione sociale possa 
                  essere decretata e organizzata sia da una dittatura, sia da 
                  un’assemblea costituente, risultante d’una rivoluzione 
                  politica, i nostri amici socialisti di Parigi hanno pensato 
                  ch’essa non poteva essere fatta e condotta al suo completo 
                  sviluppo che mediante l’azione spontanea e continuata 
                  delle masse, dei gruppi e delle associazioni popolari.
 I nostri amici di Parigi hanno avuto mille volte ragione. Poiché, 
                  effettivamente, quale è la testa così geniale, 
                  o – se si vuol parlare d’una dittatura collettiva, 
                  anche se esercitata da parecchie centinaia d’individui 
                  dotati di facoltà superiori – quali sono i cervelli 
                  tanto potenti, tanto vasti, per abbracciare l’infinita 
                  molteplicità e diversità degl’interessi 
                  reali, delle aspirazioni delle volontà, dei bisogni di 
                  cui la somma costituisce la volontà di un popolo, capaci 
                  di creare una organizzazione sociale che possa soddisfare tutti? 
                  Questa organizzazione non sarà mai altro che un letto 
                  di Procuste, sulla quale la violenza più o meno accentuata 
                  dello Stato forzerà la disgraziata società a spegnersi. 
                  È ciò che è avvenuto sempre fino ad ora, 
                  ed è precisamente a questo sistema antico dell’organizzazione 
                  obbligatoria che la rivoluzione sociale deve porre un termine, 
                  rendendo la loro completa libertà alle masse, ai gruppi, 
                  ai comuni, alle associazioni, agli individui medesimi, distruggendo 
                  una volta per sempre la causa storica di tutte le violenze: 
                  la potenza e l’esistenza stessa dello Stato. Questo deve 
                  trascinar nella sua caduta tutte le iniquità del diritto 
                  giuridico con tutte le menzogne dei culti diversi, poiché 
                  questo diritto e questi culti non sono mai stati altro che la 
                  consacrazione obbligata, tanto ideale quanto reale, di tutte 
                  le violenze rappresentate, garantite e privilegiate dallo Stato.
 È evidente che la libertà non sarà resa 
                  al mondo umano, e che gli interessi reali della Società, 
                  di tutti i gruppi, di tutte le organizzazioni locali, come pure 
                  di tutti gli individui che costituiscono la società, 
                  non potranno trovare soddisfazione vera che allorquando non 
                  vi saranno più Stati. È evidente che tutti gli 
                  interessi così detti generali della società che 
                  lo Stato è incaricato di rappresentare, e che in realtà 
                  non sono altro che la negazione generale e costante degli interessi 
                  positivi delle regioni, dei comuni, delle associazioni e del 
                  più gran numero di individui, assoggettati allo Stato, 
                  costituiscono una astrazione, una finzione, una menzogna.
 L’abolizione della Chiesa e dello Stato deve essere la 
                  prima ed indispensabile condizione della liberazione reale della 
                  società, soltanto dopo ciò essa potrà e 
                  dovrà organizzarsi in un’altra maniera ma non dall’alto 
                  in basso e dopo un piano ideato o sognato da qualche saggio 
                  o da qualche sapiente, oppure per decreti lanciati da forze 
                  dittatoriali, oppure da un’assemblea nazionale eletta 
                  a suffragio universale. Un tale sistema, come ho già 
                  detto, condurrebbe inevitabilmente alla creazione di un nuovo 
                  Stato e conseguentemente alla formazione di una aristocrazia 
                  governativa, cioè d’una intera classe non avente 
                  nulla in comune con la massa del popolo, e che certo comincerebbe 
                  a sfruttare e ad assoggettare questa, col pretesto della felicità 
                  comune o per salvare lo Stato.
 La futura organizzazione sociale, deve essere fatta dal basso 
                  in alto, per mezzo della libera associazione e della federazione 
                  dei lavoratori, prima nelle associazioni, poi nei comuni, nelle 
                  regioni, nelle nazioni, e, finalmente, in una grande federazione 
                  internazionale e universale. Allora soltanto si realizzerà 
                  il vero e vivificante ordine della libertà e della felicità 
                  generali, quell’ordine che, lontano dal rinnegare, afferma 
                  al contrario e accomuna gli interessi degli individui e della 
                  società.
 Si dice che l’accordo e la solidarietà universale 
                  degli interessi individuali e della società non potranno 
                  mai realizzarsi di fatto, perché questi interessi, essendo 
                  contraddittori, non possono bilanciarsi, né arrivare 
                  ad una qualsiasi intesa. A tale obbiezione io risponderò 
                  che se finora questi interessi non sono mai ed in nessun luogo 
                  stati in mutuo accordo, ciò fu a causa dello Stato che 
                  ha sacrificato gli interessi della maggioranza a profitto della 
                  minoranza privilegiata. Ecco perché questa famosa incompatibilità 
                  degli interessi individuali con quelli della società 
                  non è altro che una frode e una menzogna politica, nata 
                  dalla menzogna teologica, la quale immaginò la dottrina 
                  del primo peccato, per disonorare l’uomo e per distruggere 
                  in lui la coscienza del proprio valore. Questa stessa falsa 
                  idea dell’antagonismo degl’interessi nacque dai 
                  sogni della metafisica, la quale, come è noto, è 
                  stretta parente della teologia.
 (da L’impero knuto-germanico, 
                  1871)  
 Max 
                  Nettlau, biografo di Bakunin Operai 
                  e contadini  Con quale diritto gli operai imporrebbero ai contadini una 
                  qualsiasi forma di governo e di organizzazione economica? Col 
                  diritto della rivoluzione, si risponde. Ma la rivoluzione non 
                  è più rivoluzione quando essa agisce dispoticamente, 
                  e quando, invece di produrre la libertà nelle masse, 
                  essa provoca la reazione nel loro seno. Il mezzo e la condizione, 
                  se non lo scopo principale della rivoluzione, è l’annientamento 
                  del principio dell’autorità in tutte le sue manifestazioni 
                  possibili, è l’abolizione completa dello Stato 
                  politico e giuridico perché lo Stato, fratello minore 
                  della Chiesa, come Proudhon ha molto ben dimostrato, è 
                  la consacrazione storica di tutti i dispotismi, di tutti i privilegi, 
                  la ragione politica di tutte le servitù economiche e 
                  sociali, l’essenza stessa e il centro di ogni reazione. 
                  Quando, in nome della rivoluzione, si vuol istituire lo Stato, 
                  non fosse altro che uno Stato provvisorio, si compie un’operazione 
                  reazionaria e si lavora per il dispotismo, non per la libertà, 
                  per l’istituzione del privilegio contro l’eguaglianza. 
                  È chiaro come il giorno. Ma gli operai socialisti della 
                  Francia, educati nelle tradizioni politiche dei Giacobini, non 
                  hanno mai voluto capirlo. Ora, saranno costretti a capirlo, 
                  per buona sorte della rivoluzione e di loro stessi. Di dove 
                  è venuta loro questa pretesa tanto ridicola quanto arrogante, 
                  tanto ingiusta quanto funesta, di imporre un ideale politico 
                  e sociale a dieci milioni di contadini che non ne vogliono sapere? 
                  Evidentemente si tratta ancora di un’eredità borghese, 
                  un legato politico del rivoluzionarismo borghese. Quale è 
                  il fondamento, la spiegazione, la teoria di questa pretesa? 
                  È la reale o supposta superiorità dell’intelligenza, 
                  dell’istruzione, in una parola della civiltà operaia 
                  sulla civiltà delle campagne. Ma sapete che con tale 
                  principio si possono legittimare tutte le conquiste, consacrare 
                  tutte le oppressioni? I borghesi non hanno avuto mai altro principio 
                  per provare la loro missione e il loro diritto di governare, 
                  o, il che significa la stessa cosa, di sfruttare il mondo operaio. 
                  Da nazione a nazione, così come da una classe all’altra, 
                  questo principio fatale, che non è altro che quello dell’autorità, 
                  spiega e afferma come un diritto tutte le invasioni e tutte 
                  le conquiste. I tedeschi non se ne sono forse sempre serviti 
                  per giustificare tutti i loro attentati contro la libertà 
                  e contro l’indipendenza dei popoli slavi e per legittimare 
                  la germanizzazione violenta e forzata? Essi dicono che è 
                  la conquista della civiltà sulla barbarie. Fate attenzione, 
                  i tedeschi cominciano già ad accorgersi che la civiltà 
                  germanica, protestante, è ben superiore alla civiltà 
                  cattolica dei popoli di razza latina in generale, e alla cultura 
                  francese in particolare. Fate attenzione che essi non si immaginino 
                  ben presto di avere la missione di civilizzarvi e di rendervi 
                  felici, nella stessa maniera in cui vi immaginate di aver la 
                  missione di civilizzare e di emancipare i vostri compatrioti, 
                  i vostri fratelli, i contadini della Francia.
 Io mi rivolterò insieme agli educandi contro tutti questi 
                  arroganti civilizzatori, si chiamino operai o tedeschi, e, rivoltandomi 
                  contro di loro, servirò la rivoluzione contro la reazione.
 (da Lettere a un francese, 
                  1870)  Lavoro 
                  manuale e lavoro intellettuale  Abbiamo dimostrato che fino a quando ci saranno due o più 
                  gradi d’istruzione per i vari strati della società, 
                  ci saranno necessariamente delle classi, vale a dire dei privilegi 
                  economici e politici per un piccolo numero di fortunati e la 
                  schiavitù e la miseria per il più grande numero. 
                  Membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori 
                  noi vogliamo l’uguaglianza e poiché la vogliamo, 
                  noi dobbiamo volere anche l’istruzione integrale, uguale 
                  per tutti. Ma se tutti sono istruiti chi vorrà lavorare? si domanda. 
                  La nostra risposta è semplice: tutti devono lavorare 
                  e tutti devono essere istruiti.
 A questo punto si risponde spesso che questa integrazione del 
                  lavoro industriale con il lavoro intellettuale non potrà 
                  ottenersi che a danno dell’uno o dell’altro: i lavoratori 
                  manuali saranno dei cattivi scienziati e gli scienziati saranno 
                  sempre degli operai veramente meschini. Sì, nella società 
                  attuale in cui il lavoro manuale e il lavoro dell’intelligenza 
                  sono ambedue falsati dall’isolamento completamente artificiale 
                  al quale sono stati entrambi condannati.
 Ma noi siamo convinti che nell’uomo vivente e completo 
                  ognuna di queste due attività, muscolare e nervosa, dev’essere 
                  sviluppata in ugual maniera e che, lungi dal nuocersi a vicenda, 
                  ciascuna deve sostenere, allargare e rafforzare l’altra: 
                  la scienza dello scienziato diventerà più feconda, 
                  più utile e più larga quando lo scienziato non 
                  ignorerà più il lavoro manuale e il lavoro dell’operaio 
                  istruito sarà più intelligente e quindi più 
                  produttivo di quello dell’operaio ignorante.
 Uomini completi Ne consegue che nello stesso interesse del lavoro come pure 
                  in quello della scienza non ci devono più essere né 
                  operai né scienziati, ma solo degli uomini.
 Si avrà questo risultato, che gli uomini i quali a causa 
                  della loro superiore intelligenza sono oggi tratti nel mondo 
                  esclusivo della scienza e una volta installati entro questo 
                  mondo e cedendo alla necessità di una posizione interamente 
                  borghese, piegano tutte le loro invenzioni all’esclusivo 
                  profitto della classe privilegiata di cui loro stessi fan parte, 
                  che dunque questi uomini una volta divenuti realmente solidali 
                  con tutti, solidali non in modo figurato o solo a parole ma 
                  di fatto, col lavoro, adatteranno altrettanto necessariamente 
                  le scoperte e le applicazioni della scienza all’interesse 
                  di tutti, e primamente, all’alleggerimento e alla elevazione 
                  del lavoro, la sola base legittima e la sola reale, della società 
                  umana.
 È possibile e perfino molto probabile che nel periodo 
                  di transizione più o meno lungo che seguirà naturalmente 
                  la grande crisi sociale le scienze più avanzate cadranno 
                  in maniera considerevole al di sotto del loro attuale livello; 
                  è altrettanto indubbio che il lusso e tutte quelle cose 
                  che costituiscono le raffinatezze della vita dovranno scomparire 
                  per molto tempo dalla società e non potranno più 
                  riapparire come godimenti esclusivi ma solo come un’elevazione 
                  della vita di tutti, solo dopo che la società avrà 
                  conquistato il necessario per tutti.
 Ma questa eclissi temporanea della scienza superiore sarà 
                  poi una disgrazia così grande? Ciò che la scienza 
                  perderà in sublime elevatezza non sarà compensato 
                  dall’allargamento della sua base?
 Indubbiamente ci saranno meno scienziati illustri ma nello stesso 
                  tempo ci saranno meno ignoranti. Non avremo più questi 
                  pochi uomini che toccano i cieli ma, in compenso, milioni d’uomini 
                  che cammineranno in modo umano sulla terra: niente semidei, 
                  niente schiavi. I semidei e gli schiavi si umanizzeranno insieme, 
                  gli uni discendendo un po’ gli altri salendo molto. Non 
                  ci sarà più posto allora né per la divinizzazione 
                  né per il disprezzo.
 Tutti si daranno la mano e una volta riuniti, tutti muoveranno 
                  con uno slancio nuovo verso nuove conquiste nella scienza come 
                  nella vita.
 Per cui anziché paventare questa eclissi della scienza, 
                  d’altronde assolutamente momentanea, noi la invochiamo 
                  con tutti i nostri voti perché essa avrà l’effetto 
                  di umanizzare gli scienziati e i lavoratori manuali insieme, 
                  di riconciliare la scienza con la vita.
 E siamo convinti che una volta conquistata questa nuova base 
                  i progressi dell’umanità supereranno in breve, 
                  sia nella scienza che nella vita, tutto quanto abbiamo visto 
                  sinora e tutto quel che oggi possiamo immaginare.
 Le capacità individuali Ma qui si affaccia un’altra questione: tutti gli individui 
                  hanno uguali capacità di elevarsi allo stesso grado d’istruzione? 
                  Immaginiamo una società organizzata secondo il sistema 
                  più ugualitario e nella quale tutti i fanciulli abbiano 
                  fin dalla nascita il medesimo punto di partenza sia dal punto 
                  di vista economico e sociale che da quello politico e cioè, 
                  assolutamente, uguale mantenimento, uguale educazione, uguale 
                  istruzione; non ci saranno fra queste migliaia di piccoli individui 
                  infinite differenze di energia, di tendenze naturali, di attitudini?
 Eccolo il grande argomento dei nostri avversari, borghesi puri 
                  e socialisti borghesi. Lo credono irresistibile. Proviamoci 
                  allora di dimostrare loro il contrario. Innanzitutto con quale 
                  diritto si riferiscono al principio delle capacità individuali? 
                  C’è forse posto per il loro sviluppo in una società 
                  che continui ad avere come base economica il diritto ereditario? 
                  Evidentemente no, perché fino a quando si avrà 
                  eredità l’avvenire dei fanciulli non sarà 
                  mai il risultato delle loro capacità e della loro energia 
                  individuale: sarà, prima d’ogni altra cosa, il 
                  prodotto delle condizioni di fortuna, della ricchezza o della 
                  miseria delle loro famiglie.
 Gli ereditieri ricchi ma stupidi riceveranno un’istruzione 
                  superiore, i fanciulli più intelligenti del proletariato 
                  continueranno a ricevere in eredità l’ignoranza, 
                  proprio come in pratica avviene oggi.
 Non è allora un’ipocrisia parlare, non solo nell’attuale 
                  società ma addirittura in previsione di una società 
                  riformata che continuerebbe però sempre ad avere per 
                  base la proprietà individuale e il diritto ereditario, 
                  non è un’infame truffa, ripeto, parlare di diritti 
                  individuali fondati sopra capacità individuali?
 Oggi si parla tanto di libertà individuale e tuttavia 
                  ciò che predomina non è affatto l’individuo 
                  umano, l’individuo in generale, ma è l’individuo 
                  privilegiato per la propria posizione sociale, è quindi 
                  la posizione, è la classe. Che un individuo intelligente 
                  della borghesia osi soltanto di elevarsi contro i privilegi 
                  economici di questa classe egregia e si vedrà quanto 
                  questi ottimi borghesi che adesso si riempiono la bocca di libertà 
                  individuale, rispetteranno la sua!
 E si viene a parlarci di capacità individuali! Ma non 
                  vediamo ogni giorno le migliori capacità operaie e borghesi 
                  costrette a cedere il passo e perfino a curvare la fronte davanti 
                  alla stupidità degli ereditieri del vitello d’oro? 
                  La libertà individuale, non privilegiata ma umana, le 
                  capacità reali degli individui non potranno avere il 
                  loro pieno sviluppo che nella completa uguaglianza. Solo quando 
                  ci sarà l’uguaglianza delle condizioni di partenza 
                  per tutti gli uomini della terra, salvando comunque i superiori 
                  diritti della solidarietà che è e resterà 
                  sempre la principale matrice di tutti i fatti sociali, dell’intelligenza 
                  umana come dei beni materiali soltanto allora si potrà 
                  dire con le buone ragioni che oggi mancano, che ogni individuo 
                  è il figlio delle proprie opere. Da cui concludiamo che 
                  affinché le capacità individuali riescano a prosperare 
                  e perché non siano più impedite dal produrre i 
                  loro frutti occorre, prima d’ogni cosa, che tutti i privilegi 
                  individuali sia economici che politici siano fatti scomparire, 
                  vale a dire che tutte le classi siano abolite. Occorre che scompaia 
                  la proprietà individuale e il diritto ereditario; occorre 
                  il trionfo economico, politico e sociale dell’uguaglianza.
 Ma quando l’uguaglianza avrà trionfato e si sarà 
                  solida-mente stabilita non ci sarà più nessuna 
                  differenza fra le capa-cità e i gradi d’energia 
                  dei diversi individui? Ci sarà, forse non nella misura 
                  che ha oggi, ma indubbiamente ce ne sarà sempre.
 Uguaglianza nella diversità È una verità divenuta proverbiale, e che con ogni 
                  probabilità non cesserà mai d’essere una 
                  verità, che sullo stesso albero non ci siano mai due 
                  foglie identiche. A maggior ragione ciò sarà sempre 
                  vero riguardo agli uomini, dato che gli uomini sono esseri molto 
                  più complessi delle foglie. Ma questa diversità 
                  lungi dal rappresentare un danno è, al contrario, come 
                  ha molto bene osservato il filosofo tedesco Feuerbach, una ricchezza 
                  dell’umanità.
 Grazie ad essa l’umanità diviene un tutto collettivo 
                  in cui ciascuno completa tutti e ha bisogno di tutti; di modo 
                  che questa infinita diversità degli individui umani è 
                  la causa stessa, la base principale della loro solidarietà, 
                  e un argomento onnipotente a favore dell’uguaglianza. 
                  In fondo anche nell’odierna società quando si eccettuino 
                  due categorie d’uomini, gli uomini di genio e gli idioti, 
                  e quando si trascurino differenze create artificialmente dall’influenza 
                  di mille cause sociali come educazione, istruzione posizione 
                  economica e politica che si diversificano non solo in ogni strato 
                  della società ma quasi in ogni famiglia, si dovrà 
                  riconoscere che dal punto di vista delle capacità intellettuali 
                  e dell’energia morale, l’immensa maggioranza degli 
                  uomini si rassomiglia molto o almeno che essi si equivalgono, 
                  perché la debolezza di ognuno sotto un aspetto è 
                  quasi sempre compensata da una forza equivalente sotto un altro 
                  aspetto, per cui diventa impossibile dire che un uomo tolto 
                  da questa massa sia molto superiore o inferiore all’altro.
 Nella loro immensa maggioranza gli uomini non sono identici 
                  ma equivalenti e perciò uguali.
 Non rimangono quindi a disposizione dell’argomentazione 
                  dei nostri avversari che gli uomini di genio e gli idioti.
 Si sa che l’idiotismo è una malattia fisiologica 
                  e sociale. Non dev’essere quindi trattata nelle scuole 
                  ma negli ospedali e abbiamo il diritto di sperare che l’introduzione 
                  di un’igiene sociale più razionale e soprattutto 
                  più preoccupata della salute fisica e morale degli individui, 
                  di quella che esiste oggi, e l’organizzazione ugualitaria 
                  della nuova società perverranno a far scomparire completamente 
                  dalla faccia della terra questa maledetta malattia così 
                  umiliante per la specie umana.
 In quanto agli uomini di genio si deve innanzitutto osservare 
                  che fortunatamente, o se si vuole disgraziatamente, essi non 
                  sono mai entrati nella storia se non come rarissime eccezioni 
                  a tutte le regole conosciute e non si organizzano le eccezioni.
 Noi comunque speriamo che la società futura troverà 
                  nell’organizzazione realmente pratica e popolare della 
                  sua forza collettiva il mezzo per rendere meno necessari questi 
                  grandi geni, meno schiaccianti e più realmente benefici 
                  per tutti. Perché non si deve mai dimenticare la profonda 
                  sentenza di Voltaire: “C’è qualcuno che ha 
                  maggior ingegno del genio più grande, è tutta 
                  la gente”.
 Il genio popolare Si tratta quindi soltanto di organizzare questa gente per mezzo 
                  della più grande libertà fondata sulla più 
                  completa uguaglianza economica, politica e sociale per cui non 
                  si debba più aver da temere dalle velleità dittatoriali 
                  e dall’ambizione dispotica degli uomini di genio.
 In quanto a produrre uomini di genio per mezzo dell’educazione 
                  è meglio non pensarci.
 D’altra parte fra tutti gli uomini di genio conosciuti 
                  nessuno o quasi nessuno si è rivelato tale nella sua 
                  infanzia, nella sua adolescenza e nemmeno nella sua prima giovinezza.
 Essi si sono manifestati come tali solo nella loro maturità, 
                  e moltissimi sono stati riconosciuti solo dopo la loro morte, 
                  mentre tanti grandi uomini mancati, proclamati uomini superiori 
                  durante la prima giovinezza, hanno finito la loro carriera nella 
                  più assoluta nullità.
 Non sarà mai perciò nell’infanzia e nemmeno 
                  nell’adolescenza che si potranno determinare le superiorità 
                  e le inferiorità relative degli uomini, né il 
                  grado delle loro capacità, né le loro inclinazioni 
                  naturali. Tutte queste cose si manifestano e si determinano 
                  solo con lo sviluppo degli individui e dato che ci sono nature 
                  precoci e altre lentissime, quantunque nient’affatto inferiori 
                  e spesso perfino superiori, nessun maestro di scuola potrà 
                  prevedere l’avvenire e il tipo di occupazione che i fanciulli 
                  sceglieranno una volta giunti all’età della libertà.
 Ne consegue che la società prescindendo dalla differenza 
                  reale o fittizia delle inclinazioni e delle capacità 
                  e non disponendo di mezzi per determinare, né di diritti 
                  per imporre la futura carriera dei fanciulli deve a tutti un’educazione 
                  e un’istruzione assolutamente uguali.
 L’istruzione di ogni grado dev’essere uguale per 
                  tutti, di conseguenza dev’essere integrale vale a dire 
                  che essa deve preparare ogni fanciullo dei due sessi sia alla 
                  vita del pensiero che a quella del lavoro affinché tutti 
                  possano diventare in ugual maniera degli uomini completi.
  
                  (da “L’Egalité”, 
                  1869) 
 Sulla 
                  storiografia bakuniniana  Il 
                  pensiero e l’azione di Bakunin appartengono al patrimonio 
                  storico del movimento operaio e socialista e specificatamente 
                  al suo filone rivoluzionario e libertario, di cui Bakunin è 
                  stato fondatore e teorico di eccezionale valore. Chiunque abbia a cuore un minimo di obiettività storica 
                  non può non concordare con noi su questo elementare giudizio, 
                  anche se tale giudizio non implica ovviamente una ricostruzione 
                  acriticamente apologetica. Esso riguarda, al contrario il modo 
                  minimale per difendere obiettivamente la sua 
                  azione e il suo pensiero, dallo snaturamento più inaudito 
                  compiuto quasi sistematicamente dalla critica storica e ideologica 
                  di varia estrazione, con la conseguenza di rendere pressoché 
                  incomprensibile, se non agli “iniziati”, la figura 
                  e l’opera sua.
 L’aver stravolto il suo modo originario e la sua espressione 
                  storica autentica, ha comportato nella critica una serie continua 
                  di contraddizioni senza possibilità di armonia e di omogeneizzazione. 
                  I “critici” sono in completo disaccordo tra loro, 
                  dopo aver fatto di Bakunin una “caricatura storica” 
                  che, in questo modo, credono di aver relegato definitivamente 
                  nel campo della curiosità e dell’aneddotica sociale. 
                  Questa “caricatura” si basa su una “ricostruzione 
                  storica” fondata a sua volta su alcuni dati completamente 
                  falsi e su altri manomessi ed alterati in modo decisivo.
 Vediamo alcune delle storture più grossolane, per evidenziare 
                  il grado di mistificazione storica compiuto nei confronti di 
                  Bakunin.
 Innanzitutto Bakunin è stato presentato come bugiardo 
                  e codardo, in modo tale da rendere definitivamente compromessa 
                  la sua figura morale di rivoluzionario. Questo giudizio si basa 
                  sulla famosa “confessione” scritta in carcere da 
                  Bakunin e diretta allo Zar dove egli rinnega completamente il 
                  suo passato di rivoluzionario. I bolscevichi, che hanno scoperto 
                  questo manoscritto negli archivi di stato, sono stati molto 
                  lesti (e contenti) a rendere pubblica tale confessione (1), 
                  ma non altrettanto di pubblicare un manoscritto, diretto alla 
                  sorella Tatania, in cui Bakunin “pianificava” già 
                  la sua liberazione, con l’intenzione di scrivere tale 
                  confessione al solo scopo di farsi liberare (2).
 Esiste poi la “versione” di Bakunin panslavista 
                  fornitaci dai marxisti a cominciare da Marx ed Engels e che 
                  ora finalmente è stata resa nella sua giusta dimensione: 
                  l’abbandono del panslavismo democratico e rivoluzionario 
                  deve essere collocato già prima del 1865 (3). 
                  È importante far notare che in questa giusta dimensione 
                  il “panslavismo” diventa nell’azione e negli 
                  intendimenti di Bakunin, uno strumento al servizio della rivoluzione. 
                  Concezione indubbiamente errata che Bakunin in seguito abbandonerà, 
                  ma che ci permette di cogliere le vere intenzioni che l’animavano 
                  (4) .
 Inoltre, tutta una “letteratura” è fiorita 
                  sul “personaggio” Bakunin capo “carismatico 
                  e tenebroso” dell’Alleanza della democrazia socialista, 
                  e sul rapporto che questi ha avuto con il nichilista Necaev. 
                  A questo proposito farebbe testo il famoso e famigerato “Catechismo 
                  del rivoluzionario (1830)” dove sono enunciati i principi 
                  nichilisti e populisti e dove soprattutto, secondo i critici, 
                  Bakunin avrebbe espresso la sua vera dottrina. Ora nessuna prova 
                  storica, nessun documento, nessuna ragione o supposizione è 
                  in grado di avvalorare tale giudizio, che rimane pertanto patrimonio 
                  esclusivo dell’ignoranza storica e testimonianza decisiva 
                  del grado di serietà scientifica che contraddistingue 
                  tale storiografia (5).
 Esiste un “Catechismo del rivoluzionario” composto 
                  da Bakunin tra il 1864 e il 1866, parte integrante di un documento 
                  sulla “Fratellanza rivoluzionaria”, in cui Bakunin 
                  anticipa il suo pensiero sulla formazione delle classi e sulla 
                  divisione del lavoro (6). Pensiero che 
                  poi svilupperà completamente negli straordinari articoli 
                  sul lavoro manuale e sul lavoro intellettuale scritti per il 
                  giornale “L’Egalité” (7).
 Chiunque può confrontare i due “Catechismi” 
                  e verificare facilmente come il primo, scritto sicuramente da 
                  Necaev, sia una brutta copia del secondo. Con questo non si 
                  vuol dire che il “Catechismo” scritto da Bakunin 
                  sia un documento anarchico, perché è viziato da 
                  una impostazione “autoritaria” che sorregge la sua 
                  parte organizzativa e appartiene piuttosto alla tradizione “babeufista” 
                  tramandata da Filippo Buonarroti (impostazione, peraltro, di 
                  cui Bakunin non si libererà mai completamente).
 È interessante notare che in questo documento è 
                  già smentita clamorosamente la critica che Engels crederà 
                  di fare sull’approccio bakuniniano al problema dell’“eredità”. 
                  Infatti tutta la critica marxista, da Engels in poi, ha accreditato 
                  a Bakunin una concezione sul rapporto “struttura-sovrastruttura” 
                  che non gli appartiene.
 Bakunin sarebbe stato convinto che “le leggi sull’eredità 
                  sono una causa e non l’effetto dei rapporti di produzione 
                  capitalistici” e pertanto avrebbe in questo modo capovolto 
                  i canoni elementari della scienza marxista. Ma questo è 
                  completamente falso perché Bakunin sia nel documento 
                  del 1866, sia nel discorso da lui pronunciato a Basilea nel 
                  1869, sviluppa una concezione rivelatasi storicamente esatta, 
                  per la quale “struttura” e “sovrastruttura” 
                  sono, a seconda dei casi, determinanti e influenzabili a vicenda 
                  (8). Ed è proprio in base a questa 
                  impostazione che Bakunin poté sviluppare tutta la sua 
                  teoria sullo Stato quale struttura “autonoma”, capace 
                  cioè di riprodursi anche in società nelle quali 
                  i “rapporti di produzione capitalistici” non esistono 
                  più.
 Giampietro 
                  “Nico” Berti 
                  
                    | Note 
                        V. 
                          Polonskij, “M. Bakunin, storia dell’intelligencija 
                          russa”, ed. di Stato, 1925 Mosca.  
                        Scriveva 
                          Bakunin in tale manoscritto “… Quella di 
                          poter ricominciare ciò che mi ha condotto qui 
                          (…) ma non ho mutato niente dei miei 
                          antichi sentimenti… al contrario li ha 
                          resi più ardenti e assoluti che mai.”. 
                          Vedi M. Bakunin, “Confession”, traduit du 
                          russe par P. Brupbacher, avec une introduction de F. 
                          Brupbacher et des annotations de M. Nettlau, Paris, 
                          Rieder, 1932 (si può trovare alla biblioteca 
                          Feltrinelli di Milano). È inutile aggiungere 
                          che la dimostrazione pratica degli intendimenti 
                          di Bakunin, consiste nei suoi 15 anni di militanza rivoluzionaria 
                          seguiti alla fuga dalla Siberia.  
                        Vedi 
                          a questo proposito F. Venturi, “Il populismo russo” 
                          secondo volume, ed. Einaudi, 1972, Torino.  
                        Vedi 
                          sempre F. Venturi, op. cit. Vedi anche W. Giusti “Il 
                          panslavismo” Ist. di Politica Int.  
                        Qui 
                          l’ultima parola, una volta per tutte l’ha 
                          detta M. Confino “Bakunin et Necaev. Les débuts 
                          de la rupture”, articolo che assieme ad altri 
                          materiali si trova in “M. Bakunin et ses relations 
                          avec S. Necaev. 1870-1872. Ecrits et materiaux”. 
                          Introductions et annotations de A. Lehning, in “Archives 
                          Bakunin”, Istituto Internazionale di Amsterdam, 
                          vol. IV, Leiden, 1871. Bakunin infatti scrive a Necaev 
                          (2 luglio 1870) “…il vostro catechismo… 
                          e le vostre idee…”. M. Nettlau 
                          ottant’anni fa aveva già detto che il catechismo 
                          non poteva essere di Bakunin, perché troppo diverso 
                          dal suo stile e dal suo linguaggio (Nettlau era un filologo) 
                          oltre che dal suo pensiero. Ma allora molti banditi 
                          ci risero sopra, non adesso però che è 
                          stata ritrovata la lettera e le prove. Per Nettiau vedi 
                          il primo volume delle “Oeuvres” di Bakunin 
                          ed. Stock, Paris 1912, pag. XI.  
                        Si 
                          trova interamente in “Stato e Anarchia” 
                          Ed. Feltrinelli, Milano, 1968, pag. 311. Sebbene sia 
                          datato fabbraio-marzo 1868, esso è da ritenersi 
                          scritto prima del 1866. Vedi a questo proposito la lettera 
                          di Bakunin a Herzen datata 19 luglio 1866. Si trova 
                          in “Lettres à Herzen et à Ogareff 
                          (1860-1874) a cura di Dragomanov, Paris, Perrin, 1896. 
                          Per una ricostruzione di questo periodo vedi M. Nettlau, 
                          Bakunin e l’Internazionale in Italia, ed. Il Risveglio, 
                          Ginevra, 1928, pag. 55 e segg. (In questo documento 
                          ci sono in embrione tutte le idee basi di Bakunin, questo 
                          oltre tutto smentisce la tesi centrale del libro di 
                          A. Romano). Vedi il punto “i” di tale documento. 
                           
                        Si 
                          trovano in “Stato e Anarchia” op. cit. pag. 
                          267 e segg.  
                        Nel 
                          documento del 1866 sopra citato è scritto “Ma 
                          secondo una legge inerente alla società, l’inugliaglianza 
                          di fatto produce sempre l’inuguaglianza 
                          di diritto e l’inuguaglianza sociale 
                          diventa necessariamente inuguaglianza politica”. 
                          Vedi “Stato e Anarchia” op. cit., pag. 322. 
                          Per il discorso di Basilea vedi T. Martello “Storia 
                          dell’Internazionale”, ed. Salmin, Padova, 
                          1873, pag. 104.  |  Per informazioni sulle altre Letture (Malatesta, Kropotkin, 
                  Proudhon), sulla rivista anarchica “A”, sui numerosi 
                  nostri altri prodotti collaterali 
                  (compresi i Cd e il 
                  Dvd legati a Fabrizio De André), contattateci e/o 
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